Intervista a Luther Blissett
Con Q Luther Blissett approda al romanzo
Luther Blissett è lo pseudonimo (ormai celebre) dietro il quale, al momento, si celano quattro scrittori italiani, autori di un romanzo molto interessante, Q, edito da Einaudi. Ma Luther Blissett è anche di più, un movimento di idee che si è sviluppato su Internet, una dichiarazione d'intenti che va al di là delle singole persone. Insomma, quasi una "filosofia di vita". Non vogliamo svelarvi i nomi dei componenti del gruppo, quindi diciamo solo che li abbiamo incontrati, visti e intervistati: esistono, e formano quasi un'unica entità. Forniscono risposte in netta sintonia e senza dubbio sono destinati ad ancor più alti traguardi.
Perché vi celate dietro questo pseudonimo e "cos'è" Luther Blissett?
È una domanda che molti ci fanno da quando è uscito Q. Intanto una particolarità di Luther Blissett è proprio quella di mettere l'accento sull'insignificanza del concetto di proprietà intellettuale. Quella "nebulosa", quella "galassia" che adotta questo pseudonimo collettivo (ormai da un lustro in Internet, fuori da Internet, per le strade, in produzioni culturali di vario genere, feste massmediatiche, saggi, ecc.) è una sorta di comunità aperta dove le identità sono tutte relative, tutte fittizie, sono tutti giochi, effetti di prospettiva. La produzione di Blissett è sempre stata collettiva, anche quando si sono scritti saggi, anche quando si è fatto tutt'altro, e ci sembrava assurdo che non fosse così anche per il romanzo.
Ma il romanzo non è "un'altra cosa"...?
Sul romanzo, sulla scrittura, sopravvive un pregiudizio idealistico, secondo noi reazionario, che in realtà negli altri settori della produzione intellettuale, immateriale odierna è già stato demolito. È del tutto normale che un videogame abbia una trentina di autori accreditati nella prima schermata, è assolutamente normale che il software venga programmato da un network di persone che spesso non sono nemmeno fisicamente in contatto fra loro; nell'ambito della ricerca scientifica è assolutamente comune che i manuali siano fatti da più persone. E così in tutti i settori. Del resto, se si può suonare assieme in un'orchestra o in una jam-session, non si vede perché non si possa scrivere un libro a più mani. La cosa che spesso spiazza chi si pone di fronte al nostro "oggetto romanzo" e alla sfuggente identità dei suoi autori è il fatto che sia stato scritto a otto mani, mentre al massimo si aveva la cognizione di romanzi scritti a quattro mani. Per noi è assolutamente normale che la scrittura sia collettiva, anzi, per noi la scrittura è collettiva anche quando è individuale. Oggi vige la tendenza ad una grande ricombinazione, una continua ricitazione, con la possibilità di attingere a più fonti dell'immaginario. Noi non crediamo che esista il genio, che esista l'ispirazione, addirittura neghiamo il concetto di autore con la A maiuscola, di arte con la A maiuscola. Secondo noi queste sono "seghe mentali": anche chi ha ancora il mito del letterato in realtà non fa che riciclare, citare e modificare, perfezionare costantemente un patrimonio di creazioni culturali, di idee che è collettivo perché oggi tutti citano tutto e tutto dice tutto. Ma non è una novità. È assolutamente normale trovare in Rabelais o in Villon citazioni di concetti scritti e pensati prima da una moltitudine anonima di popolo. È sempre stato così, e lo è anche all'apice dell'era moderna, quando si è affermato il concetto di copyright, di proprietà intellettuale, di diritto d'autore (che sono tutte cose legate allo sviluppo del capitale in realtà più che alla libera creazione). Anche il romanzo "di genere" (che è la galassia all'interno della quale noi abbiamo scelto di muoverci e che è quella a noi più cara della produzione culturale), in fin dei conti è un continuo rimettere in forma degli stilemi e delle mitologie che appartengono poi a tutti.
Per questo motivo avete scelto di non registrare un copyright per Q?
Sì, questo libro è privo di copyright, è liberamente riproducibile e può essere messo in circolazione in versione sia cartacea che telematica, possono fiorire edizioni pirata... Tutti possono approfittarne, anche se chiaramente c'è stata una limitazione che ci ha imposto l'Einaudi dopo un lunghissimo braccio di ferro con il loro Ufficio diritti: il romanzo non può essere riprodotto da un'altra casa editrice a scopo commerciale. Questo per noi è già un compromesso, comunque sensato, che ha salvato la sostanza della questione. I nostri libri precedenti, usciti non per grandi gruppi ma per piccole case editrici, sia in Italia sia in Germania, sono completamente privi di copyright e liberamente riproducibili. Per noi questa è una scelta legata indissolubilmente alla storia di Luther Blissett come pseudonimo, ed è semplicemente un venire alla luce, un affiorare di quella che è una condizione odierna e siamo intenzionati a proseguire la sperimentazione lungo questa strada.
Da quanto tempo lavorate insieme?
Con alcuni da cinque anni, con altri da una decina. Prima ancora della nascita di Blissett, dai tempi dell'occupazione dell'università nel '90.
Di che città siete?
Viviamo tutti e quattro a Bologna.
È possibile parlare di Q, raccontarne la storia?
Diremo qualcosa sul romanzo senza entrare troppo nei dettagli
della storia, perché è una spy story, un giallo, ed è meglio
non svelare la trama.
Questo romanzo si intitola Q, come il nome dell'antagonista, di
colui che contrasta il protagonista e cerca di ostacolarne il
cammino, i progetti, le aspirazioni, ma Q è anche l'anima vincente
della storia, è l'esecutore del cardinale che diverrà papa,
è il depositario della verità e quindi è lui il protagonista.
Il vero protagonista della storia, la voce narrante, è in realtà
il rivoluzionario, quindi l'antagonista...
Questo è uno dei cardini principali attorno ai quali è costruita
la vicenda, un giallo, appunto, ma anche un romanzo storico.
Due parole soltanto sulla definizione di Q come romanzo storico.
All'origine, quando il libro doveva ancora uscire, abbiamo avuto
un lungo dibattito con gli editori circa la definizione da dare
a questo romanzo. Alla fine, per forza di cose, è stato definito
un romanzo storico, essendo ambientato nel Cinquecento. Abbiamo
accettato questa categorizzazione, però forse vale la pena aggiungere
qualcosa: la Storia è lo sfondo di questo romanzo ma è anche
una fonte di storie, cioè il romanzo è un romanzo di spionaggio,
un giallo, in qualche modo anche una detective story che usa la
Storia come scenario, come spunto.
Sono stati necessari svariati mesi di ricerca in molte biblioteche
per raccogliere tutto il materiale che è servito alla composizione
della vicenda. E questo prima di avere una qualsiasi scaletta,
anzi la scaletta è venuta proprio in seguito alla scoperta delle
notizie che abbiamo trovato nelle cronache, nei saggi, ecc. Anche
i personaggi che compaiono nel romanzo al 95% sono personaggi
che abbiamo raccolto nelle nostre indagini.
Allora qual è il limite tra romanziere e storico?
Qualche sera fa eravamo a Pisa a presentare il romanzo insieme
ad Adriano Prosperi, forse il massimo storico italiano dell'Inquisizione,
che è stato uno degli autori "saccheggiati" per scrivere
Q. Le sue ricerche, fatte insieme a Carlo Ginzburg negli anni
Settanta, hanno fornito materiale, personaggi e storie utili a
scrivere soprattutto la terza parte del romanzo, la parte finale.
Tutta la discussione è stata impostata sulla figura dello storico
e quella del romanziere: divergenze, punti di contatto ecc.
Proprio in questa direzione Prosperi aveva scritto una recensione
di Q molto interessante, apparsa sul Corriere della Sera, che
cercava di stabilire queste differenze, ovvero: il mestiere dello
storico è quello di cercare le fonti, provare a ricostruire la
Storia, secondo canoni "obiettivi", oggettivi, confermabili
dalle fonti e dai documenti. Ovviamente questo non è sempre possibile,
perché molto spesso le fonti mancano o sono estremamente parziali,
partigiane. Lo storico deve prendere sempre "con le pinze",
con beneficio d'inventario il materiale che va a scavare e tutt'al
più può gettare ponti sui buchi vuoti della Storia, fare delle
ipotesi, sempre però mettendo le mani avanti e precisando che
là dove c'è il buco, il cono d'ombra della Storia, si fanno
solo supposizioni... Il romanziere fa un altro mestiere; il romanziere
racconta "storie" e le racconta non secondo il canone
della pretesa di verità che è proprio dello studioso, ma va
a scavare la Storia ai fini delle storie che vuole raccontare,
cioè i personaggi, le vicende, le versioni che il romanziere
sceglie, le sceglie in quanto utili, finalizzate alla sua opera,
che non è la Storia ma è la fiction. Il romanzo storico è comunque
un prodotto di fiction, di intrattenimento: sovraccaricarlo di
una volontà di chiarire in maniera oggettiva la Storia è fondamentalmente
sbagliato. Se un romanziere avesse questa pretesa si creerebbero
delle ambiguità. Ciò non toglie che possano esserci punti di
convergenza fra le due figure, nel senso che, se lo storico segue
un canone di obiettività e fonti che possono essere confrontate
e verificate in un dibattito aperto nella comunità scientifica,
il romanziere no, il romanziere fa una scelta perché deve "raccontare
la sua storia", appunto. Però ha una qualità in più, una
qualità diversa: il romanziere può cercare di ricreare le atmosfere
di un'epoca, l'idem sentire, l'humus di sentimenti, di sensazioni,
di idee politiche o religiose. E questo per lo storico è molto
più difficile. Il romanziere ha questa licenza. Nella letteratura
gli esempi sono un'infinità. Da questo punto di vista dunque
chiunque si avvicini a Q e abbia voglia di leggerlo dovrebbe tenere
presente, a nostro avviso, che è appunto un giallo, un romanzo
di spionaggio e che si rifà a un criterio di verosimiglianza,
"radicale verosimiglianza" che non ha niente a che vedere
con la verità.
Siete approdati a una casa editrice importante, ma siete partiti in modo più combattivo...
Anche adesso continuiamo ad avere sul groppone processi e denunce, non è finita.
Come siete arrivati all'Einaudi?
Ci hanno cercato loro. Avevamo pubblicato per case editrici più piccole, come Castelvecchi, e la collana Stile Libero ci contattò all'inizio del '96 chiedendoci se fossimo disposti a scrivere altri libri di quel genere, cioè di spericolata teoria dei media, manuali di guerriglia culturale ecc. Noi invece stavamo già facendo le ricerche preliminari per quello che sarebbe poi diventato Q, perché avevamo voglia di passare al linguaggio della narrativa.
Alla luce delle due esperienze, meglio la saggistica o la narrativa?
Tutti noi siamo convinti assertori della superiorità della
narrativa sulla saggistica. Anche tutte le citazioni, e le suggestioni
che abbiamo riversato sulle nostre opere di saggistica venivano
dal cinema o dal romanzo di genere. È molto raro che nei nostri
testi si citino saggisti; citiamo molto più frequentemente Dashiell
Hammett, James Ellroy, Elmore Leonard, autori di gialli.
Nelle loro opere troviamo "teoria della vita" messa
in pratica: ci sono situazioni di vita reale, inghippi, imbrogli,
truffe e scontri violenti tra diverse soggettività che secondo
noi sono molto più "esemplari" rispetto alle vuote
teorizzazioni, spesso post-moderne, che molti presunti "sovversivi"
amano citare come pezze d'appoggio per le loro azioni. In realtà
si coglie molto bene lo iato tra quello che dicono e quello che
fanno, perché spesso la loro pratica è misera... sono rovinati
dalle "buone letture". A noi non interessano le "buone
letture", ci interessano le letture che ci piacciono, senza
stare a pensare se saranno buone secondo canoni convenzionali.
Leggendo Q, se si conosce la storia di Blissett come pseudonimo,
si ritroverà tutto il cammino che abbiamo condotto, includendo
in questo anche lo sperimentare con le identità del protagonista,
che cambia nome ad ogni capitolo e non ha un nome vero all'inizio
del libro. Si finisce il romanzo e ci si accorge di non sapere
il vero nome del protagonista, perché l'io narrante è semplicemente
una concatenazione di pseudonimi che lui continua ad adottare,
di eteronimi.
Dentro il mondo dei media che possibilità può avere la letteratura di incidere davvero?
Noi speriamo naturalmente che ne abbia. Non abbiamo semplicemente gettato un sasso nello stagno aspettando di vedere che cosa succede! Intendiamo mantenere salde le redini del progetto per quanto durerà e continuare ancora a lavorare, farci tramite di messaggi, escogitare sempre nuovi espedienti, costruire nuovi Cavalli di Troia.
In fondo essere approdati all'Einaudi ha voluto anche dire raggiungere più pubblico...
Sì, ma comunque gli approdi sono sempre associati a nuove derive.
(Intervista a cura di Grazia Casagrande e Giulia Mozzato)