2. Accadde a Roma nel 1978
"Un papa slavo. Dio l'ha voluto!", annunciava Karol
Wojtyla in occasione della sua prima visita nella terra natìa
dopo l'elezione pontificia.
Dietro una frase tanto lapidaria si cela una delle svolte più
radicali di tutta la storia della Chiesa da quattro secoli a questa
parte.
Sul finire degli anni Settanta i vertici ecclesiastici si trovavano
in una situazione insostenibile. Il Concilio Vaticano II, conclusosi
nel '65, aveva potenzialmente aperto la strada a un cambiamento
sostanziale nella politica vaticana, sia per quanto riguardava
i rapporti interni alla gerarchia e all'organizzazione ecclesiastica,
sia in merito ai rapporti con "l'esterno".
Se dovessimo riassumere con poche parole la svolta rappresentata
dal Concilio, potremmo dire che si trattò del passaggio
dall'idea di Chiesa come baluardo monolitico contro gli assalti
della modernità, all'idea di una Chiesa che riprendesse
ad andare per il mondo, come nei secoli dell'epopea evangelizzatrice,
che contrattaccasse "aprendosi" al mondo moderno, senza
il timore di venirne sopraffatta. La modernità stessa veniva
indicata come terreno di sfida e di confronto dopo secoli di involuzione,
durante i quali Roma si era guardata l'ombelico, rimanendo "indietro"
rispetto ai rapidissimi sviluppi della società.
In quegli anni già si profilavano all'orizzonte giganteschi
mutamenti geo-politici ed economici, di fronte ai quali l'immobilità
avrebbe significato la morte. I movimenti degli anni Sessanta-Settanta
avevano trasformato la società italiana ed europea; la
globalizzazione dell'economia si preparava a diventare il
problema dei decenni successivi. La ostpolitik del Cardinale
Casaroli a partire dagli anni Sessanta, sotto i pontificati Roncalli
e Montini, dimostra come la Chiesa avesse più che mai presente
il problema della paralisi a cui erano destinati i sistemi dell'Europa
orientale e di come occorresse intraprendere una politica di rievangelizzazione,
attraverso il dialogo con quei regimi e il rafforzamento delle
chiese locali. Già a metà degli anni Settanta, nei
discorsi dell'alto prelato vaticano si può facilmente leggere
il presagio della ormai prossima caduta dei regimi sovietici e
filo-sovietici. I vertici romani, con lungimiranza, non davano
più di dieci-quindici anni di vita al "socialismo
reale".
La laicizzazione progressiva della società dopo il '68
aveva portato alla ribalta il drammatico problema della crisi
delle vocazioni. Gli apparati ecclesiastici europei, ancora impostati
secondo i vecchi modelli pre-conciliari, rischiavano di trovarsi
molto presto sprovvisti di "personale", avviandosi così
a una rapida necrosi. Per di più i continenti tradizionalmente
cristiani, l'Europa e il Nord America, contavano ormai un numero
di battezzati infinitamente minore rispetto ai paesi del Terzo
Mondo. Un dato che andava sommandosi alla nascente consapevolezza
che i fantomatici "paesi in via di sviluppo" subivano
in realtà il progressivo impoverimento a vantaggio delle
nazioni ricche. Il problema del Terzo Mondo - ovvero quello
dell'internazionalizzazione della Chiesa - doveva essere affrontato
su larga scala.
Dunque bisognava muoversi per tempo, uscire dalle pastoie post-conciliari
e trovare nello stesso Vaticano II lo spirito utile ad affrontare
le nuove sfide della storia. La Chiesa doveva dotarsi dei mezzi
adeguati che le consentissero di uscire dall'impasse.
Il problema era soprattutto quello di decidere che direzione imprimere
alla svolta del Vaticano II. Ma questo comportava la necessità
di una resa dei conti tra le due macro-fazioni all'interno del
clero cattolico: quelli che spingevano per "radicalizzare"
i principi e le parole d'ordine del Concilio e quelli che invece
avrebbero preferito ignorare tali direttive e mantenere lo status
quo ante. Se potessimo ragionare in termini esclusivamente
politici per quanto riguarda le vicende ecclesiastiche, si potrebbe
dire che il conflitto si presentava come una lotta tra le correnti
conservatrici e quelle "riformiste", senza per questo
dimenticare che la Chiesa, in tutti i suoi aspetti, non può
mai concepirsi se non nella continuità assolutamente ribadita
con la propria storia bimillenaria.
C'era poi un secondo ordine di problemi, ancora più immediati.
Dopo il periodo oscuro della seconda guerra mondiale, che aveva
colto la Chiesa in una posizione quanto mai scomoda e ambigua
- basti pensare al Concordato col regime di Franco in Spagna,
o alla mancata scomunica di Hitler, ancor più paradossale
se raffrontata alla scomunica dei comunisti nel '49, o ancora
alla fuga dei criminali nazisti favorita dal Vaticano -, il tentativo
di rilancio della politica vaticana si era incarnato dapprima
nella scelta oculata di Roncalli, il "papa buono", un
contadino in grado di parlare la lingua delle masse popolari italiane
del dopoguerra, e poi in quel Paolo VI che aveva cominciato a
lavorare all'internazionalizzazione della Chiesa e aveva portato
a compimento il Concilio. Ma i panni sporchi rimanevano tanti:
le collusioni con la politica, con la mafia, lo spericolato avventurismo
finanziario dello Ior... tutte catene pesantissime, che zavorravano
la Chiesa impedendole il salto di qualità. Occorrevano
decisioni energiche anche riguardo a questi aspetti foschi e ben
radicati nel corpo ecclesiastico, decisioni che mettessero al
riparo da eventuali brutte sorprese e consentissero di arginare
la crisi di immagine della Chiesa.
Nel 1978 il clima nei palazzi romani era più che malsano,
un punto di mediazione tra le lobbies episcopali sembrava difficile
da trovare, mentre gli eventi incalzavano rapidi.
Il puzzo di marcio si diffuse urbi et orbi quando il sessantaseienne
Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani, morì improvvisamente,
dopo appena 33 giorni di pontificato.
[La morte di papa Luciani] non solo era assolutamente inattesa, ma diventò subito sospetta, colorando di toni assai foschi lo scenario interno al governo della Chiesa. Al di là della fondatezza della tesi sviluppata organicamente alcuni anni dopo nel testo In nome di Dio dal giornalista britannico Yallop - secondo cui Giovanni Paolo I sarebbe stato eliminato per un complotto ordito dal suo Segretario di Stato, il cardinale Jean Villot, e dal monsignore dello Ior Paul Marcinkus, con la complicità di Calvi del Banco Ambrosiano e della P2 - il fatto di per sé che venisse sollevata l'ipotesi di una morte non naturale, che costrinse la congregazione a prendere in esame l'ipotesi - ovviamente scartata - di un'autopsia, dà la misura del grado di avvelenamento dell'ambiente del Palazzo vaticano, in osmosi con quello della cupola della repubblica italiana, essendo trascorsi solo pochi mesi dall'assassinio di Moro. (C. Longobardo, Karol alle crociate. Il Vaticano e la nuova epoca, Prospettiva Edizioni, Roma 1994, p. 13).
Nel 1978, all'indomani della "strana" morte di Giovanni
Paolo I e a tredici anni dalla conclusione del Concilio Vaticano
II, la Chiesa toccò uno dei punti più bassi della
sua credibilità.
Fu un vero e proprio dramma: servivano decisioni rapide ed efficaci,
che infondessero immediatamente nuova fiducia nelle masse cattoliche
e riguadagnassero la credibilità della Chiesa sul piano
internazionale, affinché i dettami del Vaticano II non
finissero nella pattumiera della storia prima ancora di essere
attuati.
Serviva insomma un segnale forte, un uomo che mettesse d'accordo
tutti nel momento più critico per i destini della Chiesa.
Il conclave che elesse Wojtyla si svolse appena quindici giorni
dopo la morte di papa Luciani e durò meno di settantadue
ore (14-16/10/1978).
Quando già i due partiti italiani (conservatori pre-conciliari
e riformisti) erano pronti a darsi battaglia, col rischio
di impantanare il conclave in lunghe votazioni, alcuni vescovi
stranieri presero l'iniziativa di promuovere la candidatura dell'arcivescovo
di Cracovia, il cui nome presto risultò un buon compromesso
tra le parti. La proposta fu avanzata dal vescovo di Vienna Koenig,
congiuntamente al brasiliano-tedesco Lorscheider, all'americano
di origine polacca Krol e non da ultimo da un personaggio che
ricomparirà frequentemente in questa cronaca: il vescovo
di Monaco, Cardinale Joseph Ratzinger.
Sia ben chiaro che non si trattava dell'ultimo venuto, tanto meno
di un jolly a sorpresa. Wojtyla era stato uno dei pupilli di Paolo
VI, aveva collaborato alla stesura dell'enciclica Humanae Vitae
(quella che vietava ai credenti l'uso dei contraccettivi); nel
'76 aveva tenuto in Vaticano gli esercizi spirituali di quaresima,
dando prova di grande forza d'animo e lucidità intellettuale.
Già prima della morte di Montini (Paolo VI), lo stesso
Segretario di Stato Villot (quello che David Yallop considera
l'artefice dell'eliminazione di papa Luciani) aveva preso in considerazione
l'arcivescovo di Cracovia come l'uomo che avrebbe potuto coalizzare
buona parte dei consensi.
Ma le ragioni che portarono all'elezione di Wojtyla vanno ricercate
soprattutto nella sua storia personale e in quello che egli poteva
rappresentare nel particolarissimo momento storico.
Karol Wojtyla era il figlio prediletto della Chiesa polacca, una
delle più integraliste e conservatrici, tempratasi sotto
il regime filo-sovietico. I conservatori potevano ritenersi soddisfatti:
il nuovo papa non avrebbe imposto spericolati rinnovamenti. Ma
anche i riformisti avrebbero potuto dormire sonni tranquilli.
Infatti la Chiesa polacca era anche il puntello di Roma nell'Europa
orientale, a ridosso dell'orso sovietico, avamposto privilegiato
per lanciare la riconquista delle terre comuniste parlando la
loro lingua. E sempre la Chiesa polacca si nutriva del legame
privilegiato con il movimento operaio, quindi rispondeva in pieno
ai modelli strategici del Vaticano II di ripresa del dialogo con
le masse.
Wojtyla era uno straniero che parlava italiano, uno slavo, un
duro dotato di carisma comunicativo, un integerrimo lontano dai
giochi di potere del Palazzo, che non si sarebbe lasciato paralizzare
dalle paludi romane.
Era l'uomo del destino. Anzi, l'uomo di Dio.