4. Storia disinvolta dell'America Latina

 

Siamo vitalmente coscienti della rivoluzione sociale che progredisce e ci identifichiamo con essa... Non si possono cercare un nuovo uomo e una nuova società attraverso vie capitalistiche, perché i moventi insiti in ogni tipo di capitalismo sono il lucro privato e la proprietà privata per il lucro. L'oppresso non si libera facendosi capitalista. Un nuovo uomo e una nuova società diventeranno possibili solo quando il lavoro sarà effettivamente considerato come l'unica fonte umana di utilità; quando l'incentivo fondamentale dell'attività economica dell'uomo sarà l'interesse sociale; quando il capitale sarà subordinato al lavoro e, pertanto, quando i mezzi di produzione saranno di proprietà sociale... Solamente il socialismo potrà offrire all'America Latina il vero sviluppo [...]. Non so che forma di socialismo; ma questa è la direzione che l'America Latina deve seguire. Per parte mia, credo che debba essere un socialismo democratico... Una volta per sempre mi dichiaro, assieme ai miei compagni di Golconda, rivoluzionario e socialista, perché non possiamo rimanere indifferenti di fronte alla struttura capitalistica che sta portando il popolo della Colombia e dell'America Latina alla più tremenda frustrazione e all'ingiustizia... La storia della proprietà privata dei mezzi di produzione mette in evidenza la necessità della sua limitazione o della sua soppressione a beneficio del bene sociale. Bisognerà dunque, optare per la proprietà sociale dei mezzi di produzione... E' principalmente ai popoli poveri e ai poveri di tutti i popoli che spetta il compito di realizzare la propria promozione... Rifiutando ogni tipo di paternalismo si afferma che la trasformazione sociale non è puramente una rivoluzione per il popolo ma che lo stesso popolo, soprattutto le classi contadine e operaie, sfruttate e ingiustamente emarginate, debbono essere gli attori della propria liberazione... Solamente una rottura radicale col presente stato di cose, una profonda trasformazione del sistema di proprietà, l'accesso al potere della classe sfruttata, una rivoluzione sociale che rompa con questa dipendenza, possono permettere il passaggio a una società diversa, a una società socialista... Tutto questo implica non solamente migliori condizioni di vita, un radicale mutamento di strutture, una rivoluzione sociale, ma molto di più: l'invenzione continua e sempre incompiuta di un nuovo modo d'essere degli uomini, una rivoluzione culturale permanente.

Questo è un cut-up di affermazioni registrate alla fine degli anni Sessanta. Non sono state pronunciate e scritte dai guerriglieri di uno dei tanti Fronti di Liberazione intitolati a un martire della lotta contro il neo-colonialismo yankee. Sono parole di preti, vescovi e teologi latinoamericani.
La collusione del clero autoctono con i movimenti di liberazione e di guerriglia in America Latina ha rappresentato per Roma uno dei problemi più grossi degli ultimi trent'anni, che ha potuto essere solo parzialmente risolto con un dispiego di mezzi e di uomini imponente.
Non si trattava infatti di fare i conti con la defezione di qualche prete di strada "obnubilato" dall'eccessiva frequentazione degli ultimi della terra. La Chiesa latinoamericana era riuscita a ritagliarsi uno spazio d'azione teorica e pratica, senza rompere formalmente il legame con Roma.
L'esperienza della Chiesa in quel continente non poté essere trattata come un fenomeno periferico, poiché l'America Latina è la regione del globo col maggior numero di battezzati, una sacca di consensi enorme. Per di più appunto, il movimento di ecclesiastici e teologi che diede vita alla singolare commistione tra Vangelo e teorie marxiste non si autoescludeva affatto dall'ecumene cattolica, ma pretendeva di riformare l'operato della Chiesa in tutta l'America Latina, fornendo anche un modello per quello che veniva definito il Terzo Mondo.
Fino ad allora le chiese nazionali dei paesi cattolici dell'emisfero meridionale avevano semplicemente vissuto di rimessa sui dettami di Roma, senza riuscire a produrre un pensiero adatto alle proprie contingenze. Dalla fine degli anni Sessanta, ovvero dalla fine del Concilio Vaticano II, alcuni teologi latinoamericani si assunsero la responsabilità di interpretare i documenti conciliari alla luce della tragedia vissuta dalla maggior parte della popolazione nel loro continente. L'apertura al mondo, la rievangelizzazione della società, il recupero del legame con le masse popolari, vennero letti come la necessità da parte del clero di compiere una chiara scelta di campo nel conflitto sempre più macroscopico che vedeva i paesi poveri d'America soggetti allo sfruttamento sistematico e brutale degli Stati Uniti. Le borghesie "non-illuminate" e le classi dirigenti di quei paesi furono identificate come responsabili della politica di saccheggio e svendita del continente agli interessi delle grandi compagnie straniere.
Nacque così quella che è passata alla storia come teologia della liberazione, un efficace e originale coacervo di esegesi biblica e teoria rivoluzionaria.
I prodromi della particolarità teologica latinoamericana si possono individuare nella Conferenza episcopale di Medellìn (26 agosto-6 settembre 1968, seconda Conferenza dei vescovi dell'America Latina, la prima si era tenuta a Rio de Janeiro nel '55).
La conferenza aveva come tema "La Chiesa nell'attuale trasformazione dell'America Latina alla luce del Concilio Vaticano II".

Vescovi, religiosi, sacerdoti, laici ed esperti radunati a Medellìn discutevano di trasformazione, ma non era solo la chiesa cattolica di allora che sentiva di star attraversando dei momenti decisivi. Venti di protesta e di cambiamento soffiavano in molte parti del mondo, prime fra tutte Stati Uniti e Francia. E in vari pesi latinoamericani, leader campesinos, operai e studenti stavano compiendo la scelta della lotta armata.
Era come se questi e molti altri pezzi della storia avessero messo la chiesa contro un muro, esigendo da essa dei cambiamenti, al suo interno e nel suo modo di rapportarsi con la società. (P. Lima, La Chiesa cambiò volto, in "Jesus", anno XX, settembre 1998, n. 9, p. 28).

Quello di Medellìn fu un evento unico ed epocale. In nessun'altra parte del mondo si erano mai organizzate iniziative del genere: la Chiesa di un intero continente - e un continente "sottosviluppato" - si riuniva per discutere le strategie di cambiamento alla luce delle grandi trasformazioni storiche. Si potrebbe dire che, dopo il Concilio Vaticano II, si è trattato di uno degli episodi più importanti per la storia della Chiesa del Novecento. Soprattutto perché per la prima volta una Chiesa periferica come quella latinoamericana si metteva sullo stesso piano di quella romana ed europea, senza complessi d'inferiorità. Dopo più di quattro secoli l'America Latina non era più un continente da evangelizzare, ma una palestra d'idee e suggerimenti per tutta la Chiesa.
I lavori furono aperti da Paolo VI in persona ed ebbero come linea guida la cosiddetta opzione per i poveri. Sostanzialmente si chiedeva alla Chiesa di compiere una netta scelta di campo e di schierarsi a favore dei diseredati e degli sfruttati della terra, non soltanto mettendo a disposizione di costoro la propria struttura capillare di riferimento, ma anche facendosi portavoce della disgrazia collettiva e sollecitando soluzioni radicali al problema della miseria endemica.
I teologi della liberazione avrebbero utilizzato proprio questo assunto centrale come trampolino di lancio del proprio operato.

Dalle intuizioni di Medellìn, gli Stati Uniti e i regimi militari latinoamericani si sentirono minacciati. Il famoso Rapporto Rockefeller, agli inizi degli anni settanta, indicava la chiesa come il principale problema per gli interessi americani nel continente (Ibidem, p. 29).

Il Rapporto Rockefeller (The Rockefeller Report on the Americas, 1969) affermava che la Chiesa in America Latina stava diventando "una forza orientata al rinnovamento, anche rivoluzionario se fosse necessario" e che essa paradossalmente si trovava nella stessa situazione dei giovani del Nord America, "mossa da profondo idealismo ma, come succede in questi casi, vulnerabile alla penetrazione sovversiva, pronta a intraprendere, se fosse necessario, una rivoluzione per porre termine alle ingiustizie, ma senza avere chiaro davanti a sé qual è la natura ultima della stessa rivoluzione né la forma di governo che la giustizia cercata dalla Chiesa può realizzare"(cit. in G. Gutierrez, Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1992, p.175).
Per la verità non erano certo le blande - per quanto innovative - affermazioni di Medellìn a suscitare tanta preoccupazione nell'establishment economico statunitense, quanto piuttosto l'azione diretta e i discorsi di molti rappresentanti della Chiesa, che con il loro appoggio ai movimenti di liberazione stavano rendendo difficile ai regimi militari retti dagli USA il compito di isolare le guerriglie montanare come bande di terroristi.
I preti radicali e quelli che di lì a qualche anno sarebbero diventati i teologi della liberazione fungevano da collante sociale tra le opposizioni politiche, anche armate, ai regimi fascisti latinoamericani e i campesinos.
Il problema era serio, i capitalisti nordamericani non sbagliavano a preoccuparsi. Se con l'eliminazione e la repressione degli intellettuali si poteva sperare di impedire la diffusione del marxismo, non sarebbe stato certo possibile togliere di mezzo il cattolicesimo. Si poteva però agire in due direzioni. Da un lato eliminare i suoi rappresentanti più scomodi, e questo lavoro sporco potevano tranquillamente assolverlo i macellai alla presidenza delle varie Banana Republics; dall'altro contrastare il cattolicesimo sul campo, creando ad esso degli antagonisti. Le strategie che vennero approntate per contrastare la Chiesa militante, oltreché naturalmente i movimenti libertari, furono in buona parte affidate a un'eminenza grigia della politica "sotterranea" statunitense: J. Edgar Hoover, capo dell'Fbi per oltre cinquant'anni.
Stiamo parlando degli anni della presidenza di Lindon Johnson. Gli anni in cui fu approntato il Cointelpro, Counterintelligence Program,

che prevedeva una strategia articolata di "azioni repressive coordinate da parte dello stato nei confronti di tutto il movimento di protesta degli Stati Uniti, bianco e nero, pacifista e violento, radicale e rivoluzionario". In questa strategia era anche considerata la possibilità di dare spazio, soldi e appoggio a culti o sette come quella, per esempio, degli arancioni del reverendo Moon, che un giorno arrivò a comprarsi uno dei quotidiani della capitale degli Stati Uniti, il Washington Time, per poter meglio condizionare le coscienze dei cittadini più fragili o meno informati. (G. Minà, Il Papa e Fidel. Un inatteso dialogo di fine secolo, Sperling & Kupfer, Milano 1998, p. XV).

L'appoggio strumentale alle congregazioni cristiane protestanti da parte degli USA, è un punto centrale della storia ecclesiastica latinoamericana, che rimbalza fino al presente e ci aiuta a spiegare "retrospettivamente" le scelte operate da Wojtyla negli anni Novanta. A scanso di equivoci, occorre ricordare che l'avversione degli Usa per la Chiesa cattolica latinoamericana data ai primi anni del secolo. Già nel 1912 il presidente Theodore Roosevelt indicava nel cattolicesimo il principale ostacolo alla penetrazione degli Stati Uniti in America Latina (cfr. M. Stefanini, Geopolitica dell'avanzata protestante in America Latina, in "Limes" n° 3, giugno-agosto 1993, p. 176). Il "pauperismo" cattolico (ricordiamo che l'America Latina è stata evangelizzata per la maggior parte dagli Ordini Mendicanti, Francescani e Domenicani, ma anche dai Gesuiti, i quali per primi cercarono di attivare le forze interne al continente sia in campo economico che politico) cozzò da subito con l'individualismo imprenditoriale protestante dei nordamericani, creando problemi alle politiche neo-colonialiste statunitensi.
Proprio il neo-colonialismo è stato lo spartiacque tra due epoche della storia religiosa dell'America Latina. Dalla fine dell'Ottocento fino a circa la metà del Novecento, prima dell'avvento delle grandi compagnie di sfruttamento minerario e territoriale nordamericane, il protestantesimo, per quanto minoritario (fino al 1950 i protestanti non arrivearono mai a superare l'1% della popolazione latinoamericana), aveva svolto una funzione "progressista" nel continente. Ad esempio aveva favorito l'autoimprenditorialità dei coloni, ma soprattutto era stato abilmente utilizzato dalle borghesie creole per contrastare il potere del clero cattolico e dei partiti monarchico-conservatori. L'afflusso di luterani, battisti mennoniti, ed altri evangelici dall'Europa e dal Nord America era stato addirittura favorito dai borghesi massonici e liberali, per mettere in crisi il sistema clerico-feudale e le Chiese cattoliche nazionali, ponendo il problema della libertà di culto e indebolendo l'influenza ecclesiastica sulla politica interna.
Così la progressiva ondata di missionari dagli Stati Uniti era riuscita a sortire l'effetto di far passare al protestantesimo made in USA (metodismo e congregazionalismo) la maggior parte degli emigrati luterani e calvinisti.
La tappa successiva della penetrazione evangelico-protestante in America Latina iniziò nel 1906 a Los Angeles, quando il pastore afro-americano Seymour fondò il Movimento Pentecostale. Si trattava di una congregazione di "entusiasti", che si diffuse a macchia d'olio in America Latina, scavalcando perfino le chiese protestanti storiche.

Per le Chiese riformate "storiche", il rapporto tra Dio e il fedele può passare solo attraverso il libero esame delle Scritture. Per i pentecostali, invece, è possibile un dialogo diretto, grazie a un'esperienza entusiastico-emozionale di immersione nello Spirito Santo, come sarebbe appunto avvenuto agli apostoli in occasione della Pentecoste. (M. Stefanini, op. cit., p. 180)

Il pentecostalismo si impiantava direttamente sul sostrato religioso pre-cristiano del continente e si apriva alla religiosità popolare, sfruttando un'organizzazione ecclesiastica quanto mai decentrata e in cui tutti potevano accedere al sacerdozio. La vaghezza della dottrina e lo spiritualismo esasperato spoliticizzavano completamente l'attitudine religiosa dei credenti, ma essenzialmente spingevano a destra le masse analfabete. Vale la pena ricordare che proprio i pentecostali appoggiarono il regime di Pinochet in Cile dopo il golpe.
Dunque i pentecostali prepararono il terreno per quanto sarebbe accaduto nella seconda metà del secolo.
Nel 1949 la Cina maoista chiuse le frontiere ai missionari cristiani. In particolare gli evangelizzatori statunitensi si riversarono a valanga sull'America Latina. Questi ultimi scoprirono che, semplicemente "pentecostalizzando" le pratiche religiose, non era affatto difficile insediarsi saldamente in quei territori.

Cresce la presenza dei fondamentalisti. E crescono avventisti, testimoni di Geova e mormoni. Mentre avventisti e testimoni di Geova tendono all'apoliticità, mormoni e fondamentalisti sono da sempre tra le colonne portanti della destra statunitense. Tra i missionari si diffonde un anticomunismo militante. Sono gli anni della guerra fredda. E l'esperienza cinese ha dimostrato che per la missione non c'è futuro se i comunisti prendono il potere.
Comincia adesso l'intervento della CIA? Difficile pensarlo. In tutto il mondo, la Chiesa cattolica è allineata con Washington nella crociata anticomunista. In America Latina, l'obiettivo della Casa Bianca è piuttosto la formazione di partiti democristiani, che in Europa si sono rivelati utili come diga anticomunista. (Ibidem, p. 185).

Ciononostante proprio tra gli anni Quaranta e Cinquanta gli Stati Uniti sperimentarono la prima collusione d'interessi con le chiese evangeliche fondamentaliste; in particolare la Southern Baptist Convention, attraverso la sua organizzazione missionaria Nuevas Tribus, e l'Instituto linguistico de verano (Ilv). Entrambe queste associazioni, con la scusa di alfabetizzare gli indios e provvedere alla traduzione della Bibbia nei dialetti locali, distrussero le culture autoctone di intere popolazioni amazzoniche, attraverso un'occidentalizzazione forzata, e convinsero gli indios di alcune aree a trasferirsi altrove per lasciare i territori alla Texaco o alle multinazionali della gomma statunitensi (cfr. P. Canova, Un vulcano in eruzione. Le sètte in America Latina, EMI, Bologna 1987, pp. 125-145 e M. Stefanini, op. cit., p. 185).
Ma fu soprattutto a partire dagli anni Sessanta che le sette evangeliche, spiritualiste e fondamentaliste riuscirono ad acquisire un potere territoriale notevole, anche a scapito della Chiesa cattolica. Le congregazioni religiose si strutturano come organizzazioni clientelari di assistenza, prendendo piede soprattutto alla periferia delle nuove metropoli in costante espansione. E' da notare che nessuna di esse, si trattasse di chiese riformate "storiche" o sette fondamentaliste o pentecostali, partorì una critica sociale radicale, anzi, ciascuna partecipò con mezzi diversi al contenimento sociale praticato dalla Chiesa cattolica fino a quel momento, continuando però a eroderne la base d'appoggio.
Nella seconda metà degli anni Sessanta ci fu un cambiamento. Dal seno stesso della Chiesa nacquero i preti rivoluzionari e i teologi della liberazione, che non solo sfidavano la Chiesa sul terreno del rinnovamento post-conciliare, ma tutto sommato rappresentavano anche l'unica risposta forte e determinata al dilagare incontrastato del protestantesimo e del fondamentalismo cristiano.
Eccoci approdati a un primo punto fermo. Roma non poté affrontare di petto i teologi della liberazione "filo-comunisti", mettendoli a tacere e basta. Innanzi tutto perché essi erano rappresentativi di una mentalità diffusa, ben difficilmente isolabile, ma anche perché le problematiche sociali ed economiche che pretendevano di affrontare erano prevedibilmente il punto di scontro strategico con gli avversari religiosi. Di fronte all'ideologia "sviluppista" e neo-capitalista dei protestanti filo-statunitensi, quella dei teologi della liberazione e dei preti militanti era una risposta forte. Il rischio di perdere il continente a più alta popolazione cattolica del mondo (41,6% della popolazione cattolica mondiale) era inaccettabile. Eppure era un rischio reale. Basti pensare che se nel 1935 i protestanti erano ancora due milioni e mezzo, nel 1960 erano già 10 milioni, in aumento esponenziale.
In poche parole il Vaticano che si accingeva ad inaugurare una nuova politica sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, decise di affinare una strategia di contenimento della teologia della liberazione, che con il passare degli anni e lo sbollire dei fermenti rivoluzionari, avrebbe consentito il pieno recupero della causa dei poveri, nonché fornito un baluardo contro le manovre del Cointelpro, mantenendo al contempo la Chiesa al riparo dai rischi di una rivoluzione sociale.
L'operazione non consistette tanto nell'imbavagliare i preti militanti (per frenare il loro slancio anticapitalistico fu infatti sufficiente evitare di entrare in contrasto diplomatico con i regimi fascisti latinoamericani, che li stavano ammazzando uno dopo l'altro), quanto nel redarguire a dovere i teorici e le figure di spicco della teologia della liberazione.
Il lavoro fu gestito sul piano dell'immagine dallo stesso Giovanni Paolo II; sul piano dottrinale invece agì il vero architetto di questa operazione: il Cardinale Joseph Ratzinger, nominato da Wojtyla capo della Congregazione per la Dottrina della Fede, proprio all'indomani dell'elezione pontificia.

 

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