Tentativo di stroncatura di Q su "Diario"

Finalmente una stroncatura! Che sollievo, cominciavamo a temere di piacere a tutti.

La recensione che segue è un perfetto esempio di quella "poetica dell'amputazione" che Gilles Deleuze ravvisava nel lavoro drammaturgico di Carmelo Bene. Alcuni esempi: lavorando su "Romeo and Juliet", Bene asportò dal testo shakespeariano il personaggio di Romeo - per vedere cosa succedeva. Il risultato fu l'escrescere di Mercuzio, che divenne un personaggio abnormemente importante. Ancor più significativa l'operazione compiuta sul "Riccardo III" - asportati dal testo tutti i personaggi maschili fatta eccezione per il protagonista, un'opera tutta politica, sugli intrighi del potere, divenne un dramma intimo, un "kammerspiel" espressionista, una meditazione sul potere del femminino. Non a caso, lo spettacolo aveva come sottotitolo - se non erriamo - "La nottataccia di un uomo da guerra". Ultimo esempio: risalendo all'Amleto shakespeariano via Jules Laforgue, Bene opera un'amputazione che altera completamente il testo: rimuove l'intento vendicativo del protagonista, e tutta la vicenda si ri-costruisce intorno a questo strano buco nero.

Arriviamo a noi. La premessa è un'accusa multipla di reazionarismo, disfattismo e revisionismo storico, per sostenere la quale Gianfranco Manfredi (che, a meno che non ci confondiamo con qualcun altro, ricordiamo prima come stornellatore del "proletariato giovanile", poi come aspirante romanziere e addirittura come autore/attore in produzioni Fininvest) è stato costretto ad "amputare" dal testo ciò che non rientrava nello schema affidatogli.

Per "dimostrare" che la visione della lotta di classe che emerge da Q si risolve in un "caotico 'vamos a matar companeros'", Manfredi ha dovuto togliere dal romanzo la descrizione della comunità loista di Anversa, il cui progetto politico-religioso è presentato come il più lucido e il più in anticipo sui tempi. Scomparendo dalla trama del romanzo, Eloi trascina con sé le analisi sul capitale finanziario, l'ambizioso tentativo di truffa alle filiali Fugger etc. Si tratta, in fondo, di una bazzecola: appena 200 pagine, il perno di tutti gli avvenimenti della terza parte.

Ma, operata l'amputazione, Manfredi non aveva ancora tra le mani il testo che desiderava stroncare e così, come dicono i cinesi, si è messo a "soffiare sulla pelliccia per trovare il difetto", fino a recensire - anziché un'opera di fiction - un saggio accademico che nessuno ha scritto, e a mistificare il finale. Buona lettura!

 


Da "Diario della settimana", anno IV, n.22, 2 giugno 1999, pagg.76-77:

L'ANABATTISMO TRADITO

Travestimenti ideologici in forma di romanzo
Q di Luther Blissett
Einaudi, Pag. 651, 26.000 lire

 

Mi dispiace, ma non mi è piaciuto, Dico che mi dispiace perché, sotto Giubileo, un romanzo storico ambientato in piena Riforma Protestante è comunque un ottimo antidoto al rinnovato spaccio di indulgenze; e inoltre, in un momento letterario che insiste ad accoppiare l'ipertrofico protagonismo degli autori a una scoraggiante modestia di propositi prima ancora che di esiti, è da salutare con sollievo un lavoro generoso, anonimo, collettivo, eccessivo, coraggiosamente fuori tracciato, insomma massimalista in ogni senso, come Q. Ma dico anche che non mi è piaciuto, per motivi ben più importanti. Tra questi non rientrano le discutibili scelte stilistiche alla base del romanzo. Certo, il linguaggo sfoggiato dal protagonista narrante, uno studente di teologia del XVI secolo, fa l'effetto del classico orologio al polso del legionario romano. Lasciamo pure perdere il turpiloquio usato come un intercalare qualunque e non come vero linguaggio, lasciamo anche stare le anacronistiche analisi sociologiche e di classe che il nostro sfodera a getto continuo, l'insistere sui "Piani", le "trame" e addirittura gli "scenari", tutto ciò in fondo da parte di un aspetto metaforico del romanzo, di cui parlerò più avanti, però a questo si aggiungono momenti di autentico cattivo gusto. Per esempio, quando del personaggio di Jan di Leida il nostro cinquecentesco protagonista dice: "Saranno i movimenti, i gesti, gli occhi strabuzzati e un istante dopo ammalianti, sarà la bellezza, la giovinezza, che ne so. So che funziona".

No! Il "funziona" ci venga risparmiato! Almeno questo! Però, dicevo, non è di questioni stilistiche che mette conto parlare, dato che comunque la rivoluzione non è un pranzo di gala, e il romanzo si presenta anche come "militante" e "sovversivo". Purtroppo. Dunque: in Q si narrano vicende del movimento anabattista, eppure si ha ben più d'una vaga sensazione che agli autori dell'anabattismo (e più in generale della Riforma) non freghi poi granché. "Suvvia, messere! Non prendiamoci in giro... il potere, per questo si scannano. Per carità, non dico che il vecchio Lutero non ci credesse, non dico che l'aitante Calvino non ne sia convinto, ma sono soltanto pedine. Se non facessero comodo ai potenti, quei corvacci neri non sarebbero nessuno, ve lo dico io, nes-su-no!".

È vero che queste parole vengono messe in bocca a un libraio saccente, ma è anche vero che per tutto il romanzo gli autori mostrano di pensare la stessa cosa, che cioè gli argomenti spirituali e teologici e le relative battaglie non fossero altro che il travestimento ideologico di lotte di potere e dunque trascurabilissimi nel merito. Un esempio: all'epoca della Riforma si tenevano Dispute Teologiche in piazza, ma in Q (peraltro in un contesto di grande attenzione a luoghi, protagonisti, circostanze, date) i discorsi al popolo sono comizi, puri e semplici. Il vero oggetto della narrazione è la Rivolta. L'anabattismo viene considerato come via post-medievale al comunismo, o più esattamente come metafora di un'eterna condizione ribelle, insomma come pretesto. Gli autori di Q si curano talmente poco dell'anabattismo vero, che per raccontare la storia non esistano, quando gli sfagiola, ad abbeverarsi alle fonti della propaganda avversaria.

Prendiamo per esempio l'episodio (centrale nel romanzo) della presa della città di Muenster. Scrive Ugo Gastaldi nella sua *Storia dell'Anabattismo* (Claudiana): "Una ricostruzione obiettiva degli avvenimenti che portarono alla costituzione della Nuova Sion anabattista presenta non poche difficoltà. Le notizie che possiamo trarre dalle fonti sono scarse, incerte e spesso inattendibili". La principale di queste fonti, la *Historica Narratio* di Hermann von Kerssenbroick, è ostile, cioè di parte aristocratica e cattolica. Eppure torna comoda agli autori di Q proprio perché ci va giù pesante, e il truce, si sa, fa molto "romanzo maledetto". E il paradotto è che, nel rimarcare la propria inclinazione sovversiva, essi non si fanno scrupolo di usare le ricostruzioni demonizzanti dei massacratori, appesantendole se occorre! Alcuni storici, sulla base di errate illazioni, fanno del leader anabattista Jan di Leida un ex attore? Bene! Inzuppiamoci il pane. Per noi sarà addirittura un attore folle e puttaniere, tragico e farsesco Re Tiranno degli ingenui alla deriva, come un Charlie Manson tra i figli dei fiori allo sbando. Quello che ci interessa non è il vilipeso, martirizzato, dimenticato Jan di Leida, ma la metafora della rivoluzione che sempre esplode e implode in utopie e fanatismi, grandezze e miserie, feste e tragedie, sacrifici e massacri. Quello che ci interessa è anche mostrare come il nemico sia sempre pronto a sfruttare il candore e gli errori dei rivoluzionari, e a costruirci sopra diabolici intrighi e oscurissimi complotti di abili mestatori e di agenti segreti, che "discreti e invisibili fanno capolino dietro le tiare e le coronoe, ma in realtà reggono l'intera geomentria del quadro, e, senza lasciarsi scorgere, consentono a quelle teste di occuparne il centro". D'accordo. Vogliamo continuare a raccontarcela così, la storia delle sconfitte rivoluzionarie? Un caotico "vamos a matar companeros" di plebi e studentelli, cui corrispondono gli occhiuti piani del Potere che finge di fare il gioco nostro perché non si faccia il gioco suo?

D'accordo, andiamo avanti così, facciamoci del male, che il revisionismo storico dei reazionari non possa mai pareggiare i danni che sappiamo infliggerci da soli! Calma. Limitiamoci ai destini dei protagonisti dei romanzi. Eccoli che dopo essersi coinvolti e smarriti in strategie di controllo globale degne della Spectre (anche sul piano del ridicolo) o in dietrologie da baretto dell'università (ma prese terribilmente sul serio), alla fine dell'annosa vicenda, entrambi i personaggi guida, cioè l'occulto servo del potere e l'irriducibile sovversivo, concludono congiuntamente l'uno che "la mente degli uomini compie strane evoluzioni e non esiste un piano che possa comprenderle tutte", e l'altro che tanto vale assaporare "i piccoli piaceri che rendono la vita degna d'essere chiamata tale" e dunque "ci spetta il tepore dei bagni, Possano i giorni trascorrere senza meta. Non si prosegua l'azione secondo un piano".

E qui il lettore si sente veramente e insopportabilmente preso in giro. Ma come! L'uomo dell'Ecclesiaste non ci ha messo una vita per capire che "tutto è vanità"? E che dire del grande ribelle? Dopo aver perseguito armi in pugno impossibili quanto ultimativi e imprescindibili obiettivi (quelli reali degli anabattisti essendo del tutto travisati e incompresi dai narratori), dopo aver attraversato genocidi infiniti ed essere sopravvissuto alla morte dei maestri, dei compagni e degli amici, il nostro eroe, ormai anziano ed esperto delle cose del mondo, si conforta e si appaga nel rilassante happy end di un bagno turco a tirare "un'ampia boccata di fumo dalla canna del narghilé". Siamo alle canne, dunque.

Trattasi di saggezza acquisitia o di rincoglionimento supremo?

 

GIANFRANCO MANFREDI