7. La Quinta Internazionale
Fin dai giorni del Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica
si è data l'intento programmatico di impegnarsi per aprire
un dialogo con le altre chiese cristiane, al fine di intraprendere
il cammino verso la riunificazione della cristianità sotto
la stessa bandiera. Uno degli immediati risultati pratici del
Concilio fu la revoca bilaterale delle scomuniche tra Chiesa cattolica
e Chiesa ortodossa (7/12/1965). Quello fu soltanto il primo passo
- per altro non troppo difficile, visto che le scomuniche
risalivano all'anno 1054 - verso l'apertura del dialogo e
soprattutto verso la riappacificazione con i cristiani non cattolici.
Il pontificato di Wojtyla però ha lanciato ai vertici vaticani
una vera e propria sfida: mettere in pratica gli auspici conciliari,
tracciando la rotta che porti a superare le divergenze e a costruire
la possibilità effettiva per una nuova unità dei
cristiani.
Esistono dunque le basi per un dialogo, per l'estensione dello spazio dell'unità, che deve andare di pari passo con il superamento delle divisioni, in grande misura conseguenza della convinzione del possesso esclusivo della verità. [...] Tuttavia, questi diversi modi di intendere e praticare la fede in Cristo possono essere in certi casi anche complementari. [...] E occorre, soprattutto, scoprire l'unità che di fatto già esiste. (Giovanni Paolo II, Varcare le soglie della speranza, op. cit., p. 161-162).
Bisogna però fare attenzione ai termini e spiegare che
cosa intende il papa - almeno nella fase attuale - per
unità. Non si tratta per Wojtyla di unificare le chiese
indistintamente; questo non sarebbe possibile, dato che l'esistenza
stessa della suprema autorità papale è inscindibile
dal primato dottrinale di Roma su tutte le altre confessioni cristiane:
non c'è spazio per alcuno "sconto" ecclesiologico
agli scismatici orientali e occidentali; e per altro è
ben chiaro che anche la prospettiva di una riunificazione non
prescinde, nella mente di chi tiene il seggio che fu di Pietro,
da un "rientro" degli scismatici nell'alveo di Santa
Romana Chiesa (cfr. Ut unum sint, Edizioni Paoline, Milano
1995, p.62). Adoperarsi per l'unità ha un significato ben
preciso nella strategia vaticana, che non implica per niente la
rinuncia al primato cattolico, prova ne è il fatto che
nella Ut unum sint, il papa non manca mai di ricordare
l'ineludibile discendenza scritturale della struttura ecclesiastica
cattolica (cap. 10 e 18). Si tratta piuttosto di allearsi
al fine di delineare una strategia comune nel mondo contemporaneo.
La pratica privilegiata da Giovanni Paolo II per instaurare una
proficua collaborazione è innanzi tutto la preghiera
comune (cap. 21 e 70). Non si contano più le occasioni
di incontro con i rappresentanti delle chiese cristiane orientali
e occidentali, in cui il papa ha potuto segnare il passo di un
cammino che - forse nel corso dei secoli - potrà
portare all'unità formale. Secondo le sue stesse parole,
non importa se di questo cammino non si intravede la fine, ciò
che conta è che sia stato intrapreso. E il merito è
ancora una volta suo.
Riscoprire i punti di contatto con i cristiani non cattolici,
secondo il motto conciliare che "Ciò che ci unisce
è più grande di quanto ci divide", serve ad
allargare il fronte di chi oggi si imbarca nella crociata contro
il nemico numero uno: l'ateismo. Sotto questa luce non ha molta
importanza che nell'immediato sia impossibile pretendere di superare
le divergenze dottrinali e soprattutto ecclesiologiche con gli
altri cristiani, perché ciò che conta è riuscire
a schierarsi su un fronte unico. Roma può concedersi di
rivolgersi in tutta umiltà ad ortodossi, copti e protestanti,
con la voce d'angelo di chi chiede scusa per le nefandezze del
passato e chiama alla comunione sotto la bandiera bianca di Cristo,
se questi accettano di unirsi alla crociata wojtyliana, se accettano
il polacco come capitano. Dato che si parla di una guerra di lunghissima
durata, non avrebbe senso fermarsi a decidere come sarà
spartito il bottino, soprattutto se intanto si avvia un dialogo
bilaterale per smussare le divergenze.
Se dovessimo riassumere la Ut unum sint in una frase, potrebbe
essere questa: crediamo tutti in Dio Padre e in Cristo suo figlio;
condividiamo oltre un millennio di storia cristiana; non fingiamo
di non esserci mai divisi, ma intanto cominciamo a capire cosa
può tenerci uniti e mettiamo in campo quello che abbiamo
in comune.
In altre parole Wojtyla cerca di estendere anche agli altri cristiani
un po' di quello spirito conciliare che ha rilanciato l'evangelizzazione
cattolica nella società. Se le chiese orientali e occidentali
vogliono salire sul carro della crociata contro gli anticristiani
e dare una mano ai cattolici a riprendersi il mondo, tanto meglio
per gli uni e per gli altri. C'è moltissimo da fare ed
è meglio farlo insieme.
Di fronte al mondo, l'azione congiunta dei cristiani nella società riveste allora il trasparente valore di una testimonianza resa insieme in nome del Signore. Essa assume anche le dimensioni di un annuncio perché rivela il volto di Cristo.
Le divergenze dottrinali che permangono esercitano un influsso negativo e pongono dei limiti anche alla collaborazione. La comunione di fede già esistente tra i cristiani offre però una solida base non soltanto alla loro azione congiunta in campo sociale, ma anche nell'ambito religioso. (Ut unum sint, op. cit., p. 59).
Questa strategia, sul piano spettacolare, ottiene un
risultato essenziale. Quello di mostrare appunto il fronte cristiano
come un unico blocco; immagine questa che può essere spesa
proficuamente sul piano politico. Poco importa poi che dietro
le quinte la concorrenza continui, basta che essa non vada a intaccare
la costruzione di un'immagine pubblica improntata all'unità
e al dialogo. Una cosa non esclude l'altra.
Così ad esempio i teologi cattolici e quelli luterani possono
trovare un accordo - dopo 481 anni - sulla dottrina della
salvezza, che li divise al tempo di Martin Lutero. E possono
farlo con la "copertura" del papa che nella Ut unum
sint dà il proprio nulla osta:
Le polemiche e le controversie intolleranti hanno trasformato in affermazioni incompatibili ciò che era di fatto il risultato di due sguardi tesi a scrutare la stessa realtà, ma da due diverse angolazioni. Bisogna oggi trovare la formula che, cogliendo la realtà nella sua interezza, permetta di trascendere letture parziali e di eliminare false interpretazioni. (Ut unum sint, op. cit., p. 31).
Insomma la semantica può aiutare. Ed è così
che il 25/6/1998) una commissione di teologi cattolici e luterani
produrrà una dichiarazione congiunta in cui si fanno conciliare
la dottrina tridentina e le tesi di Lutero in materia di salvezza,
eclissando con un abile sotterfugio quattro secoli di scomuniche,
guerre e autodafé. La cenere dei roghi viene nascosta sotto
il tappeto dell'equivoco "interpretativo".
Questo papa si è però spinto anche oltre l'obiettivo
della riunificazione cristiana. Se infatti dopo la caduta dell'alternativa
socialista, l'offensiva ecclesiastica si indirizza contro l'ateismo
intrinseco alla cultura occidentale moderna, allora in questa
lotta possono essere reclutati anche gli alleati più periferici,
a partire dai fratelli maggiori ebrei, fino agli islamici.
La Nuova Alleanza trova le sue radici in quella Antica. Quando il popolo dell'Antica Alleanza potrà riconoscersi in quella Nuova è, naturalmente, questione da lasciare allo Spirito Santo. Noi, uomini, cerchiamo solo di non ostacolarne il cammino. La forma di questo "non porre degli ostacoli" è certamente il dialogo cristiano-giudaico, che è portato avanti per conto della Chiesa dal pontificio consiglio per l'unità dei cristiani. (Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, op. cit., p. 112).
Il Concilio ha chiamato la Chiesa al dialogo anche con i seguaci del "Profeta" e la Chiesa procede lungo questo cammino. (Ibidem, p. 104).
In fin dei conti ebrei e musulmani pregano pur sempre lo stesso
Dio dei cristiani, chiamandolo in un altro modo. Inoltre queste
due grandi religioni del Libro hanno in comune un'altra cosa:
anche se per motivi diversi coinvolgono popoli sparsi per il mondo
in lungo e in largo, allo stesso tempo si concentrano in una delle
aree più "calde" del pianeta: il Medio Oriente.
Lanciare un ponte interreligioso tra le tre grandi confessioni
monoteistiche è un obiettivo geo-politico che trasformerebbe
la Chiesa cattolica in un interlocutore privilegiato sul piano
internazionale. Ed infatti è quello che Wojtyla sta facendo.
Tutto il suo pontificato è costellato di incontri e riunioni
di preghiera con i rappresentanti delle varie chiese, unite a
quella di Roma dalla comune fede in Cristo, ma anche con gli esponenti
delle altre due religioni di discendenza abramica, a partire dal
famoso incontro di Assisi nel 1986 per la Giornata mondiale
di preghiera per la pace.
In termini politici, Wojtyla si propone come garante della pax
religiosa agli occhi dei potentati occidentali. Di fronte al dilagare
degli integralismi - conseguenza logica, nonché risposta
forte all'occidentalizzazione selvaggia cui sono sottoposti
i paesi poveri - il pontefice di Roma vorrebbe accreditarsi
come mediatore e indispensabile tutore del dialogo.
Non è un caso quindi che, soprattutto dopo la caduta del
comunismo, gli appelli all'unità si siano fatti più
intensi, incarnandosi nella già citata enciclica Ut
unum sint (1995) e in una serie di concilianti "autocritiche"
sull'operato della Chiesa nei confronti dell'alterità religiosa.
E vale la pena ricordare che Giovanni Paolo II ha avuto parole
di riguardo perfino per buddhisti e induisti. A questo proposito
le sue dichiarazioni risultano quasi "spregiudicate":
La Rivelazione cristiana, sin dall'inizio, ha rivolto alla storia spirituale dell'uomo uno sguardo in cui entrano in qualche modo tutte le religioni, mostrando l'unità del genere umano riguardo agli eterni e ultimi destini dell'uomo. (Varcare la soglia della speranza, op. cit., p. 87).
Le parole del Concilio richiamano alla convinzione, da tanto tempo radicata nella tradizione, dell'esistenza dei cosiddetti semina Verbi (semi del Verbo), presenti in tutte le religioni. Consapevole di ciò, la Chiesa cerca di individuarli in queste grandi tradizioni dell'Estremo Oriente, per tracciare, sullo sfondo delle necessità del mondo contemporaneo, una sorta di via comune. (Ibidem, p. 89).
Il discorso è chiaro: sono gli atei occidentali, razionalisti, decadenti e nihilisti che devono sentire sul collo la pressione, non soltanto sociale, ma anche religiosa, degli altri quattro quinti della popolazione mondiale. Il fronte d'attacco deve concentrarsi contro la cultura laica come "responsabile" del privilegio dell'Occidente.