Wed, 05 May 1999
Da un amico di famiglia
Cara Chiara,
[...] mantenere la promessa di parlare di "Q", di cui ho appena terminata la lettura, non è facile. La disabitudine allo scrivere è grande, superarla impone uno scatto della volontà, in una specie di piccola scommessa di alfieriana memoria.
Ma non è solo questione di scrittura. Dal lato dei contenuti c'è qualche complicazione più seria a fronte di un libro - appunto "Q" - che è un vero e proprio labirinto. E un grande evocatore della memoria. Alla lettura emergono risonanze di vecchie sedimentazioni, ricordi di letture, di cose, appunti, riflessioni. Sui Fugger da qualche parte debbo ancora avere un saggio dell'Einaudi degli anni '46-'47, copertina rosso veneziano, carta pessima, col tempo diventata grigio opaco. Su Muntzer i due volumi di Bloch della Feltrinelli in giallo oro con illustrazioni sul frontespizio, sono tra quelli in evidenza nella libreria e, riguardati, pieni di sottolineature e annotazioni a margine.
Più in generale è forte la sensazione che il libro, proprio nei suoi contenuti storici, parli anche di noi, dei nostri anni non recentissimi, grida di rivoluzioni, grande vivacità sociale, forzature ideologiche, spaccature, scomposizioni e l'infossarsi di un'epoca promettente nella clandestinità e nel terrorismo.
"Q", superate alcune pesantezze e difficoltà di lettura, specie nel gioco intrigante dell'avanti/indietro della memoria e degli avvenimenti, chiama ad una grande avventura, con quel turbinoso suo viaggiare all'origine della modernità (la Riforma, l'articolarsi del suo fronte, la Controriforma dei principi, l'anabattismo, la stampa, ecc.) e, per certi versi, nel suo rispecchiamento ai confini dell'oggi.
Sorprende il prodigioso accumulo culturale e religioso. La precisazione, quasi maniacale, del dettaglio (vedi le descrizioni delle città), senza che questo - che pure poteva rappresentare uno scoglio abbastanza impervio - inaridisca o comprometta il carattere "romanzesco" e narrativo del libro.
Che resta una storia di storie di uomini e donne in un intreccio infinito e tuttavia coerente, senza debordamenti inutili. I personaggi, anche minori, si sostnegono da soli, senza cedimenti macchiettistici, capaci cioè di vivere di vita propria e liberamente all'interno del grande impianto storico della narrazione.
Volendo fare accostamenti, più che Eco, mi è venuto in mente un romanzo sul cabbalismo sefardita, un libro "giallo", ambientato anch'esso in anni cruciali e terribili, poco prima della cacciata degli ebrei dalla Spagna, con autodafé di massa ed una strana storia di preziosi manoscritti della Torah ed assassinii misteriosi. Non del livello di "Q", ma con strane coincidenze, l'angolatura del "giallo", il libro e la scrittura come centro e fulcro dell'intero romanzo, il richiamo all liberatoria cultura ebraica contro quella repressiva e sanguinaria dei re cattolicissimi.
Forse coincidenze immaginarie, accostamenti fortuiti, una specie di deriva mentale - e qui mi allontano un attimo da Luther Blissett - forzata dalla sola "casualità" o non invece necessaria come espressione di inconsapevoli intrecci interiori o, nel peggiore dei casi, una geografia mentale da rigattiere dalla quale, all'occorrenza, tirar fuori ogni sorta di oggetti accomunati solo dalla vicinanza virtuale...
E tuttavia, pur con qualche lontananza da "Q", questa contorta riflessione non è lontana dalla sua lettura. Qualche giorno fa mi è capitato di comprare un libriccino edito da einaudi sull'ebraismo: come lo apro si squaderna una pagina dedicata ad una certa Gracia Nasi (1510-1569), ebrea, benefattrice, che, a lettura avanzata, si rivela essere non altri che, cito testualmente, "Beatriz de Luna, il cui marito, Diego Mendez, aveva accumulato una fortuna con il commercio delle spezie (...) nel 1544 si trasferì a Venezia fingendosi cristiana (...) trascorse gli ultimi anni a Costantinopoli, dove visse in una splendida residenza affacciata sul Bosforo a Galata e dove continuò senza interruzione la grande opera di salvataggio degli ebrei spagnoli, accudendo poveri e bisognosi".
Se questa non è una coincidenza!
In ogni modo è una conferma, magari minore, del grande lavoro di approfondimento storico che, comunque lo giri, non finisce mai di stupire, certo per la sua estensione, ma ancor più per l'abile utilizzazione che ne fa l'ossatura portante dell'intero libro.
Voglio però aggiungere qualche altra considerazione.
Intanto va sottolineata la riuscita struttura binaria dell'impianto narrativo, costruito, nella sua labirintica complessità, attorno all'asse duale della presenza/assenza di Gert dal Pozzo e di Q. Una strada maestra semplice, chiara, direi quasi elementare, sulla quale possono innescarsi le complicate storie di Gert stesso (doppio nella memoria e nella contemporaneità storica) e di tutta l'infinita miriade di personaggi.
I due ruoli, protagonista/antagonista, sono evidenziati dalla bella diversificazione linguistica dei due personaggi: diretto, spesso autoriflessivo fino alla paranoia quello di Gert, con pagine bellissime come quelle del monologo lacerato all'inizio del capitolo 18 della seconda parte, con grande uso dei sostantivi senza verbi che rende dialoghi e descrizioni secchi, veloci, cinematografici; avvolgente se non contorto, certo sussequioso e formale quello di Q, come si addice ai rapporti curiali e per di più in funzione di misteriosa messaggeria spionistica.
Le donne: Ottilie, forte, ardita compagna di letto di Muntzer e insieme partecipe delle sue battaglie, per le quali organizza quelle che ancor oggi chiameremmo le masse femminili. Ursula, volgarmente provocatrice ("È il mestruo che ti ubriaca, uomo?"), che con il sangue mestruale quasi battezza Gert in una specie di rito nero che lo sospinge a nuova vita proprio a partire da quel segno rosso sul dorso della mano.
Sono proprio le donne - segno di vitalità, di naturale e voluta generosità - che ripescano Gert dal suo tendenziale pessimismo e dalle pesantezze delle sconfitte e delle fughe. Lo richiamano alla sua vera vocazione, che è vocazione di vita e non di morte. Come fa appunto anche Beatrice de Luna quando gli ricorda: "Non siamo forse ancora vivi e liberi di solcare il mare?"
A me sembra questo il senso più profondo e in qualche modo definitivo del libro: prima di ogni cosa viene la vita, come d'altronde è predicato nel testo di riferimento del libro (Qoelet). Non vita comunque, essa è meritata e vale quando è lotta, riscatto della libertà, passione per gli altri, disinteresse di sé, dolore, piacere.
Altrimenti la vita muore, resta soffocata se costruita entro le angustie delle ideologie, delle pianificazioni, anche di quelle che nei loro momenti iniziali erano cariche di promesse e potenzialità. In tali casi anzi essa è travolta, trascinata in percorsi tortuosi, sempre più tenebrosi fino alle follie collettive, all'efferatezza delle crudeltà insensate (i bambini giudici, le poligamie imposte con la violenza ecc.).
È vero quindi che non esiste un piano perfetto, né generale per l'universalità degli uomini, né particolare al servizio dei poteri occulti e feroci. Come dice Q quando, ormai sconfitto, lascia intravedere nuove vie di fuga e confessa: "Non esiste un piano perfetto...un imprevisto c'è sempre, un piccolo dettaglio ritenuto irrilevante e dimenticato che all'improvviso diventa la leva per scardinare l'intero marchingegno". E quell'imprevisto è lo scatto dell'intelligenza, l'insofferenza della servitù anche nel servo, insomma la vita, che, quasi scomparsa in apparenza, torna a tracimare dal contenitore troppo ristretto e insufficiente a racchiudere la sua prorompente energia.
E anche qui, come dicevo sopra, vita intesa non come adattamento passivo, larvale nascondimento nei buchi della storia, ma lotta, battaglia, sconfitta, ripresa da soli, insieme agli altri e soprattutto alla inesausta fertilità dello spirito (e della carne) femminile.
"Q" è un libro ubiquitario, unitario e debordante insieme, sempre comunque "governato": come lo prendi, sei sicuro di tralasciare qualcosa, smarrire un sentiero e, al tempo stesso, di volerlo ritrovare ed esplorare di nuovo.
Così i motivi di interesse e meraviglia riempiono i miei foglietti colorati con annotazioni che spesso non riesco più a capire perché buttate giù in fretta e furia nel bel mezzo della lettura: l'invenzione della stampa e del volantino (invenzione narrativa o ennesima traduzione di un fatto storico), la libera rilettura della Bibbia come filo rosso della liberazione degli oppressi e motivo di degenerazione sanguinaria, la qualità della vita tra libertà e sottomissione (il dialogo finale tra Gert e Q ormai scoperto), le città restituite ad una loro sorprendente vitalità dalla pignoleria narrativa, tuttavia veloce e secca, ecc.
Non meno sorprendente è infine la paternità di "Q", da intendersi in senso proprio letterale come produzione di uomini. Peraltro in un senso strano e più ampio della paternità naturale che è sempre individuale ed unipersonale. Per "Q" il padre è un anonimo quanto misterioso soggetto, un certo Luther Blissett, una cellula italiana di un organismo collettivo che pare aver preso piede in Europa e altrove.
Questo Luther Blissett all'origine sembra essere stato un calciatore inglese, salito alla ribalta delle cronache come campione e - rivelatosi presto una schiappa - decaduto e dimenticato in un batter d'occhio. Forse un simbolo visivo delle marginalità e delle virtualità comunicative che sopprimono ogni definita ed esprimibile soggettività.
Tutto nasce nei luoghi nascosti ed oscuri dei sotterranei metropolitani. Forse, proprio per l'incertezza dell'origine, non è detto che le cose stiano proprio così. Certo è che Luther Blissett, nella mitologia inespressa delle città, si è costituito come soggetto collettivo dietro la cui cifra anonimizzante, singoli individui o gruppi di volta in volta nascondono consapevolmente visi, generalità, concretezza personale. Così come avviene nella produzione degli oggetti sociali - cinema, tv, città', prodotti alimentari, abiti, insomma cultura intellettuale e cultura materiale - dove la presenza individuale è totalmente riassorbita dalla sua serialità collettiva.
Se così è per la totalità delle realtà quotidiane, non si vede perché - questo è alla fine l'assunto di fondo di questo romanzo vivacemente intriso di ideologie ed impegno politico - da questo riassorbimento totalizzante debbano salvarsi la letteratura, la poesia, ecc.
E "Q" vuole essere, proprio come manufatto letterario di alto livello, la dimostrazione della reale possibilità di una produzione collettiva laddove la tradizione colloca il massimo di individualità personale.
La compattezza e la riuscita narrativa del libro, capace di trattenere in una trama coerente e per certi versi grandiosa, la multiformità delle molte storie di cui si compone, stanno a dimostrare che, volendo, otto mani funzionano altrettanto bene delle due mitiche personali.
Né la pluralità dei padri è l'evento più trasgressivo. Ancor più intrigante è la volontà di mantenere l'anonimato di chi, insieme, con metodi di lavoro certo inconsueti, ha concorso alla nascita di "Q".
Per ironia della sorte o, forse meglio, per la diabolica capacità del "sistema" di proporsi, nell'immediatezza dell'apparenza, come totalmente trasparente, gli autori di "Q" sono stati ugualmente costretti a farsi visibili, a scendere in campo personalmente in diverse performances promozionali, così come vuole il gioco del mercato. Per sostenere la vendibilità di "Q", che è pur sempre una merce, hanno dovuto, forse anche contro l'assunto ideale, confrontarsi con il pubblico di potenziali acquirenti-lettori, spiegare il senso e i contenuti del loro lavoro. In sostanza si sono disvelati, rompendo la scorza dell'anonimato.
Ma non senza un ultimo tentativo di "resistenza" attiva, come almeno è successo a Ravenna, in occasione della presentazione di "Q". Tre giovani, peraltro simpatici e brillanti - un quarto assente per ragioni di lavoro - hanno presieduto l'incontro presso la libreria Feltrinelli e tuttavia, ad onta della necessaria apparizione, nessuno ha saputo i loro nomi, per meditata scelta di mantenersi, con questo anonimato anagrafico, al di là dell'ultimo velo di visibilità costrittiva del "sistema".
In questo senso salute a Luther Blissett in aggiunta alle congratulazioni per la qualità e lo spessore letterario di "Q". E in suo/loro omaggio, con un possibile margine d'ironia, anch'io mi firmo
Luther Blissett