BLISSETT OLTRE BLISSETT:

PER L'ABOLIZIONE DEL NOME PROPRIO !

 

Lo scopo di questo mio pamphlet è quello di rendervi evidente l'assoluta necessità di abbandonare il vostro nome proprio, a meno di non voler rimanere per sempre legati alle strategie dissuasive dei codici di dominio imperanti. Fare ciò con tutte le armi messe a disposizione della retorica, poiché reputo cruciale il definitivo superamento di ogni "identità ascritta" al fine di un umano e completo dispiegarsi delle singolarità. Non si tratta di una proposta sovversiva, ma di una necessità storica, a meno di non voler restare infangati nella logica postmoderna di fine della storia stessa (dello sciopero degli eventi). Ma se la proposta non è sovversiva, è probabile invece che le pratiche che mirano al suo raggiungimento debbano esserlo. Se ci potremo dare o meno la possibilità di avere ancora storia dipenderà inanzitutto dal superamento della logica identitaria del nome proprio. È finita l'epoca della storia con i nomi dei regnanti e siam giunti nell'epoca della storia simulacrale con i nomi delle videostar, che in un eterno presente non rimandano altro che a se stessi: un altro salto ci resta da compiere, quello della storia senza alcun nome proprio, una storia di persone, non di nomi, di umanità, non di uomini.

"È vero signori, io sono il Provocatore Professionista noto a Chicago col nome di Lo Sperone Nascosto, a Fallon col nome di Frusta Invisibile, in molte città con molti altri nomi"

Transmaniacon - John Shirley (1979 - Urania n.834)

 

In un'America trasformata dalla barriera che la separa dal resto del mondo, un America di città-stato indipendenti, Ben Rackey protagonista del romanzo naviga come dentro una rete telematica assumendo identità diverse nei differenti nodi. È d'altronde la situazione dell'individuo contemporaneo quella di insufficienza di una singola dimensione identitaria, e della ricerca dentro e fuori di sé di altri ii.

Bateson ci racconta una mente come aggregato di parti interagenti che non sono altro che frammenti della nostra identità, altre nostre identità. D'altronde l'identità si definisce sempre in rapporto a qualcosa di altro rispetto al sé, nella modernità al dominio istituzionale di stato e capitale. Oggi di fronte alla de-istuzionalizzazione, che in realtà altro non è che un proliferazione di istituzioni mutanti, è evidente che l'identità singola non basta più, è per un certo verso un retaggio del passato, un freno al libero dispiegarsi delle soggettività.

 

"Identity
is the crisis
can't you see
identity identity
When you look in the mirror
do you see yourself
do you see yourself
on the t.v. screen
do you see yourself
in the magazine
when you see yourself
does it make you scream"

Identity - X-Ray-Spex (1978 - Awesome Record Ltd.)

 

Ricordo una lunga discussione intrattenuta con il Rev.William Cooper nel 1977 a Londra, proprio alla fine di un concerto degli X-Ray-Spex mi disse: "Nel SadoMaso riesci a scinderti in due, proprio quando sei tutt'uno con l'altro". Ho sempre rimproverato a Willy di essere un dualista dialettico, ma quella frase aveva colto nel segno. Nel SM etico antagonista, ciò che appare in tutta la sua evidenza è l'insufficienza della propria unità identitaria. Riesci ad essere Master e Servant contemporaneamente, è una sorta di illuminazione sotto alcuni punti di vista, non più uno, ma due... ed è solo il primo passo.

Ho poi incontrato Willy molte altre volte su svariati IRC Internet, l'ho visto con alias di donna, di trans, di bambola gonfiabile, credo che ormai anche lui converrebbe con me quando dico che la convenzione del nome proprio è una sciagura, e che la telematica è qui a dimostrarlo.

In telematica si danno infinite possibilità di giocare con la propria identità, si può cambiare il proprio nome e costituirsi un nuovo personaggio, una nuova identità. Alcuni retrogradi reazionari, sono convinti che tutto ciò sia semplicemente immorale, che fingersi qualcun altro sia un atto da vigliacchi. Sbagliano, e di grosso.

C'è un limite storico di fondo nell'identità unica imposta (IUI), quello ci considerare come immutabile l'articolazione identitaria dell'io.

Più che di identità sarebbe opportuno parlare di costellazioni identitarie, una sorta di sistema satellitare dei corpi, che di fronte alla massiccia invasione mediatica si danno la possibilità di assumere in spazi che non sono più continui, ma discreti, differenti ruoli identitari.

Se nel passato era ancora possibile l'IUI, ciò era dovuto al fatto che esisteva ancora uno spazio unico di comunicazione, la comunicazione era prevalentemente vis-à-vis, quella mediata era ancorata ad un supporto, la carta, terribilmente fisico, corporeo quasi, sulla carta delle lettere si poteva sentire il profumo di sudore delle mani dello scrivente. Due sono gli eventi che hanno oggi reso definitivamente obsoleta questa realtà: la digitalizzazione della comunicazione (e quindi la sua deriva simulacrale) e la pervasione (siamo immersi in migliaia di flussi comunicativi che non possiamo più controllare). Insomma lo spazio è ormai definito solo in relazione all'informazione disponibile compresente agli attori della comunicazione, posso quindi in quanto fonte di informazione modificare sempre e continuamente lo spazio che mi immerge. Si aprono possibilità nuove di comunicazione, posso indurre il mio interlocutore (e me medesimo) in stati di coscienza condivisi proprio agendo sull'ambiente, ma tutto ciò non è possibile laddove il mio interlocutore riconosca in me una parte di informazione che io giudico controproducende comunicargli in quel frangente, la mia storia, la mia identità, il mio nome proprio. Già perché è anche il mio nome proprio che costruisce il nostro spazio di comunicazione: l'arredamento di un chat, oltre che dal nome della stanza è costituito dagli alias degli interlocutori, così l'ambiente di una conferenza su qualsiasi BBS di provincia, assume il profumo degli alias che vi scrivono. Lascio a voi di sbizzarrirvi sulle potenzialità della realtà virtuale...

Quello che vi stò dicendo è che se non decidiamo consapevolmente di rinunciare al nome proprio, ci precludiamo una parte consistente della nostra possibilità di comunicare. Rischiamo di subire, di essere comunicati da altri, che hanno ambiti ben più ampi dei nostri di informazione, cioé di messa in forma dello spazio psichico.

Lo sviluppo dell'archiviazione elettronica ha fatto emergere due atteggiamenti distinti rispetto alla possibilità di interconnettere i diversi archivi.

Da una parte c'è chi sostiene (governi, polizia) la necessità di poter incrociare i database con le informazioni provenienti da diversi ambiti (sanitarie, giudiziarie, economiche, sui consumi, sulle preferenze politiche, religiose, sessuali) al fine di prevenire la criminalità assumendo maggior controllo sulle persone. È questo il sistema sudafricano, ove grazie ai potenti mezzi forniti dall'IBM fin 1955, il governo è in grado di controllare tutti gli spostamenti di occupazione e residenza dei cittadini di colore.

Dall'altra vi sono state forti reazioni che rivendicavano il diritto di rimanere anonimi rispetto agli ambiti estranei all'istituzione rispetto a cui si erano forniti i dati. Così ricordo il mio impegno del 1987 contro l'introduzione in Germania Occidentale di carte d'identità leggibili al computer, che permettevano così di integrare dati provenienti da più parti in base ad un numero unico di riconoscimento. In alcune nazioni leggermente più progredite esistono degli organismi di tutela, così ad esempio in Svezia dal 1972 è stato istituito il Data Inspection Board a sostegno dei provvedimenti stabiliti dal Data Act, col duplice obbiettivo di tutelare l'integrità dei dati posseduti ed impedire inoltre il collegamento di dati provenienti da differenti fonti.

Ma cosa significa tutto? Significa riconoscere che accumulare dati differenti su un'unica persona è una pratica che viola la privacy, poché si ha diritto ad essere differenti rispetto ad istituzioni diverse, ebbene io vi dico, che se accettate questo principio, è evidente che non potete tollerare ancora per molto l'imposizione del nome proprio, che è l'unico e ultimo retaggio di una concezione statalista di invasione della sfera privata, che mira a riconoscervi (a pedinarvi) ovunque-chiunque-comunque voi siate. Puntarvi il dito e dire TU, tu sei nome e cognome, so tutto di te.

L'uso dei pronomi è molto interessante da questo punto di vista. Nelle lingue latine, ma anche nel tedesco (o nell'inglese arcaico), esistono due (o più) pronomi con cui rivolgersi all'altro, che testimoniano differenti livelli di distanza sociale. Nella modernità i signori si scambiavano del voi (o del lei), per periodi piuttosto lunghi prima di arrivare a darsi del tu, giunti ad un notevole livello di intimità. Così le mogli davano del voi al marito anche in camera da letto. La barbarie più grande (che peraltro talvolta ancora sopravvive) è data dall'uso non reciproco del pronome: si dà del tu, ma si pretende del lei...

Una serie di battaglie culturali, il cui momento massimo è coinciso col '68 francese ed italiano, ha provocato un progressivo spostarsi del pronome distanziante in ambiti sempre più marginali dell'aristocrazia borghese, o nella barbarie del lavoro salariato.

Ma la rivolta pronominale del '68 non è sufficiente: non basta poter dare del tu a chiunque, dobbiamo rivendicare la possibilità di poter dare anche dell'io a qualcun altro, tutte le volte che è necessario, tutte le volte che ci sentiamo esso stesso, tutte le volte che ci troviamo di fronte ad una distanza che non ci appartiene, tutte le volte che condividiamo un libro, un film, un fumetto, dobbiamo poter dire: "L'ho fatto io! È mio!". E ci metto pure il mio nome.

Si tratta di una battaglia consapevolmente avvinghiata a quella contro il Copyright. Se è ormai infatti evidente che tutta la produzione testuale (in senso semiologico, quindi ampio) non è altro, ne può essere altro che frutto di incroci intertestuali, di sintesi fra differenti prodotti culturali, di operazioni semiurgiche; e che non possiamo più pretendere di dirci "autori" di nulla, proprio perché siamo autori di tutto. Badate, non sto parlando di quella ignobile barbarie estetica che qualcuno si ostina ancora a chiamare col nome di Arte, sto parlando dei processi materiali di produzione di ricchezza, che passano ormai per i processi di concatenazione simbolica, e che slegati da qualsiasi logica di valorizzazione classica, mi fanno chiedere per me medesimo (quindi per tutti) un reddito di sussistenza e di lusso.

Insomma tutta questa barbarie è resa possibile da uno strumento base di identificazione: il nome proprio.

Concetto già semanticamente menzognero, in quanto ci racconta della proprietà da parte nostra di qualcosa (il nome appunto) di cui in realtà non possiamo disfarci (come di qualunque altra proprietà). In realtà il nome proprio è proprio di qualcun'altro! È proprio del sistema di dominio, che ce lo impone per appropriarsi della nostra identità. Si dovrebbe parlare quindi più correttamente di nome espropriato.

Le ricadute reali sono quelle di non poter essere altri che se stessi (se stessi chi? quelli con quel nome e cognome, ovviamente) quando in realtà diventa sempre più necessario estroflettere le proprie identità per metterle in comunicazione tra di loro: è il sistema mediale che ce lo impone, pena rimanere fuori dal mondo.

Và rivendicata con forza la possibilità dell'uso di un nome improprio, un nome di cui appropriarsi evenenzialmente con una finalità specifica (come un arma impropria appunto). Considerare la possibilità di un nome che come le nostre identità ci sia esterno, oggetto fluido di proprietà di alcuno, solo di chi lo vuole, anche solo per un istante, anche solo per una vita.

Come dice il Rev.Korda della Chiesa dell'Eutanasia: Save The Planet - Kill YourSelf! Uccidi il tuo Sé, perché il sé è la prima rivendicazione di proprietà su te stesso!

Tutto questo ci porta evidentemente ad una battaglia seria per l'abolizione del nome proprio, ormai retaggio ottocentesco e romantico, inibitore di creatività e produttività sociale.

 

Diventa anche tu Luther Blissett!

Solo per un'attimo comunque, quello che basta a liberarti del tuo nome.

 

Luther Blissett