3. Il papa che non ha sconfitto il comunismo
Visioni della storia interessate e di parte, anche molto distanti tra di loro, convergono nel sottrarre valore ai veri protagonisti delle vicende storiche (nel caso concreto un proletariato che arriva a coincidere con l'intera popolazione) e ad attribuire invece un'importanza determinante ai potenti e ad i loro servizi segreti. Così si è affermata in ambienti cattolici anticomunisti una visione taumaturgica dell'intervento di Giovanni Paolo II "liberatore dell'umanità dai mali del socialismo", simmetrica a quella diabolica alimentata dai regimi stalinisti e dai loro difensori circa il complotto CIA/Vaticano che sarebbe all'origine dell'estate di Danzica. (C. Longobardo, op. cit., p. 37).
Vale la pena spendere qualche parola sulla leggenda che vuole
Wojtyla giustiziere dei regimi stalinisti europei, basata essenzialmente
sul ruolo svolto dal papa in merito alle vicende polacche, neegli
anni Ottanta.
I viaggi pontifici in Polonia (1979, 1983 e 1987) hanno effettivamente
avuto una funzione centrale nei radicali cambiamenti di quel paese,
ma hanno anche rivelato fin da subito quale fosse la visione wojtyliana
della Chiesa e del compito ad essa assegnato nella società
politica. Visione che nello stesso arco di tempo, come vedremo,
sarebbe stata confermata in America Latina.
La Polonia è stata probabilmente la più grande anomalia
politica dell'intero blocco socialista dell'Est Europa. Fin dalla
nascita del sindacato cattolico Solidarnosc (1980),
questa particolarità saltò agli occhi degli osservatori
internazionali. In un paese socialista la classe operaia si autorganizzava
contro la nomenklatura, l'ipocrisia del partito unico e lo stato
di polizia: la farsa della dittatura del proletariato come dittatura
sul proletariato veniva sbugiardata dai fatti.
La reazione non poteva farsi attendere: nell'81, il colpo di stato
militare di Jaruzelski mise fuori legge Solidarnosc e ne
incarcerò i leader, instaurando la legge marziale.
L'anomalia consisteva però anche nel fatto che la Polonia
era ed è, insieme all'Irlanda, il paese più cattolico
del continente, povero, con un numero di figli pro capite triplo
rispetto all'Europa occidentale e una chiesa di base radicata
capillarmente sul territorio, legata indissolubilmente alla popolazione
operaia e contadina. Come l'Irlanda - la cui resistenza alla
modernizzazione e laicizzazione dei costumi e della mentalità
nasce da secoli di occupazione coloniale britannica e dal perdurare,
anche dopo la liberazione, del conflitto religioso nord-irlandese
- anche la Polonia è da sempre terra di conquista, da ultima
quella sovietica. A partire dal dopoguerra il "congelamento"
della società polacca fu garantito dal socialismo reale,
che tagliò fuori i paesi dell'Est dalle vicende culturali
mondiali per quasi cinquant'anni. L'imposizione di un regime dall'esterno
(Urss) favorì la sopravvivenza di un cattolicesimo retrogrado
e integralista, sancendo ulteriormente il legame tra Chiesa e
base popolare.
Wojtyla, in qualità di primo esponente di quel modello
ecclesiastico, non poteva ignorare le vicende polacche. In Polonia
i preti si trovavano schierati al fianco del proletariato in un
tentativo di resistenza di massa al regime stalinista.
Il primo viaggio voluto da Giovanni Paolo II fu proprio nella
terra natìa, pochi mesi dopo l'elezione pontificia. E il
fatto che Solidarnosc nascesse l'anno successivo non fu
del tutto casuale.
A questo si aggiunga che nell'81 Wojtyla pubblicò l'enciclica
Laborem exercens, completamente incentrata sul problema
del lavoro, del lavoro salariato in particolare, e delle forme
d'associazione e solidarietà tra lavoratori, alle quali
veniva riconosciuto un ruolo indispensabile nella società.
Ed è interessante notare come il papa polacco, pur ribadendo
l'assunto dell'inviolabilità della proprietà privata,
ne ridimensionasse il significato, giudicando inadeguato e ingiusto
il "dogmatismo" liberista:
Da questo punto di vista, continua a rimanere inaccettabile la posizione del "rigido" capitalismo, il quale difende l'esclusivo diritto della proprietà privata dei mezzi di produzione come un "dogma" intoccabile nella vita economica. Il principio del rispetto del lavoro esige che questo diritto sia sottoposto ad una revisione costruttiva, sia in teoria che in pratica. (Giovanni Paolo II, Laborem exercens, Edizioni Paoline, Roma 1981, p. 33).
L'analisi però si spingeva oltre, trasformandosi in critica al capitalismo di stato stalinista, e alludendo più o meno velatamente al corso della lotta del sindacato polacco:
Se dunque la posizione del "rigido" capitalismo deve essere continuamente sottoposta a revisione in vista di una riforma sotto l'aspetto dei diritti dell'uomo, intesi nel modo più vasto e connessi con il suo lavoro, allora si deve affermare che queste molteplici e tanto desiderate riforme non possono essere realizzate mediante l'eliminazione aprioristica della proprietà privata dei mezzi di produzione. Occorre, infatti, osservare che la semplice sottrazione di quei mezzi di produzione (il capitale) dalle mani dei loro proprietari privati non è sufficiente per socializzarli in modo soddisfacente. Essi cessano di essere proprietà di un certo gruppo sociale, cioè dei proprietari privati, per diventare proprietà della società organizzata, venendo sottoposti all'amministrazione ed al controllo diretto di un altro gruppo di persone, di quelle cioè che, pur non avendone la proprietà, ma esercitando il potere nella società, dispongono di essi al livello dell'intera economia nazionale oppure dell'economia locale.
Questo gruppo dirigente e responsabile può assolvere i suoi compiti in modo soddisfacente dal punto di vista del primato del lavoro - ma può anche adempierli male, rivendicando al tempo stesso per sé il monopolio dell'amministrazione e della disposizione dei mezzi di produzione e non arrestandosi neppure davanti all'offesa dei fondamentali diritti dell'uomo. Così, quindi, il solo passaggio dei mezzi di produzione in proprietà dello Stato, nel sistema collettivistico, non è certo equivalente alla "socializzazione" di questa proprietà. (Ibidem, p. 34-35).
Da qui Wojtyla traeva le conseguenze della necessità
di un'economia regolata, che tenesse conto dei diritti del lavoratore
e al tempo stesso salvaguardasse la proprietà privata,
o quanto meno, in un sistema socialista, il lavoro "in proprio",
come fattore indispensabile allo sviluppo e al buon funzionamento
del processo economico.
Questi hanno l'aria di essere suggerimenti tra le righe proprio
a quei paesi dell'Est che si apprestavano a entrare in crisi.
Si predicava la via di un riformismo moderato e graduale, senza
scossoni, in grado di salvaguardare l'unità sociale, senza
sfociare in guerra civile o nuova guerra di classe.
E così Solidarnosc non è stata il braccio
armato di Wojtyla contro i "perfidi comunisti", come
pretende una certa storiografia, ma anzi ha rappresentato un grosso
problema per la Chiesa cattolica e per il suo vertice, un problema
da gestire e da volgere a proprio esclusivo vantaggio.
Come sottolinea Carla Longobardo nel suo libro sulla politica
wojtyliana, Giovanni Paolo II ha saputo dosare il proprio appoggio
a Solidarnosc, in modo da poterne usare la forza dirompente
contro il vacillante e delegittimato potere del POUP (Partito
Operaio Unificato Polacco), per difendere la Chiesa e il cattolicesimo
polacco. Quando però l'organizzazione del sindacato si
è proposta come alternativa politica, in grado di abbattere
la burocrazia stalinista con un'azione di rivolta dal basso, ecco
che il papa e i vescovi polacchi si sono affrettati a richiamare
i sindacalisti all'ordine, appellandosi all'unità nazionale,
spaventati dall'ipotesi di perdere il controllo della situazione
(cfr. C. Longobardo, op. cit., pp. 38-41).
Così Solidarnosc è stata abilmente trasformata
e "ripulita" dalle sue componenti più radicali.
La pratica dello sciopero generale è stata dichiaratamente
ostacolata dal Vaticano, con costanti appelli alla calma e alla
pacificazione sociale. All'organizzazione è stato affidato
dalla Chiesa stessa il compito di salvare il paese, prendendo
sulle spalle il carico dei danni causati dal regime militarista
e assumendosi responsabilità "storiche", certo
non proprie di un sindacato operaio. Del sindacato di classe non
è rimasta nemmeno l'ombra: nell'89, quando ormai Gorbaciov
aveva liberato i paesi satelliti dal controllo sovietico, Walesa
ha potuto proporsi come il presidente della nuova Polonia e Solidarnosc
come partito di governo. La Chiesa cattolica ha ottenuto una totale
libertà d'azione, e si è rapidamente volta agli
altri paesi dell'Est.
Per l'esperienza del sindacalismo di massa polacco è stato
l'inizio della fine.
Lo stesso Wojtyla ha dimostrato di aver sbagliato valutazione
sulla sua terra, dando per scontato di aver salvato capra e cavoli,
appoggiando l'ascesa di Lech Walesa senza consentire sbocchi radicali
alla rivolta operaia di Solidarnosc. Il risultato è
stato che di lì a pochi anni i polacchi hanno abbandonato
il leader della lotta popolare contro Jaruzelski, facendo vincere
il partito socialdemocratico, gli ex-comunisti, "laici"
e "modernisti". La voglia di occidente è prevalsa
sul tradizionalismo cattolico. Da allora, dalla batosta elettorale
subita da Walesa, non pervengono più notizie politiche
dalla Polonia, i media se ne sono completamente disinteressati
e anche il papa pare aver dimenticato la "gloriosa"
stagione di Danzica. Sembra quasi che per anni quella polacca
non sia stata sbandierata come la grande vittoria wojtyliana sul
comunismo.
Il motivo va ricercato però anche nell'esplosione bellica
che ha investito la Jugoslavia all'inizio degli anni Novanta,
e che ha catalizzato l'attenzione degli osservatori e della diplomazia
internazionale. Si tratta di un'altra tappa saliente della sconfitta
vaticana nell'Est europeo.
Se Wojtyla sperava di riconquistare l'Europa orientale, aprendo
il dialogo con le chiese ortodosse e predicando l'unità
cristiana come leva per risollevare quei paesi dalle miserie del
post-socialismo reale, la sua strategia si è squallidamente
infranta contro i vecchi e nuovi nazionalismi etnico-religiosi
che hanno disintegrato i Balcani in quattro e quattr'otto.
La guerra nella ex-Jugoslavia ha letteralmente cacciato fuori
Wojtyla dall'Est europeo. Il viaggio del papa a Sarajevo come
segnale forte a favore della pace è stato rimandato per
anni, fino a diventare una barzelletta; gli appelli del successore
di Pietro alla tregua sono sistematicamente caduti nel vuoto.
Il massacro è continuato inesorabile in nome di Dio, di
Allah e dei mortacci di ogni autoproclamata pseudo-etnia.
La seconda linea dei burocrati di regime ha vissuto il suo momento
di gloria riciclandosi nella guerra. La vecchia nomenklatura ha
cambiato uniforme e si è messa alla testa delle bande di
tagliagole e stupratori che hanno imperversato per cinque anni
nella penisola balcanica. Alla fine ognuno si è arroccato
nel proprio staterello, barricandosi dietro una muraglia di slogan
ultranazionalisti.
La Reconquista wojtyliana della metà orientale del
continente ha fallito. Della Polonia non si sa più nulla,
e oggi - a dieci anni dal "crollo del comunismo" - il
papa non trova di meglio da fare che andare in Croazia a rafforzare
il nazionalismo catto-fascista, canonizzando il cardinale Stepinac,
collaborazionista dei nazisti durante l'occupazione tedesca della
Jugoslavia. Dal momento che la riunificazione sotto la bandiera
di Cristo ha fallito, non resta che prendere posizione e schierarsi
con un boia cattolico (Tudjman) contro un boia miscredente (Milosevic).
Non vi sono dubbi sul fatto che la sfida più grande è
stata perduta. Il socialismo reale sarebbe crollato comunque,
con o senza Wojtyla. Come abbiamo detto Agostino Casaroli ne dava
per scontata la fine già a metà degli anni Settanta.
Tutti sanno che le ragioni vanno ricercate nell'agonia politica
dello stalinismo e soprattutto nella totale débacle dell'economia
di piano [1]. L'elezione del papa slavo è stata la mossa
strategica che con un buon tempismo ha permesso alla Chiesa di
cavalcare il crollo dei regimi socialisti, quanto meno in termini
di immagine, millantando un ruolo chiave nella loro caduta. Questo
è stato ottenuto: mai come alla fine degli anni Ottanta
il Vaticano ha visto puntati su di sé i riflettori della
politica internazionale. Roma è tornata ad essere un faro
politico, un referente mondiale in materia di guerra e di pace.
Ma al lato pratico il progetto si è concluso con un flop
clamoroso, o nella migliore delle ipotesi, con un semplice rafforzamento
delle posizioni precedentemente conquistate. Il capitolo balcanico
della vicenda di Giovanni Paolo II finisce con la stretta mortale
a Tudjman e la riabilitazione di un losco figuro che collaborò
col regime filo-nazista di Ante Pavelic.
Quello che ci interessa sottolineare in tutta questa vicenda è
la particolare visione del ruolo della Chiesa che Wojtyla ha teorizzato
e in buona parte attuato. Anche perché offre lo spunto
per proseguire l'indagine nella direzione che ci interessa.
Quella di Giovanni Paolo II è dunque una Chiesa bifronte,
apparato d'appoggio per i movimenti popolari da una parte, ma
anche spalla indispensabile per i governi dall'altra; faro spirituale
della pace, del rispetto dei diritti umani, ma sempre pronta a
dispiegare tutte le sue forze per il contenimento dell'esuberanza
e della rabbia delle classi subalterne; dispensatrice di appelli
alla tolleranza sul palcoscenico delle guerre religiose, ma alla
fine prontissima a tutelare i difensori delle proprie parrocchie,
anche quando costoro meriterebbero di comparire sul banco degli
imputati al tribunale dell'Aja. Wojtyla ha voluto rafforzare la
presenza della Chiesa e l'impegno dei cattolici nelle vicende
politiche, senza per questo rinunciare a una briciola del verticismo
e della compattezza della struttura ecclesiastica. In questo senso
ha una visione pre-conciliare della Chiesa per quanto riguarda
il merito, e post-conciliare rispetto al metodo.
Per lui la Chiesa deve essere un'entità presente nella
vita delle nazioni, attiva e in grado di determinarne politicamente
la vita, ma allo stesso tempo super partes, indipendente e inattaccabile:
una macchina da guerra buona per ogni circostanza.
Questo modello ideale ha avuto un banco di prova privilegiato
nel subcontinente americano, un'area del pianeta particolarmente
calda e problematica anche per quanto concerne le strategie ecclesiastiche.
La stagione di lotta e di rivolta che dalla fine degli anni Sessanta
alla fine degli anni Ottanta ha percorso l'America Latina vede
la Chiesa, soprattutto quella di Wojtyla, affrontare brillantemente
una delle sue crisi più profonde, trasformando quest'ultima
in un grande momento di rilancio della politica vaticana nel mondo.
NOTE
1. Lo stesso Giovanni Paolo II lo ammette nell'intervista
rilasciata a Vittorio Messori, dimostrando di non essersi mai
fatto troppe illusioni sul ruolo da lui svolto nella caduta dei
regimi dell'Est Europa:
"Sarebbe, dunque, semplicistico dire che è stata la
Divina Provvidenza a far cadere il comunismo. Il comunismo come
sistema è, in un certo senso, caduto da solo. E' caduto
in conseguenza dei propri errori e abusi. Ha dimostrato di essere
una medicina più pericolosa e, all'atto pratico, più
dannosa della malattia stessa. Non ha attuato una vera riforma
sociale, anche se era divenuto per tutto il mondo una potente
minaccia e una sfida. Ma è caduto da solo, per la propria
immanente debolezza". (Giovanni Paolo II, Varcare
la soglia della speranza, a cura di V. Messori, Mondadori,
Milano 1994, p. 146).