20 Nov 1999

Sul n. 010 di Infoxoa, di cui consiglio l'acquisto, compare una lunga intervista agli autori di *Q*, che parla soprattutto del "seppuku" e anticipa elementi del post-Blissett. La riporto di seguito. Questo numero contiene, tra le altre cose, anche un reportage sulla scena britannica (a cura della Nottingham Psychogeographical Unit e altri), una recensione/autopsia di "Culture eXtreme" di Massimo Canevacci (in cui il libro è visto alla luce della morte dell'intellettuale) e un lungo addio alla "ideologia situazionista", firmato Luther Blissett. Se posso esprimere una critica al mio omonimo, io credo che per quanto riguarda il situazionismo non ci sia più nulla da "analizzare", c'è solo da FOTTERSENE, anche perché ogni critica argomentata (anche la tua, che pure condivido) finisce per sembrare una critica "dall'interno" e la sopravvalutatissima I.S., ancora una volta, "brilla" di luce riflessa. Trovate Infoxoa nelle migliori librerie e negli infoshop di movimento, a lire 5000.

 


Q - Luther Blissett

intervista a cura di Infoxoa

 

"Lasciamo ai nuovi Blissett *Q*, una sorta di manuale allegorico, la summa theologica delle nostre esperienze come portatori del nome multiplo..."

 

D.: Intanto sgomberiamo subito il campo dai dubbi che attanagliano molti. Si dice in giro che non è possibile che alcuni "scriteriati", "eretici", "sovversivi", abbiano scritto un così bel libro come Q, ma che bensi dietro la mano di Luther Blisset, si celerebbe la firma di un certo Umberto Eco....

L.B.: Beh, questa era una diceria stupida circolata nelle settimane precedenti all'uscita, che si basava su una specie di "teoria del complotto" nata in ambienti nazi. Un certo Andrea Ridolfi, nel 1997, scrisse un pamphlet che "analizzava" Luther Blissett come ennesima creazione delle lobbies "mondialiste", giudaico-massoniche, anti-cristiane e anti-europee etc. Secondo questo Ridolfi, l'ipotesi che Blissett fosse una creatura approntata da Umberto Eco, una sorta di mostro di Frankenstein nato nei dipartimenti di semiotica, era giustificata da una "attenta" lettura (pesantemente paranoide) delle opere del professorone. In realtà, nessun LB bolognese è mai stato iscritto a Scienze della comunicazione, né ha mai frequentato le lezioni di Eco. Da questa pseudo-ricostruzione di ultradestra è nato il pettegolezzo - alimentato dalla sciatteria dei cronisti culturali, sempre a corto di riferimenti - che senza nemmeno averlo letto parlavano di *Q* come di un romanzo sulla scia del *Il nome della rosa*.
Chiunque abbia letto *Q* avrà visto che i due libri non hanno niente in comune: Calvino parlava di un'irrinunciabile dicotomia che ha sempre attraversato la letteratura: il romanzo modello-Iliade e il romanzo modello-Odissea. Ecco, *Il nome della rosa* (che ammetto di non aver mai finito di leggere) è un romanzo modello-Iliade, con unità di tempo, luogo e azione. Per di più, si svolge in una sola settimana in un ambiente chiuso. È insomma un classico "whodunit", cioè un giallo all'inglese in cui devi scoprire l'assassino, tipo Edgar Wallace, Agatha Christie, S. S. Van Dine... *Q*, al contrario, è un'odissea hard-boiled, una vicenda corale ispirata ai film *chambara* di Akira Kurosawa che si svolge in diverse città e nazioni d'Europa, e per più di quarant'anni. L'accostamento a Eco è l'appiglio di chi fa finta di leggere i libri.

D.: Nel libro il protagonista diciamo "buono" cambia almeno 10 nomi, è presente nei vari momenti di trasformazioni sociali del suo periodo, dalla rivolta dei contadini del 1525, passando poi per l'esperienza "autogestionaria" della rivolta di Munster e della sua esperienza di città dei folli, infine arriva a realizzare un mega furto ad uno dei banchieri piu ricchi d'Europa, per poi gestire un bordello in una Venezia frenetica, continuando a diffondere germi e virus di liberazione dal dominio Vaticano. Un protagonista che assomiglia a L.B., dal suo continuo essere mille individui, ma che mantiene una sua personalità, una soggettività politica. L'altro protagonista è Q, il servo del potere, l'infame, il cattivo... L'idea è che il primo sia sempre in "movimento", il dominato in cerca di riscatto, l'altro, Q, sembra sia sempre "statico" come il dominio. È proprio vero che per sovvertire bisogna "muoversi", "agitarsi"? Essere in "movimento" in fondo significa proprio non stagnarsi? Si tratta di un conflitto tra "nomadi" e "sedentari"?

L.B.: Questo è uno dei livelli di lettura a cui avevamo pensato. Ma non dimentichiamoci che il protagonista senza nome *fugge*, si muove anche perché è costretto. Non si tratta di un elogio ideologico del nomadismo, bensì di una riproposizione dell'aneddoto sul generale Li, narrato da Anne Louise Strong nel suo reportage seminale *Cina rossa* (1949): "I Giapponesi circondarono di sorpresa il Quartier Generale [di Li] ed egli dovvette tagliare subito la corda durante la notte. "Alleggerite il vostro bagaglio", ordinò. "Buttate via tutti i libri. Buttate via Marx, buttate via Lenin e Stalin, buttate via Mao Tze-tung. Seppellite i libri, li recupererete dopo." Alcuni soldati mormorarono: "Ma dobbiamo portare con noi il nostro marxismo." "Compagni", disse Li, "che cosa significa marxismo in questo momento? Significa proprio che quando occorre darsela a gambe bisogna correre più in fretta". Si può dire che *Q* è l'apologia dell'atteggiamento "scarpe da trekking e bagaglio leggero".

D.: Noi come Infoxoa abbiamo sempre dato spazio alle autproduzioni, proprio per aprire uno spazio dedicato alle "esperienze reali" di possibilità altre, anche nell'editoria. Ma Q, e sopratutto Luther Blisset, li abbiamo sempre seguiti, sia perché interni alla scena dell'autoproduzione, sia perché è come seguire qualcosa che attacca e fugge. Con la domanda a noi stessi del tipo: "Cosa combineranno ora?" Il fatto di aver fatto questo libro con la Einaudi, che tipo di contraddizioni ha aperto in voi, che tipo di risposta c'è stata per la vendita e la distribuzione, che tipo di scenari apre?

L.B.: Contraddizioni zero, direi. Risposta ottima, al di là di ogni pur rosea aspettativa. Ma è difficile rispondere a questa domanda senza parlare della fine del nostro Piano Quinquennale. Noi di Bologna aderimmo al progetto sulla base di un Piano Quinquennale che prevedeva la fuoriuscita dalla cultura underground, l'aggressione all'universo pop e infine un "seppuku" simbolico (suicidio rituale del samurai), dopo il quale saremmo passati ad altro, lasciando l'uso del nome a nuovi nuclei con nuovi propositi. Tutto si è avverato, e ora ci accingiamo al suicidio (dicembre 1999). Siccome c'è ancora un po' di confusione su questo punto, mi spiego meglio accennando a un film dell'anno scorso, "La maschera di Zorro", con Anthony Hopkins e Antonio Banderas: il film esplora Zorro come un personaggio aperto, la cui identità è "indossabile" da diverse persone. Il fatto che don Diego de la Vega sia ormai troppo vecchio e voglia smettere di essere Zorro non implica in alcun modo la morte del personaggio, perché il giovane Alejandro Murrieta riceverà l'adeguato addestramento marziale, e sarà lui l'eroe. È un classico film di cappa e spada, ma con alcuni riferimenti alla lotta di classe, tanto espliciti quanto inaspettati.
Pensate al nucleo bolognese come a don Diego, e sappiate che, se sentirete parlare di Blissett dopo il 31 dicembre '99, si tratterà di qualche Alejandro. Noi non siamo vecchi, ma vogliamo aggiungere nuove esperienze al nostro curriculum di guerra sociale, perciò lasciamo ai nuovi Blissett *Q*, una sorta di manuale allegorico, la summa theologica delle nostre esperienze come portatori del nome multiplo. Oltre a questo, da circa un anno abbiamo iniziato un'opera di "autostoricizzazione", con l'uscita della rivista "Quaderni rossi di Luther Blissett" (che a Bologna trovate da Grafton 9 in Piazza Aldrovandi), con la creazione di uno sterminato sito-archivio (<http://www.LutherBlissett.net>) e con l'antologia "Totò, Peppino e la guerra psichica 2.0" che uscirà postuma per Einaudi, nel febbraio del 2000.
*Q* è stato concepito fin dall'inizio come il coronamento del Piano Quinquennale, l'indispensabile "passaggio di fase", un libro no-copyright imposto a una grande casa editrice, un'opera complessa ma popolare, leggibile a molteplici livelli. L'operazione è perfettamente riuscita, mentre rispondo a queste domande ci avviamo a sfondare il tetto delle 50.000 copie vendute, e il libro viene tradotto in tedesco, spagnolo, francese e olandese. C'è un feedback incredibile da parte dei lettori, che ci incontrano di persona alle diverse presentazioni in giro per l'Italia (un tour sfiancante, 40 date in sei mesi) o ci contattano via e-mail. Ora stiamo lavorando a un nuovo romanzo, che si svolgerà tra Italia e Jugoslavia nel 1954, e che chiaramente uscirà con un'altra firma.

D.: Il mercato, la società capitalista in generale, tende a sussumere le tensioni, anche quelle sociali, per renderle merce. Non c'è questo rischio per Luther Blisset?

L.B.: Non ci siamo mai preoccupati di questo. L'ossessione del "recupero", perversa forma di sconfittismo, si è impadronita dei movimenti radicali soprattutto per colpa della Scuola di Francoforte e dell'Internazionale Situazionista, che da un lato hanno confuso i destini dei movimenti sociali con quelli delle avanguardie artistiche (equivoco interamente ereditato, e mai risolto, dalle "controculture"), dall'altro si sono basate sulla "dialettica negativa", un punto di vista che anziché sulla composizione della classe e sulla forza-invenzione del lavoro vivo poneva l'accento sull'onnipotenza e la voracità della "industria culturale" e poi dello "spettacolo". Quest'ultimo è un concetto vago e buono per tutte le stagioni, di cui bisognerebbe sbarazzarsi una volta per tutte. È ora di finirla col timore di essere "recuperati": in giro è pieno di rancorosi desperados a cui interessa di più essere "radicali" ed "estremi" (irrecuperabili, duri e puri) che vincere le battaglie assieme al maggior numero di persone possibile. Alcune sottoculture sono "irrecuperabili" semplicemente perché non producono messaggi efficaci, perché il capitale dovrebbe cercare di disinnescare bombe che non esploderanno? Tutto questo non ci appartiene. Noi siamo comunisti.

D.: Per toglierci altri dubbi... non è che questa operazione magari rischia di determinare una sorta di punto, diciamo di arrivo, per alcune soggettività, dell'esperienza di Luther Blisset? Oppure è vera la "profezia" Blissetiana, che LB avrà maggiore risonanza il momento in cui non ci sarà più?

L.B.: Chiariamoci: LB ci sarà ancora. Siamo noi "veterani" che liberiamo il personaggio virtuale dal peso della *nostra* reputazione, dalla laida Bologna, dai vecchi miti delle origini etc. Quanto all'effetto di *Q*, già adesso il nome circola più di prima, il romanzo è una potente istigazione a muoversi utilizzando lo pseudonimo aperto... Non si contano le recenti apparizioni di LB in rete, nei media, in Italia e in molti altri paesi dove *Q* arriverà solo tra qualche anno ma già se n'é parlato. Ci sono stati casi di cronaca come quello delle statue antiche rubate da alcune chiese calabresi, per le quali un Luther Blissett (palesemente ispirato dalle gesta narrate nel nostro romanzo) ha chiesto alla Chiesa un riscatto di cento milioni da devolvere ai poveri... Ovunque andiamo a presentare il romanzo, arrivano dei Blissett locali che ci portano le loro auto-produzioni e si dicono direttamente ispirati da *Q*. Luther Blissett non ha ancora finito di colpire. Lo stesso "nucleo storico" (che nei *Quaderni rossi* abbiamo definito "l'unico comitato centrale il cui fine ultimo è perdere il controllo del partito") non ha ancora esaurito la serie delle rivendicazioni, alcune saranno addirittura postume.

D.: Spesso leggendo il libro, si ha proprio l'impressione di una continua serie di metafore sull'esistente e sulla contemporaneità. Una sorta di analisi, più che della società, divisa in qualche modo da dominati e dominatori, su gioie e dolori dei movimenti sociali di trasformazione... che succede? Davvero poi finiremo tutti a fare un bel bagno caldo, osservando un nuovo Papa dettare legge?

L.B.: Il finale di *Q* non è per niente "disfattista", come alcuni hanno inteso. Il nostro protagonista ha più di cinquant'anni, per gli standard odierni è come averne settanta-ottanta. Ha lottato tutta la vita, quasi tutti i suoi amici e complici sono morti, è riuscito a scamparla, ha truffato il più grande potentato finanziario dell'epoca, e ha pure trovato una via di fuga per altre persone. A Costantinopoli, Joao dice che l'Europa è finita, "a noi rimane il mondo". Ismael dice che altri continueranno la lotta, in barba ai piani di volta in volta escogitati dal Potere. Oggi c'è gente che si considera "rivoluzionaria" perché ha preso parte a un corteo antiproibizionista, e magari si permette di dare del "rincoglionito" al nostro protagonista. Robe da pazzi. Gli stereotipi sul Rinascimento (a cui credeva anche Guy Debord, che sull'argomento ha scritto cazzate invereconde, da analfabeta di ritorno occultano il fatto che lo scontro tra Riforma e Controriforma fu una grave sconfitta per l'Europa; lo stesso Engels, in *Dialettica della natura*, definì la Riforma "la grande sciagura che ci è capitata": prima di Lutero, la cristianità era percorsa da fermenti proto-liberali e "controculturali", basti pensare a Erasmo da Rotterdam, a Paracelso... Con la Controriforma e la spartizione geopolitica del 1555, tutte quelle esperienze furono schiacciate. Per questo "l'Europa è finita". Per i lettori coltissimi, il finale contiene un piccolo ammiccamento: gli studiosi del Cinquecento sanno bene che, dal momento in cui riparò a Istanbul, Joao Miquez (ribattezzato Giuseppe Nasi) organizzò la più vasta rete di spionaggio che si fosse mai vista, diventando per l'odiata Venezia il nemico pubblico n.1. Il commercio di caffè è chiaramente una copertura. Infine, ricordo che abbiamo scritto un saggio, poi uscito per DeriveApprodi, che affronta le stesse tematiche di *Q* ma non in forma allegorica bensì nella loro cruda, selvaggia letteralità. È una sorta di "glosse a *Q*", una lettura complementare. Si chiama *Nemici dello Stato*, e lo ha pubblicato DeriveApprodi.

D.: Direi che Q è un ottimo libro per dare un ottimo benvenuto al Giubileo. Avete scelto a caso l'uscita di questo libro, o è anche un "invito" a trasformare il Giubileo in una "festa rivoluzionaria"?

L.B.: Nulla è stato scelto a caso, ma sulle possibilità di trasformare il Giubileo in una "festa rivoluzionaria", ci andrei piano. Tutti abbiamo il dovere morale di mettere i bastoni tra le ruote del Papa e di Ratzinger, ma sarà dura.

D.: Tornando al libro, non possiamo dimenticare di soffermarci sul fatto che è un libro che ripercorre eventi storici molto importanti, ma anche poco conosciuti. Quanto ci ha messo LB a scriverlo, e quanti LB ci sono voluti?

L.B.: Abbiamo studiato il periodo per sei mesi; altri sei mesi sono occorsi a inventare la storia e scrivere la "sceneggiatura", che in due anni è diventata un romanzo. Riguardo agli aspetti tecnici della scrittura a otto mani, sono convinto abbiano molta meno importanza dell'abitudine al lavoro collettivo che noi quattro avevamo già da tempo sviluppato, insieme all'amore per gli stessi registi, alla lettura degli stessi romanzi e al piacere della reciproca compagnia. In ogni caso: non ci siamo suddivisi i capitoli, tu scrivi il primo, io il secondo, ecc..., né i personaggi, tu tieni Gert dal Pozzo, io Thomas Muntzer. Il lavoro ha molti punti di contatto con la realizzazione di un film, non a caso, il prodotto culturale più eminentemente collettivo. Siamo partiti da un abbozzo di sceneggiatura e l'abbiamo sempre più rimpolpata fino ad arrivare a una cinquantina di pagine. Poi ci siamo sottoposti ad una settimana di convivenza e vera e propria scrittura a otto mani, per amalgamare gli stili e realizzare i primi cinque/sei capitoli. Dopodiché, sulla base della scaletta, dopo averla discussa nei dettagli, ognuno per conto suo scriveva la stessa scena e, all'incontro successivo, si lavorava di taglia e incolla: qualche volta passa, buona la prima, lo scritto di uno solo, altre volte si pesca un po' qua un po' là, altre volte si riscrive il pezzo insieme. Come in un film, il montaggio è il passaggio più importante e più delicato dell'intera produzione.

D.: Il protagonista di Q, sembra suggerirci che è meglio vivere le trasformazioni sociali, i movimenti di trasformazione e di liberazione, come qualcosa di molto presente, cioè non nell'attesa del benedetto "sol dell'avvenire", ma dell'esserci con consapevolezza nel momento. Un "qui ed ora" che poi, malgrado i dubbi e le incertezze della vita, riesce fuori in ogni occasione. Però poi ci ricorda, che "non si prosegue l'azione senza un piano". Si concilia il progetto politico, il percorso, con il "qui ed ora" delle tensioni rivoluzionarie?

L.B.: Non c'è contraddizione tra il "qui ed ora" e la progettualità politica, tanto più che il "piano" che non bisogna più seguire è quello del Potere, il piano del capitale, di Carafa o di chi per lui, il piano che sfrutta le debolezze degli anabattisti per trasformare la "comune di Muenster" in un incubo pol-pottiano ante litteram. Solo una volta uscito dall'Europa, il protagonista si sente affrancato, sa che potrà agire autonomamente, senza rischiare di fare ciò che il nemico ha previsto per lui.