Trascendentale.org presenta...
IL CAPOLAVORO CHE HA SCONVOLTO IL MONDO DELLA SUB-LETTERATURA
"Un romanzo folle e inaccettabile, inquietante e divertente, divenuto già un cult-book... l'ultimo grande capolavoro di Luther Blissett"
- Michele Giacoppo, "La Repubblica"
"Surreale e profondo come solo i clandestini della cultura sanno essere"
- Filippo Lucianetti, "La Stampa"
Per la prima volta in Italia, Trascendentale.org pubblica in versione integrale e gratuita il romanzo cult di Luther Blisset "Super-Golpe", protagonista di una infinita serie di censure, oscuramenti e ostruzionismi. Il romanzo, scritto nel 2000, è già divenuto cult fra gli ambienti della letteratura underground e clandestina.
SUPER-GOLPE
di Luther Blissett
Non ho nome. Non ho età né identità. Per quanto riguarda il corpo, invece, ne sto aspettando uno.
Sono un'anima e, come tutte le anime, sono destinata a reincarnarmi un numero infinito di volte, ricominciando sempre da capo, dimenticando ogni volta il mio passato, le storie di tutte le vite che ho vissuto in precedenza e tutto ciò che ho appreso.
Ho vissuto innumerevoli esistenze, ormai so bene come funzionano le cose dopo la morte, ma nonostante ciò mi ritrovo costretta, ogni volta che mi reincarno, ad essere una volta islamica e una volta ebrea, una volta cattolica e una volta atea, una volta buddista e una induista o animista e via e via e via! Naturalmente nella mia lunga "carriera" non mancano nemmeno i culti più singolari: per esempio nella penultima vita che ho vissuto adoravo Sai Baba. In una mia vita passata invece fui bruciata come strega: accadde ai tempi del repulisti cristiano degli anni '30 (del tredicesimo secolo) che durò più di dieci anni; io fui beccata fra le ultime perché mi nascosi per diversi anni in una casettina abbandonata nel bosco attorno al mio paesino (di cui non saprei dirvi né il nome né la collocazione geografica, visto che allora ero una totale analfabeta e sconoscevo tali informazioni). Disgraziatamente non c'era nulla che potesse arginare l'esaltazione religiosa del gruppo di preti pazzi che setacciavano il mio paese: mi trovarono e cinque ore dopo mi abbrustolirono. La cosa singolare è che nella vita successiva presi i voti e divenni un prete pazzo proprio come quelli che mi avevano messa al rogo nella vita precedente; io stessa bruciai con le mie mani tanta e tanta gente. Del resto, a giudicare dal mio curriculum, si direbbe che con la pazzia ho un certo feeling; l'ultima delle vite che ho vissuto, tanto per cambiare, era quella di un mezzo pazzo di nome Ics Ipsilon. Anzi, visto che l'attesa per un nuovo corpo si prospetta alquanto lunga, vi racconterò gli ultimi cinque giorni di questa vita, ché a mio avviso sono tanto emblematici che da soli danno un quadro fin troppo chiaro del personaggio che li ha vissuti.
Era l'una e venti del suo quintultimo giorno quando Ics Ipsilon, dopo aver tentato inutilmente di prendere sonno, si mise seduto sul materasso, raccolse un po' i pensieri e si diresse verso la scrivania. Accese la luce e, preso un foglio bianco dalla pila poggiata sul tavolo, cominciò a scrivere:
1 Gennaio 2001
Oggi ho deciso di iniziare a scrivere il mio diario. Mi chiamo Ics Ipsilon, insegno italiano e latino al liceo classico Garibaldi di Castel San Pancrazio. Sono nato il 22 Aprile del 1971. Sono orfano dal 2 luglio del 1999, giorno in cui, quattro anni dopo la scomparsa di mamma, è morto mio padre. In occasione della sua morte, sebbene già da tempo fosse per me un peso, dal momento che non soltanto aveva perso l'autonomia fisica che lo aveva sempre caratterizzato ma aveva anche smarrito del tutto la ragione, provai una sensazione stranissima, razionalmente inspiegabile dato che non era né felicità né tristezza né una via di mezzo. Tentai di placarla per mezzo dell'alcool. La sera stessa del 2 luglio mi ubriacai per la prima volta in vita mia, come se avessi aspettato la morte di mio padre per fare una cosa del genere. Mi sono pentito in seguito di una tale mancanza di rispetto, un atteggiamento che per me fu quasi sacrilego. Del resto ho sempre voluto bene a mio papà, anche quando aveva cominciato a combattere contro i mulini a vento. Non faceva questo in senso metaforico: aveva studiato ininterrottamente per mesi e mesi la programmazione per computer nel tentativo, portato felicemente in porto, di realizzare un rudimentale videogioco il cui scopo era appunto quello di combattere contro i mulini a vento. Gli ho chiesto decine di volte di spiegarmi che senso avesse quella cosa; ogni volta che gli dicevo "papà, ma perché fai questo?" lui mi ripeteva sempre le stesse identiche parole: "il simbolismo lunare si applica a qualsiasi procedimento cosmico". In definitiva, mio padre ha vissuto nella pazzia gli ultimi anni della sua vita. La cosa singolare è che, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, la sua follia non fu causata dalla morte di mia madre, avvenimento che anzi sembrò quasi lasciarlo del tutto indifferente, ma da un qualcosa di fulminante e sconosciuto. Ci accorgemmo che era improvvisamente impazzito quando un giorno lo trovammo vestito da donna dentro al frigorifero di casa: urlava come un forsennato ed aveva tutto il corpo martoriato dai blocchi di ghiaccio che si staccavano dalle pareti del frigo. Quando, giorni dopo, lo portammo a farsi fare un controllo, ricordo che il nostro medico, il dottor Fabbri, rimase terrorizzato nel vederlo. Non che nell'aspetto di mio padre ci fosse qualcosa di particolarmente impressionante, anzi direi che si trovava in un momento di discreta lucidità mentale e buone condizioni fisiche, ma ricordo benissimo la faccia compassata del dottore stravolgersi dall'orrore, i suoi occhietti piccoli, coperti dalle spesse lenti degli occhiali, dilatarsi in maniera anormale, le pupille allargarsi fino quasi a coprire tutta la superficie del bulbo e la barba folta drizzarsi alle estremità; fu uno spettacolo orribile, reso ancora più tremendo dal fatto che non riuscivo a capire cosa generasse una tale reazione di orrore.
La condizione mentale di mio padre, negli ultimi tempi, aveva inficiato del tutto ogni suo giudizio, anche quei pochi decisamente sensati che ancora raramente esprimeva. Fra tutti ricordo in particolar modo quello riguardante Giovanna, la mia amata "ragazza", se così possiamo definirla. Una volta la portai a casa per presentarla a mia madre, la quale mi aveva ripetutamente assicurato che papà non avrebbe dato nessun fastidio, anzi non si sarebbe nemmeno fatto vedere quel pomeriggio. Ricordo dunque che quella ricca oloturia di Giovanna, come è suo uso e costume, stava discutendo con mia madre su argomenti di nessuna utilità, quando all'improvviso apparve papà, avvolto in una elegante giacca da camera. La sua figura era austera, molto severa ; scrutava quella disgrazia di Giovanna con occhi critici e acuti, illuminati dallo sguardo penetrante di chi ha tutti i requisiti per guardar la gente dall'alto in basso. Ricordo lo stupito silenzio che accompagnava i passi gravi di mio padre che, nella surreale immobilità di quell'istante, avanzava zitto e lento verso Giovanna al centro del salotto di casa, con i modi e l'espressione di chi si accinge a pontificare su qualche grossa verità. Giuntole davanti, papà, con un sorrisetto sdegnato e beffardo che, in tutta onestà, era l'icona della lucidità mentale, le disse due semplici parole: "Sei orrenda". Poi, mentre Giovanna si guardava allibita attorno in cerca di qualche sostegno fisico e morale, mio padre si volse verso di me e continuò insensibilmente: "Certo che te lo sei scelto con cura questo bijou! Ma cosa diavolo ci trovi di accettabile in questa cosa qui?!"
"Ma papà, è ricca!" ribattei con istintiva ingenuità, giustificandomi per quelle accuse che anche io in verità riconoscevo più che fondate. Me ne pentii subito.
Ricordo dunque la reazione violentissima di mia madre che cominciò a spingere brutalmente mio padre dentro la camera da letto, dove lo sistemò e lo rinchiuse con la chiave. Inutili tutte le giustificazioni e i vari "devi capirlo, è un povero pazzo!"; quel pomeriggio, grazie alla sincerità di mio padre e alla mia dabbenaggine, erano state gettate le basi di un duraturo rapporto di ipocrisia fra me e Giovanna, che, di lì a poco, sarebbe stato santificato dal sacramento del matrimonio.
Ad un tratto smise di scrivere; ciò che aveva raccontato era totalmente falso. Da un po' di tempo Ics Ipsilon aveva preso l'abitudine di figurarsi mondi del tutto immaginari, completamente inventati, nei quali le cose andavano bene o male come voleva lui. Ics Ipsilon non aveva mai fatto nulla di veramente clamoroso in vita sua. Era giornalista professionista, scriveva articoli di commento politico sull'organo di stampa del partito al quale era iscritto da più di dieci anni e grazie al quale si guadagnava da vivere.
Sebbene fosse sempre stato eterosessuale, la più importante storia d'amore della sua vita Ics l'aveva vissuta, o meglio, l'aveva subita qualche anno prima, ed era stata una relazione omosessuale con un filosofo francese. Ics era stato adocchiato da questo pensatore transalpino di cui aveva sempre ignorato il nome ad una festa in casa di amici. Per tutta la serata il francese non gli aveva mai levato gli occhi di dosso, nemmeno quando mangiava, nemmeno quando parlava con gli altri ospiti, nemmeno quando era girato di spalle. Poiché - fra le altre cose - l'aspetto fisico di quest'uomo era decisamente orrendo (magro, pelato, con un lungo pizzo bianco e nero sotto il mento, gli occhi perennemente cerchiati ed i denti tutti marci) Ics era rimasto comprensibilmente non poco spaventato dall'insistenza con cui questo personaggio aveva preso ad osservarlo, e aveva deciso dunque di andare via prima degli altri. Sfacciatamente il francese lo seguì fino al suo condominio, sulle scale, fin sul suo pianerottolo, fin dentro casa sua e, approfittando del terrore che impediva ad Ics di reagire, fece subito di lui il suo amante. Ad onta delle mute speranze di Ics, l'incontro amoroso di quella sera non fu un caso a sé stante; anzi, il francese decise di instaurare una lunga reazione con il povero Ics Ipsilon e per sugellare questo "fidanzamento" decise anche di trasferirsi a casa del suo amante. Ad Ics, che non aveva avuto la forza di respingere fermamente l'espansivo filosofo dal primo momento in cui si era permesso di entrargli in casa, mancò la forza di frenarlo nei suoi propositi successivi e così si ritrovò schiavo di questo mostro, impossibilitato ad instaurare un rapporto con una qualunque altra donna e per giunta prigioniero in casa sua, della quale il suo "amante" ed i suoi quattro cani avevano preso pienamente possesso. Tanto puzzolente era il francese quanto infedele: egli infatti tradiva regolarmente Ics con tutti coloro che gli capitavano a tiro e poi andava a confessarsi con Ics, e faceva tanti discorsi e giri di parole così convincenti che riusciva sempre a farsi consolare e farsi chiedere addirittura scusa! Sebbene odiasse quel francese, Ics Ipsilon non era mai riuscito, anzi, non aveva mai nemmeno tentato di ribellarsi a lui, ma quando, al culmine di un furioso litigio scatenato e alimentato dal filosofo, il suo oppressore decise che la loro storia d'amore era finita ed era ora di tornarsene in Francia il suo sollievo fu grandissimo.
Il giorno della partenza, al fine di dissimulare per l'ultima volta la sua gioia, Ics finse di essere addolorato di questo addio ma, nello sperticarsi in pianti e suppliche esagerò decisamente, finché il filosofo francese non decise di mettere punto alla questione rivolgendogli, con aria di altezzosa, sdegnata superiorità, un terribile: "non hai nessuna dignità".
Quando il treno partì, Ics, sdraiato per terra, pianse per il vuoto di cui era pieno, e perché quell'orrendo mostro gli aveva tolto anche l'ultimo ostinato residuo di autostima. Quel giorno Ics fu portato a casa in ambulanza.
Quintultimo giorno
Venne un momento, allora, in cui gli orologi italiani segnarono le otto e un quarto del mattino del quintultimo giorno di Ics Ipsilon. A quell'ora Ics uscì di casa per recarsi al tabacchino di fronte alla sua abitazione e acquistare un pacchetto di sigarette. In verità Ics non era mai stato un gran fumatore: aveva iniziato, come tanti, forse tutti, da ragazzo, nel tentativo di apparire più adulto agli occhi di amici e parenti, e poi il vizio gli era rimasto. Sebbene fosse ormai un veterano del fumo, Ics aveva mantenuto un modus fumandi timido e sciupone, potremmo dire "femminile": lui accendeva la sigaretta con ampi e plateali gesti, tirava su qualche boccata tossica e gettava lo stelo di tabacco quando era consumato per metà appena. In Ics questo modo di fumare era probabilmente indice del fatto che il consumo di sigarette fosse per lui un qualcosa di automatico dal quale non scaturiva alcun piacere, una dipendenza dovuta della quale Ics Ipsilon non aveva mai fatto nulla per liberarsi e che anzi, probabilmente, conservava gelosamente: pareva infatti che lo scopo originario per cui aveva iniziato a fumare era rimasto, a livello più o meno inconscio, alla base di questa pratica; forse Ics continuava a comportarsi come se dovesse dimostrare, attraverso il fumo, qualcosa a qualcuno.
"Buongiorno dottore!" gli disse Giacomo, il tabaccaio, non appena lo vide entrare.
"Buongiorno Giacomo. Mi dà un pacchetto di sigarette?" chiese Ics.
"Le solite?"
"Si, grazie". Ics prese una schedina del Totocalcio dalla vaschetta di vetro sul bancone e cominciò velocemente a compilarla. Arrivato a Juventus-Bologna, Giacomo il tabaccaio gli disse:
"Forse lei non lo sa, ma le iene cantano, parlano e sanno far pure di conto."
Stupito di una affermazione tanto stravagante, Ics alzò la testa verso il volto immobile e beffardo del tabaccaio e, guardandolo con l'occhio indeciso di chi non sa se l'interlocutore scherza o meno, non rispose nulla.
"Senta, latrina umana - proseguì offensivo Giacomo -, le ho fatto una domanda. Anche se comunemente i cessi non parlano, lei mi ispira fiducia e chissà che non giunga una risposta dal profondo della sua fogna!"
"Io le cretinate come quella che ha detto non le commento neppure."
"Cretinata? E lei cosa ne sa? ribatté prontamente Giacomo. Ha le basi, lei, per smentire quello che ho detto? L'ha mai vista una iena in tutta la sua gloriosa vita?"
"No.." ammise Ics, "almeno non personalmente, comunque non è un buon motivo per parlarmi in questo modo." concluse con tono alterato.
"Si ma lei come fa a dire che le iene non cantano, non parlano e non fanno di conto? Forse gliel'ha detto qualcuno?" incalzava il tabaccaio.
"No, ma non c'è bisogno che qualcuno mi dica una cosa del genere, la so e basta!" disse seccamente, e tornò alla sua schedina.
"Non la sa, se l'è inventata! Rispose Giacomo - Ci sono informazioni che ha acquisito da qualche fonte e altre invece che non sa. Per esempio, anche se lei non ha mai visto di persona un leone sa comunque che quell'animale ruggisce, perché qualcuno gliel'ha riferito. Quando però io le dico che le iene cantano, parlano e fanno anche di conto, nonostante nessuno le abbia mai detto esplicitamente il contrario, è tanto presuntuoso che non mi crede." accusò il tabaccaio con tono arrogante e aggressivo.
"So che l'unico animale in grado di cantare, parlare e far di conto è l'uomo" tagliò corto Ics, ma il tabaccaio "non è vero! - esclamò - i fringuelli cantano, i pappagalli parlano e i trichechi sanno far di conto!"
"I trichechi non sanno contare!!" esclamò allora Ics.
"E lei cosa ne sa? ribatté malignamente Giacomo il tabaccaio. Cosa ne sa lei dei trichechi?"
Ics si rese conto che effettivamente lui dei trichechi sapeva poco o nulla e poiché capiva altrettanto bene che sarebbe stato difficile per lui dimostrare che questi animali non dispongono di una qualche logica matematica per poi provare che le iene non sanno cantare, ballare e far di conto, decise di troncare quella assurda discussione.
"Quant'è?" chiese al tabaccaio porgendogli la schedina compilata a caso.
Giacomo, vedendo che il suo interlocutore si era arreso all'assurdo, si ritrasse lentamente dal bancone al quale era appoggiato e tirò un sospiro arrogante e soddisfatto, mostrando compiacimento per la "vittoria" riportata su un uomo, diversamente da lui, laureato. Ics pagò, prese sigarette e schedina e uscì, ma appena si trovò sull'usciO sentì da dietro che Giacomo lo chiamava e si voltò:
"Little Tony - gli disse il tabaccaio - è pazzo!"
Quando Ics fu di nuovo sulla strada, cominciò però a sentirsi represso e indispettito, convinto di essere stato appena umiliato, nella maniera più sciocca per giunta, ed era quindi voglioso di una "rivincita", ansioso in qualche modo di continuare la discussione supportando la sua tesi con validi argomenti, sebbene al momento non gliene sovvenisse nemmeno uno, ma era allo stesso tempo consapevole che lo spazio a sua disposizione per la
disputatio con Giacomo era esaurito, e tornare ulteriormente sull'argomento non sarebbe stato per lui meno umiliante che aver chiuso la discussione in precedenza.
Ma del resto, pensò poi, non c'era molto da vergognarsi, in quanto aveva dato ragione alle assurdità di Giacomo più per la sua naturale arrendevolezza e perché aveva fretta - mannaggia al tempo!! - che per una reale incapacità - figurarsi, lui è laureato mentre il tabaccaio ha a mala pena la licenza media! figurarsi!
Anzi, quel deficiente, lui e i suoi giochi idioti, deve dirsi fortunato se Ics non ha avuto il tempo - maledetto tempo! - di metterlo a posto come avrebbe meritato da bifolco arrogante tanghero e ignorante quale è!
Assorto dunque in questi furibondi pensieri, Ics giunse davanti alla bancarella del suo pescivendolo di fiducia.
"Bonito!" urlò.
"Dottore buongiorno! - esclamò gioviale Bonito il pescivendolo - oggi c'abbiamo le cozze fresche!"
"Bonito, secondo te esiste il vuoto?" chiese ad alta voce Ics, forse per concedersi una immediata vendetta.
"Che?! Esclamò stupefatto Bonito. Il vuoto? E che vuol dire? Boh!" disse, e tornò al suo lavoro.
"Il vuoto non esiste: non può esistere infatti uno spazio privo di corpi perché lo spazio è di per sé stesso una relazione tra corpi" disse Ics, ripetendo fieramente a memoria una minchiata letta in qualche libro.
"Ma ad esempio - intervenne un distinto signore coi capelli bianchi che stava acquistando in quel momento del pesce - quando un corpo si sposta imprime un movimento all'aria dinanzi a sé, la quale va a prendere il posto prima occupato dal corpo stesso. C'è però un momento in cui l'aria non si è ancora mossa e in quel luogo prima occupato dal corpo non c'è nulla, cioè c'è il vuoto."
Bonito il pescivendolo, del tutto disinteressato alla discussione, continuava indifferente il suo lavoro; Ics invece, sconvolto dall'impertinenza di quell'uomo dai capelli bianchi e dall'aspetto fastidiosamente saggio venuto in difesa di Bonito, prese a tremare dall'ira.
"Chi cazzo ha chiesto il tuo parere?!" sbraitò con la voce alterata non appena si vide contraddetto.
Tutti coloro che in quel momento stavano facendo acquisti presso il pescivendolo si voltarono stupiti.
"Io stavo parlando con quell'ignorante di Bonito, non con te!! TU COSA C'ENTRI, COSA VUOI?!!!" continuò ad urlare Ics Ipsilon, e le sue parole riecheggiarono per tutto il quartiere. Poi, con un rapido movimento, raccolse una cassetta di legno vuota poggiata per terra e la sbatté violentemente sulla bancarella del pesce. Urlava e si agitava come se fosse stato colto da una crisi epilettica: "IO SONO LAUREATO! IO HO UN CULTURA, PORCO ***, NON POSSO PERMETTERVI DI PRENDERMI IN GIRO COSì!!".
Mentre il signore coi capelli bianchi che aveva involontariamente causato quella reazione isterica tentava di calmarlo, Ics si gettò supino sul marciapiede e, urlando insulti all'indirizzo di Bonito, prese a calci la sua bancarella, rompendone un'asse e facendo rovesciare alcune vasche d'acqua e pesci per tutta la strada. Arrivati a quel punto anche Bonito, che vedeva ora la sua bancarella rotta e della merce irreparabilmente perduta, cominciò a interessarsi attivamente a quanto accadeva e prese a urlare improperi ad Ics; questi, ridotto davvero ai minimi termini, continuava ad agitarsi sul marciapiede urlando parole senza senso, con la bocca piena di schiuma bianca come un cane rabbioso, gli occhi sgranati e spiritati privi di ogni barlume di ragione. Ci vollero quattro persone per tenere fermo Ics, il quale non riusciva proprio a calmarsi e anzi si infervorava sempre di più ogni volta che notava un nuovo, fastidioso particolare di quella scena. Quando ad esempio fissò casualmente lo sguardo sul volto allibito di una anziana signora che lo stava osservando, quell'immagine lo fece tanto alterare che con un potente scatto liberò il braccio destro dalla presa di un uomo che lo teneva fermo e con l'arto sciolto da impedimenti tirò prima un violentissimo pugno al signore coi capelli bianchi che, preoccupato, gli stava vicino, e subito dopo tentò disperatamente di afferrare la caviglia della povera vecchietta. Quando questa si fu allontanata, Ics, sentendo un estraneo esclamare a sproposito "ma quell'uomo è completamente pazzo!", ebbe un'altra crisi: subito prese a sbraitare più forte di prima mentre dalla sua bocca zampillarono, come da una fontana, gocce di quella schiuma che in quantità industriale gli copriva la faccia dal naso in giù. Persino in Bonito, a quel punto, l'ira funesta si tramutò in orrore e raccapriccio, sentimenti comuni fra la gente che era presente al delirio di Ics Ipsilon: del resto è tanto brutto vedere un uomo di mezza età vestito elegantemente, con una giacca blu e una cravatta marrone, che si agita e urla come un bambino, o come un uomo morso da dieci tarantole. Fortunatamente per quelle persone impegnate a trattenere la sua furia, Ics, nell'agitarsi scompostamente, batté ben presto la testa per terra e perse i sensi. Fu subito riportato a casa in ambulanza e passò in uno stato di totale incoscienza il resto della mattinata, tutto il pomeriggio e gran parte della sera: nella sua condizione di dormiveglia prolungato fece un sogno, o sarebbe meglio dire che ebbe una visione. Gli apparvero infatti quattro uomini, uno colorato di giallo e di rosso, un altro avvolto in un manto blu con una stella color porpora stampata sul petto, un terzo bardato di giallo, di nero e di rosso e il quarto infine tutto bianco, azzurro e ancora rosso; tutti e quattro gli uomini camminavano tenendosi per mano verso un orizzonte dietro al quale vi era qualcosa che emanava una luce arancione, simile a quella irradiata dal sole nei tramonti d'estate, ma decisamente più intensa. Ics sapeva con certezza (sebbene nessuno glielo avesse detto) che all'origine di quell'intenso flusso di luce c'era la Pietra Nera che da secoli è venerata dagli islamici.
I quattro sacerdoti (Ics aveva la netta sensazione che fossero sacerdoti) si stavano recando a prenderla. A un tratto però comparve da destra un plotone di rabbini che, camminando unito e compatto in direzione della Pietra Nera, in poco tempo sorpassò i quattro sacerdoti. Qualche momento dopo, da sinistra, fece la sua comparsa un gruppo di cavalieri crociati, di quegli stessi che combatterono in terra Santa al seguito di Goffredo di Buglione. Tutti questi, ovvero i quattro cavalieri al centro, i rabbini da destra e i crociati da sinistra, accelerando sempre più la loro andatura, finirono per correre insieme verso la Pietra Nera, in un aggrovigliarsi di armature, tuniche e veli; un'unica folla urlante e animalesca, avvolta in un alto polverone e ricoperta di fango e palta si muoveva ora scoordinata verso l'importantissima meta. A un tratto però Ics vide stagliarsi in cielo un qualcosa che gli sembrò simile ad un mortaretto, una sorta di fuoco d'artificio che, non appena fu sul punto di esplodere, si dileguò improvvisamente, e con lui tutta la visione.
Ics riprese coscienza. Era solo, sdraiato nella camera da letto di casa sua, con la luce spenta e la finestra aperta. Il freddo invernale avvolgeva il corpo intirizzito e tremante di Ics. Da un lampione in strada, attraverso la finestra, proveniva una flebile luce che si proiettava sul tetto disegnando un triangolo chiaro. Ics guardò l'orologio poggiato sul comodino e, constatato che erano da poco passate le ventidue, si riabbottonò la camicia che indossava, si infilò la giacca poggiata ai piedi del letto, calzò le scarpe e, dopo aver preso le chiavi della macchina, si apprestò a fare una escursione in città. Sebbene avesse fatto tutto ciò in maniera abbastanza lenta, Ics si rese conto delle sue azioni solo quando si fu trovato in macchina. Gli sembrava che la sua volontà fosse come pilotata da qualcuno o da qualcosa e che il suo corpo non rispondesse ai comandi della sua mente. Ad ogni modo, visto che ormai era già uscito e visto che in realtà continuava a non controllare le sue azioni, mise in moto l'automobile e partì. Già a quell'ora la strada, fatta eccezione per qualche TIR e due o tre macchine solitarie, era del tutto sgombra; i marciapiedi, viceversa, erano popolati di assurdi personaggi che incuriosirono ben presto Ics, che cominciò dunque a spiarli dall'interno della sua piccola auto. Intravide una vecchietta minuta, col volto innaturalmente bianco come quello di un clown, sul quale era impressa una orrenda smorfia demoniaca. Poco più avanti Ics vide un signore altissimo, avvolto in una tunica nera, che stazionava immobile sul marciapiede. Con lo sguardo perso nel vuoto, una espressione di stupore stampata sul volto e lunghi capelli semoventi, l'uomo, pur trovandosi accanto ad un lampione acceso, non proiettava alcuna ombra sul marciapiede. A un tratto Ics fu fermato da un ragazzo che, sbucando dal nulla, gli si era pericolosamente piazzato dinanzi: il giovane era nero, con gli occhi azzurri e i capelli biondi, e il suo corpo era piuttosto piegato in due che semplicemente ingobbito; l'andatura del tutto deforme e il sorriso ebete e inanimato del suo volto sproporzionato gli conferivano un aspetto estremamente inquietante. Il ragazzo, fermo davanti all'automobile, fissava Ics negli occhi, mentre la sua bocca, allargata in un sorriso molto esteso - per cui è presumibile che stesse sforzando parecchio i muscoli facciali -, metteva bene in mostra la dentatura sporca e quasi interamente corrosa: ogni singolo dente (molti dei quali erano spezzati o addirittura bucati), aveva un colore giallo malato e un contorno di nera sporcizia. Lo sguardo di quell'essere era perfettamente in "armonia" con la faccia: le pupille ristrettissime apparivano nel bianco iniettato di sangue dei bulbi oculari come piccoli, sperduti puntini, talmente ridotti che sembrava dovessero sparire da un momento all'altro in quel mare bianco e rosso. Il ragazzo fissò per qualche minuto Ics Ipsilon, immobile sul sedile della sua macchina, assolutamente incapace di reagire a quella visione oggettivamente insopportabile; poi prese a correre a quattro zampe, con fare decisamente scimmiesco, verso il marciapiede opposto e scomparve ben presto nelle circonvoluzioni metropolitane.
Ics fece ritorno a casa alle 00:52 del suo quartultimo giorno.
Quartultimo giorno
Venne un momento, allora, in cui gli orologi italiani segnarono le sei
del mattino del quartultimo giorno di Ics Ipsilon. La giornata per lui
si preannunciava decisamente densa di impegni: di mattina, come prima
cosa, sarebbe dovuto andare in redazione, dalla quale mancava già da un
giorno, e cercare di scrivere qualche pezzo per il giornale; poi, nel
pomeriggio, c'era l'assemblea bimestrale del partito alla quale
chiaramente non poteva mancare. In serata infine il suo programma
prevedeva il consueto pokerino con gli amici.
Sebbene il giorno prima avesse combinato l'ira di Dio in strada, Ics non
si curava affatto della cosa, soprattutto perché - come si è detto -
non gli rimaneva neanche più un briciolo di orgoglio e autostima: non
sentiva assolutamente la necessità di scusarsi o giustificarsi con
nessuno; l'unica cosa che ebbe l'impulso di fare non appena la sveglia
cominciò a suonare fu quella di alzarsi dal letto, prendere carta e
penna e cominciare a scrivere:
LA MIA VITA
di Ics IpsilonCAPITOLO I - L'infanzia
Il mio paese di origine è Massa d'Albe, in provincia de L'Aquila, ove nacqui casa il 25 Aprile del 1957: a mia madre, che era moglie di un ricco proprietario terriero, si ruppero le acque improvvisamente e così prima del parto non ci fu il tempo materiale di portarla all'ospedale più vicino, quello de L'Aquila. Piuttosto fu chiamato a casa nostra il medico del paese, il dottor Tarquini che, ricordo ancora oggi, era del tutto analfabeta. Non leggeva mai nulla, evitava accuratamente di dover scrivere qualunque cosa che non fosse il suo nome; evitava persino di compilare le ricette mediche e ogni volta che doveva prescrivere una medicina a qualcuno si recava lui stesso dal farmacista insieme al paziente. Le poche volte che, non essendogli possibile per qualche ragione accompagnare i compaesani in farmacia, era obbligato a compilare una ricetta, se la faceva scrivere da don Carlo, il prete del paese. Nonostante ciò, il dottor Tarquini era un bravo medico generico, perfettamente in rado di diagnosticare con precisione i mali della gente e di intervenire su di essi in maniera efficace: poco importa perciò se tale abilità gli derivasse da una qualche dote innata e da una decennale esperienza pratica o da un serio ed attento studio della scienza medica, l'importante insomma era che facesse bene il suo lavoro.
Quando io venni alla luce pesavo poco più di un chilo, tant'è che mio padre per rinforzarmi il più possibile, mi versava in bocca il sangue di una gallina del nostro pollaio che!
Ics posò la penna sulla scrivania per riposare un po' la mano e
rileggere ciò che aveva scritto che, come al solito, non rispondeva
assolutamente a verità.
Ics Ipsilon era nato infatti il 28 Agosto del 1955 a Barcellona Pozzo di
Gotto, in provincia di Messina, da un impiegato di banca e da una
maestra elementare. Durante la sua infanzia di figlio unico, Ics si era
procurato, grazie alla sua fervidissima fantasia, un gran numero di
amici immaginari dalla natura assolutamente incredibile: la sua irreale
comitiva comprendeva il Gafe, un indescrivibile essere etereo legato -
in maniera del tutto inspiegabile - al vago concetto temporale di
"mezzogiorno" che Ics aveva all'epoca, Patrizio, altra
particolare entità percepita come una via di mezzo fra un suono e un
sapore (e badate bene, non un insieme di queste due percezioni
sensoriali ma una vera e propria via di mezzo) e altri personaggi del
tutto inconcepibili come Nullo e Volte.
Ics aveva in seguito frequentato le scuole elementari e medie in quel di
Barcellona Pozzo di Gotto e a Messina il liceo classico, dal quale uscì
con un diploma conseguito col massimo dei voti che allora fece ben
sperare in un brillante futuro universitario.
Disgraziatamente, non appena si iscrisse alla facoltà di Medicina, Ics
cadde in una profonda crisi mistica durante la quale ebbe le prime
spettacolari visioni estatiche della sua vita, esperienze queste che si
ripeterono tanto frequentemente in seguito da perdere gran parte della
loro eccezionalità ma che non passarono certo inosservate da un Ics
Ipsilon allora ventenne. Direi anzi che l'errore più grosso che Ics
commise in quegli anni fu proprio quello di aver fatto scelte affrettate
seguendo le indicazione delle divinità che si mettevano in contatto con
lui, senza curarsi invece dell'opinione giustamente negativa dei suoi
genitori: nel giro di pochissimo tempo lasciò dunque la facoltà di
Medicina su consiglio di Dio e si iscrisse a Giurisprudenza per volere
del Brįhman, per poi abbandonare nuovamente questa facoltà, dando
ascolto a Thor ed iscriversi a Lettere classiche perché glielo aveva
detto Allah. A 32 anni, dopo una lunghissima serie di ulteriori
ripensamenti e cambi di facoltà, Ics si laureò in Scienze politiche.
Per fortuna in quegli anni aveva avuto l'accortezza di dedicare molto
tempo al suo partito, sul cui giornale infatti cominciò a scrivere non
appena terminati gli studi e quello rimase il suo lavoro fisso fino alla
sua morte.
Fattesi le sei e trenta, Ics strappò il foglio su cui aveva appena
scritto e andò a farsi una doccia prima di uscire di casa. In redazione
la mattinata trascorse rapida. Appena concluse il suo lavoro lì, Ics
passò in rosticceria e comprò un pollo arrosto con patatine fritte da
consumare a casa come pranzo. Dopo il pasto, verso le tre del
pomeriggio, Ics andò a schiacciare un pisolino prima di uscire di nuovo
per recarsi all'assemblea del partito.
Dormì per circa due ore. Quando si svegliò era totalmente stravolto,
disorientato e smarrito, stava male interiormente ed esteriormente: un
grandissimo terrore ingiustificato si era del tutto impossessato di lui
e la sua pressione sanguigna si era stabilizzata su livelli da
infartuando. Si alzò dal letto barcollando, con le tempie pulsanti,
madido di sudore. Si appoggiò ad una parete della sua camera da letto
per evitare di cadere a terra e gli ci vollero diversi minuti prima di
riuscire a tenersi in equilibrio da solo. Nel panico più totale mosse
qualche passo verso il cesso.
Ics si trovava sempre in queste condizioni ogni volta che sognava
Satana. Quelle poche volte che gli appariva Satana, in veglia o in
sonno, si rivelavano infatti sempre troppo sconvolgenti e lo
traumatizzavano tanto da cambiarlo un po' ogni volta, dentro e fuori. Ciò
è abbastanza comprensibile dal momento che l'aspetto di Satana, almeno
a giudicare da ciò che appariva ad Ics, è terrificante proprio come
viene descritto sulla terra, fin nei minimi particolari: pensate
addirittura che sul suo petto ha impressi una falce ed un martello
incrociati, testimonianza questa che la Chiesa ha sempre avuto ragione -
il Diavolo è comunista.
Mentre dunque Ics barcollava incerto verso il gabinetto, il telefono
della sua stanza prese a squillare. Ci volle parecchio prima che Ics
riuscisse a raggiungerlo: alzò la cornetta e "Pronto?" disse.
Non appena si sentì rispondere da una voce orrendamente cavernosa
"Sono Satana!", Ics prese a urlare, urlò selvaggiamente e con
una repentina contrazione muscolare alzò la testa dal cuscino mentre
ancora urlava. Erano le cinque del pomeriggio e aveva dormito per ben
due ore. Aveva fatto anche uno strano sogno nel quale! beh, non
importa.
Dopo essersi lavato la faccia, Ics indossò i pantaloni sopra quelli del
pigiama e, senza togliersi la parte di sopra dello stesso, indossò la
camicia, la giacca ed una cravatta presa a caso dal cassetto.
L'assemblea sarebbe iniziata alle diciassette e quarantacinque nella
sala del congressi della sede del partito. Ics, come al solito, arrivò
con un quarto d'ora di anticipo e prese subito posto nella seconda fila
di sedie dinanzi al podio. La vasta parete dietro ad esso era occupata
da un immenso telone monocromatico sul quale campeggiava il colossale
stemma del partito, imponente e un po' minaccioso. Dopo qualche minuto,
dall'indistinto flusso di gente che entrava in sala si tirò fuori una
meravigliosa donna che andò a sedersi proprio accanto ad Ics. La
giovane signora aveva i capelli lunghi e castani che le si arricciavano
morbidi sulle spalle ed un bellissimo vestito rosso la cui scollatura
faceva intravedere un seno giunonico, perfettamente in armonia con le
curve spettacolari del suo corpo snello e slanciato. La sua bellezza
indescrivibile, accompagnata ad un delicatissimo profumo che emanava
sensualmente il suo meraviglioso corpo faceva dunque di questa donna
quanto di più bello Ics avesse mai visto fra gli umani, e il fatto che
essa di fosse seduta proprio accanto a lui lo faceva avvampare di una
emozione profondissima che mai aveva provato in tutta la sua vita.
"È libero questo posto?" chiese la signora.
"Si, sieda." rispose emozionato Ics.
"Lei è nuovo nel partito? Non l'ho mai vista qui!" indagò
interessata la signora.
"Beh, lei da quanto tempo è iscritta?"
"Da diversi mesi." ammise lei.
"Io, pensi un po', da più di dieci anni." disse sorridendo
Ics.
"Oh, mi scusi allora! Io comunque mi chiamo Franca" e gli
porse entusiasta la mano.
"Piacere di conoscerla, rispose Ics baciandogliela, io mi chiamo
Alan Zichittella, sono uno storico revisionista, senza falsa modestia,
di fama mondiale." cominciò a vantarsi, inventando tutto con
invidiabile scioltezza.
"Storico! revisionista? Chiese un po' stupita Franca - e di fama
mondiale! Perdoni l'ignoranza, ma in cosa consiste il suo lavoro?"
"In pratica - cominciò a dire Ics Ipsilon, o Alan Zichittella che
dir si voglia - io cerco di raccontare alcuni fatti storici in maniera
diversa da quella comune, in modo da vedere sotto un altro punto di
vista anche le loro conseguenze sul presente."
"Potrebbe farmi qualche esempio?" chiese allora la donna
mostrando vivo interesse.
Ics, che in verità non aveva pensato all'eventualità di formulare un
esempio esplicativo, cominciò ad elaborare estemporaneamente una teoria
storica revisionistica e, come spesso accade in questi casi, finì con
lo sparare un grosso mucchio di cazzate.
"Beh, è facile farle un esempio, disse per dissimulare l'imbarazzo
ed ostentare sicurezza: sa lei meglio di me che Carlo Magno era figlio
di Pipino il Breve. Se noi, per assurdo, riuscissimo a dimostrare però
che quest'ultimo non solo non era il padre di Carlo Magno, ma che
addirittura era il figlio, è chiaro ed evidente che tutto cambierebbe!
Vedremmo infatti che fra i figli di Carlo c'era anche il figlio di suo
nonno, il quale sarebbe nel contempo nonno dei figli di Carlo e fratello
LEGITTIMO dei suoi stessi nipoti! Non crede che tutto ciò
rivoluzionerebbe del tutto l'attuale concezione della storia?"
Le gustose risate di Franca furono in parte coperte dall'inno del
partito: l'assemblea era appena cominciata.
"Little Tony - concluse Ics, sottovoce -, non è pazzo!"
Attorno al podio c'erano già tutti i dirigenti ed il segretario ed il
presidente del partito, salutati con un caloroso e lungo applauso dalla
platea. Quando, dopo qualche minuto, l'inno ufficiale cominciò a
scemare, il segretario si avvicinò rapidamente al microfono e con aria
grave e un po' emozionata decretò l'inizio dell'assemblea.
Subito allora calarono le luci in sala e dagli altoparlanti dislocati in
diversi punti della stessa partirono le magiche note dell'imperitura "Hot
Stuff" cantata da Donna Summer. Tutti si alzarono in piedi. I
dirigenti del partito diedero l'esempio cominciando a ballare per
riscaldarsi in attesa del travolgente ritornello, e quando giunse il
mitico
"Lookin' for some HOT STUFF baby this evenin' / I need some HOT STUFF baby tonight"
si strapparono via le loro facce umane e mostrarono i loro veri volti:
erano verdi e avevano tre occhi bovini ed una sola narice pulsante al
posto del naso; la loro fisionomia, decisamente inumana, faceva
trasparire dei sentimenti che, sebbene fossero evidentemente di natura
differente rispetto a quella degli uomini, dovevano avvicinarsi
parecchio alla nostra ira. Nessuno in sala sembrò impressionarsi
minimamente, e anzi tutti cominciarono a ballare allegramente, felici di
avere dei dirigenti così allegri e spiritosi da mettere una bella
canzone all'assemblea del partito: se fossero o meno originari del
pianeta Terra non importava proprio a nessuno.
Neanche quando il segretario prese dalla tasca della giacca uno strano
strumento, simile alle tipiche pistole laser degli alieni dei fumetti, e
dal podio cominciò con lo strumento, che emetteva potenti flussi di
luce viola in grado di disinterare la materia su cui andavano a
infrangersi, a fare tiro al bersaglio con le persone danzanti queste
ultime si lamentarono o smisero di ballare. A un tratto la musica fu
abbassata un po'. Uno dei dirigenti extraterrestri prese il microfono e
con voce metallica e disumana disse: "Presto conquisteremo il
mondo, schiavizzeremo gli uomini, stermineremo le donne e mangeremo i
bambini!"; subito dopo il volume della musica fu nuovamente alzato
e dalla gente in sala partì un'ovazione.
Ics, che tutto si sarebbe aspettato da quella serata meno che quello che
in realtà stava accadendo, fu tra i pochissimi che sensatamente tentò
di guadagnare l'uscita, per raggiungere la quale dovette farsi largo tra
una folla di persone deliranti, urlanti e danzanti, e di certo non fu
questa un'operazione semplice.
Non appena fu di nuovo all'aria aperta, ancora intontito e meravigliato
per ciò che aveva appena visto, Ics si voltò verso l'edificio dal
quale era appena, faticosamente scappato e vide che su di esso risiedeva
comodamente un gigantesco polipo vivo, circondato da decine di velivoli
discoidi che roteando vorticosamente su se stessi si tenevano in aria.
Un gigantesco cartello che campeggiava sulla testa del polipo, recitava:
"All'Ektoros androfònoio Trosì kelèuontos periàgniutai, màke
niknòntes Akaiùs. CULTURA È POTERE - CULTURA È LIBERTÀ" Poi
Ics abbassò lo sguardo e vide la bella Franca che, a quanto pareva,
aveva mantenuto come lui la lucidità necessaria per poter uscire dalla
sala. Franca, dal canto suo, non fece caso alla presenza di Ics,
probabilmente perché ancora parecchio stordita dal trambusto dal quale
era scappata, o forse fece semplicemente finta di non essersi accorta di
lui. Fatto sta che senza guardarlo né salutarlo si diresse rapidamente
verso la sua automobile. Ics avrebbe voluto chiamarla, parlarle, darle
un appuntamento per potersi rivedere da qualche altra parte, in qualche
altro momento, ma pensava che se le si fosse avvicinato e le avesse
toccato una spalla, o se addirittura l'avesse chiamata ad alta voce,
sicuramente lei avrebbe scambiato il suo per un atteggiamento
interessato, si sarebbe immaginata chissà quale passione di Ics nei
suoi confronti e sicuramente il loro rapporto sarebbe stato compromesso
ancor prima di nascere.
Anche se a noi appare chiaro che chiamare una persona ad alta voce o
avvicinarsi ad essa e battergli un dito sulla spalla siano azioni che
difficilmente possono essere scambiate per segni di eccessivo
interessamento o espressioni di chissà quale passione amorosa, dobbiamo
pur considerare che ad Ics, per sua formazione morale e per sua
esperienza personale, in quel preciso, convulso momento e nella
particolarissima condizione fisica e mentale in cui si trovava, sembrò
che azioni simili potessero apparire sconvenienti: probabilmente insomma
in un'altra circostanza non avrebbe esitato a chiamare la Franca con uno
dei due modi sopra descritti, ma in quel momento non gli sembrò proprio
il caso.
Sebbene dunque stesse logicamente dicendosi che avrebbe dovuto tenere un
comportamento distaccato e disinvolto nel rivolgere la parola a Franca,
rendendosi conto che essa, sicuramente terrorizzata da quanto stava
ancora accadendo dentro la sede, stava ormai correndo verso la macchina
e che quindi il tempo per decidere era sempre meno, quasi senza volerlo
raccolse un sasso da terra e lo tirò sulla nuca alla donna vestita di
rosso. Franca cadde a terra tramortita. Ics le si avvicinò per
soccorrerla.
"Che! che è stato?" chiese lei prima di perdere i sensi.
"Gli UFI! Gli UFI! Rispose Ics. Sono stati gli UFI MANNARI!!".
Ics la prese dalle ascelle e la trascinò fino alla sua automobile per
portarla - con la valida scusa di doverla soccorrere - a casa sua.
Quando Franca si svegliò, si trovava in una camera da letto a lei
sconosciuta e ciò la disorientò alquanto. Ics Ipsilon era seduto al
suo capezzale e con il telefono in mano cercava fra i suoi amici del
partiti spiegazioni su quanto era accaduto poche ore prima
all'assemblea. Ad un tratto Franca chiese: "Dove sono? Poi, vedendo
Ics, oh - disse - lei è lo storico revisionista, il signor! come ha
detto di chiamarsi?"
"Sanguineti, Massimo Sanguineti. Qualcuno nella confusione deve
averla colpita alla testa con qualche oggetto contundente, forse per
rubarle la borsa! Io l'ho vista svenuta per terra e ho pensato di
portarla a casa mia in attesa che si riprenda!"
"E perché mi ha legata al letto?" chiese indicando con la
testa le pesanti catene che le assicuravano mani e piedi.
"L'ho fatto per evitare che fuggisse non appena le avessi mostrato
questo!" e tirò fuori da sotto la camicia la testa mozza del
padre di Franca.
Lei prese a urlare disperatamente, fino a quando non si fu svegliata.
Si trovava in una camera da letto, ovviamente diversa da quella che
aveva sognato, Ics Ipsilon era seduto al suo capezzale con il telefono
in mano. Non le capitava mai di fare degli incubi, ed evidentemente
quello dal quale si svegliava era stato causato dal trauma che aveva
subito all'assemblea.
"Signorina, sono Alan Zichittela - spiegò Ics Ipsilon appena si
accorse del suo risveglio-, lei si trova a casa mia. Qualche vigliacco
l'ha colpita all'uscita della sede, forse per rubarle la borsa, e allora
vedendola stesa per terra ho pensato di portarla qui!"
"Ha fatto benissimo signor Zichittela, ora però sto molto meglio,
grazie" disse frettolosamente Franca mentre si alzava dal letto.
"Non voglio darle ancora disturbo, è stato davvero gentilissimo e
la ringrazio di cuore."
"Signorina non si sforzi, forse dovrebbe riposare ancora un
po'!"
"No no no, non ce n'è bisogno, grazie mille! Io ora vado perché a
casa ho tantissimi impegni, la ringrazio per quanto ha fatto
finora."
"Io le avevo cucinato qualcosa qui, vede!"
Franca guardò la tavola apparecchiata che le indicava Ics e poi
"Oh - disse - io resterei ma le giuro ho tantissimi impegni, mi
dispiace tanto!"
"Ho disdetto il poker con gli amici!" aggiunse rapidamente
Ics.
"Non posso restare, davvero! rimarrei ma non posso!"
"La prego!"
"Guardi! disse lei dopo un attimo di esitazione - oggi non sto
bene, sono agitata e non posso davvero rimanere, però le lascio il mio
numero di telefono e facciamo per un'altra volta, ok?"
Ics scrisse su un foglio di carta il numero di telefono dettato dalla
donna e poi la accompagnò fino alla porta. Non appena fu nuovamente
solo, prese il telefono.
"Marco, come non detto, telefona agli altri: giochiamo stasera a
casa mia."
Il poker era un gioco a cui Ics giocava spesso con i suoi amici, ma ben
si comprende lo spirito delle sue partite se si considera che in verità
egli non aveva nessun amico: le persone con cui giocava erano pensate da
Ics con il termine di "amici" solo perché quando si gioca, si
gioca con gli "amici", non certo con un "branco di
bastardi" quale era in realtà il gruppo dei suoi compagni di
poker. Nello specifico il gruppo di "amici" era formato da tre
elementi fissi : Marco, Gianfranco e Giulio.
Non credo serva che io descriva accuratamente questi tre baldi signori
per farvi capire quali pendagli da forca essi fossero. Dilungarmi a
raccontarvi delle nefandezze e della doppia personalità di Marco, della
cattiveria con cui Gianfranco trattava Ics sin dall'infanzia e della
perversione estrema di Giulio non servirebbe a far capire quanto
bastardi fossero più della semplice frase "quei tre erano il
peggio". Se si considera infatti che Giulio, Marco e Gianfranco
erano quanto di peggio sia possibile essere sotto il punto di vista
morale, sicuramente si comprendono appieno questi tre individui. La sera
dunque del quartultimo giorno di Ics Ipsilon, alle ore ventidue circa,
si presentarono tutti e tre a casa sua.
"Prego, accomodatevi, ho già preparato il tavolo." gli disse
subito Ics. Pochi minuti dopo, quando tutti furono seduti al tavolo
verde, alzarono vicendevolmente il mazzo delle carte per decidere chi
fra i quattro dovesse fare le carte per primo. Giulio prese un dieci di
picche che risultò essere la carta dal valore più alto fra quelle
pescate, quindi prese il mazzo in mano e cominciò a mescolarlo.
Mentre stava distribuendo le carte "ho scoperto - disse - di avere
forti tendenze necrofile." Gli altri tre seduti al tavolo
guardarono Giulio come se fosse impazzito, in particolar modo Marco,
che, pur essendo un vero genio del male, aveva sempre ostentato un
utra-moralismo cartonato di stampo pseudo-cattolico. Vedendo la reazione
degli altri, Giulio aggiunse: "Sapete, sono un po' contento di ciò.
Non proprio felicissimo, ma un po' di contentezza ce l'ho! Del resto -
concluse - come dice il proverbio? Mal costume, mezzo gaudio!".
Tutti quanti scoppiarono a ridere.
"Tirai il discorso sulla necrofilia, e ci ficcai così la
barzelletta che avevo raccolto dal mio avvocato, e mi era piaciuta
tanto, quando me l'avevano spiegata bene, che non manco di farla cascare
nel discorso ogniqualvolta mi trovo a giocare a poker!" spiegò poi
verghianamente Giulio, e tutti si tenevano la pancia dal ridere, ché il
proverbio dice: "Né poker senza riso, né briscola senza
pianto".
I quattro presero le carte in mano. Tutti quanti le aprirono a ventaglio
senza attendere un istante, da veri giocatori professionisti. Ics invece
cominciò a scoprire le sue carte con molta lentezza perché gli piaceva
vivere un attimo di suspance prima di sapere quale combinazione si
trovasse in mano. Quando ebbe finito, Ics si accorse di non avere
nessuna combinazione, nemmeno una coppia di cinque. Aprì il gioco
Gianfranco, che aveva una coppia di re. Marco passò subito, Giulio ed
Ics invece giocarono. Ics cambiò quattro carte. Gianfranco tre. Giulio
una soltanto. "Ci sono due donne - disse Gianfranco - sul tetto di
un grattacielo. Una si butta, cade e si ammazza, l'altra si butta e
atterra dolcemente al suolo. Perché?". Nessuno stava ad
ascoltarlo. "Perché la seconda aveva l'assorbente con le ali.
Ahahah!"
Dopo i cambi, Ics si ritrovò con una coppia di donne (cosa che nella
sua vita non aveva mai avuto), Gianfranco rimase coi suoi due re e la
situazione di Giulio rimase anch'essa invariata. Ics partì con un
rilancio: "Diecimila!" disse.
Gianfranco mise diecimila nel piatto e aggiunse altre trentamila. Giulio
mise quarantamila e ne aggiunse altre quarantamila.
"Starai sicuramente bluffando, Giù!" disse beffardo Ics
mentre metteva nel piatto fish per il valore di settantamila lire.
"Quindi - disse, con aria di sfida - rilancio di altre
quarantamila."
Gianfranco allora cominciò a guardare il piatto e fu assalito da dubbi
e incertezze sul da farsi. Dopo aver valutato attentamente la
situazione, in base a criteri, ragionamenti e logiche del tutto
personali, si ritirò. Giulio, senza dire una parola, mise sul piatto
fish per un valore di centoquarantamila lire.
"Stai chiaramente bluffando!" disse Ics senza un attimo di
esitazione ed in maniera così oggettivamente sconsiderata che a
nessuno, soggettivamente, non parve sconsiderata. Aggiunse altre
duecentomila e Giulio rispose con altre cinquecentomila. Ics mise nel
piatto quattrocentomila e aggiunse a queste altre cinquecentomila.
"UN MILIONE!" disse ad un certo punto Giulio.
"DUE MILIONI!" rispose Ics, ormai senza più l'ausilio delle
fish.
"Ok, un milione: vedo!" concluse Giulio. Ics, che non aveva
nemmeno una coppia in mano, povero cretino, non avrebbe vinto mai,
qualunque fossero state le carte del suo avversario. Mentre Giulio, con
una misera doppia coppia di jack e otto, vinse tutto il piatto, Ics,
dopo aver giocato una sola mano, si trovò a perdere tre milioni e
duecentoventi mila lire.
"Basta Ics, io me ne vado" disse subito Giulio mentre si
alzava dal tavolo.
"Ma come, te ne vai? Abbiamo appena iniziato!" sbottò
scompostamente Ics.
"No davvero, stasera ho mal di testa non sto per niente
bene!"
"Ma non ho nemmeno il tempo di rifarmi! Non è giusto così!"
"E chi lo dice - obiettò Marco -, lui può ritirarsi quando
vuole"
"Ma come, voi che fate, non volete giocare?" così Ics, sempre
più disperato, cercò di far leva su Marco e Gianfranco.
"Ma guarda, possiamo continuare a giocare in tre, se proprio
insisti!" disse maliziosamente Gianfranco.
"A dire la verità - dichiarò cattivamente Marco - anche io sono
un po' stanco e non mi va troppo di giocare. Andiamo via Gianfranco, per
festeggiare Giulio vorrà certamente offrirci da bere con i soldi di
Ics, vero?"
"Si, hai proprio ragione" rispose Gianfranco, alzandosi.
"Festeggiamo insieme i milioncini di Ics! Ah ah ah! Ics, vuoi
venire pure tu?" chiese poi beffardo.
"Si - aggiunse Giulio - ti offro un bel caffè, a patto però che
tu lo prende amaro!"
"Vedi Giulio - Ics si alzò - io non ho i soldi al momento!"
"Fammi un assegno." ordinò prontamente Giulio.
"No, non ho detto che non ho i contanti, ho detto che non ho i
soldi, al momento."
"Ahi-ahi-ahi!" esclamò Marco, con un filo di gioia nella
voce.
"Non avresti dovuto giocare, allora! Ora mi costringi a fare delle
cose spiacevoli!" minacciò Giulio con inquietante pacatezza.
Mise una mano sul televisore accanto al tavolo.
"Quanto vale questo ventuno pollici?"
"Non vorrai prenderti il televisore!" chiese allibito Ics.
"Senti - ringhiò Giulio - non permetterti di parlarmi con questo
tono, buffone!" e afferrò Ics per il collo. "Io ora ti
ripulisco la casa di tutto ciò che possiedi, anche dei vestiti che
indossi. Quando avrai i soldi che mi devi verrai da me - strinse la
presa - e riscatterai la tua roba. Spero che tu riesca a trovare i miei
soldi entro le sedici di domani, altrimenti vendo tutto e chi si è
visto si è visto. Hai capito, faccia di merda?"
Detto fatto. Tutto ciò che fu possibile trasportare, anche in più
viaggi, fu sequestrato da Giulio; a casa di Ics Ipsilon rimase solo
qualche mobile.
Se mi avessero detto in anticipo che avrei finito i miei giorni rinchiuso nella buia cella di una nave pirata vagabondante per le acque dell'oceano Pacifico, probabilmente non ci avrei creduto. Sebbene in effetti la vita mi abbia riservato sempre tante sorprese, come ebbi modo di osservare quel giorno in cui mi trovai a penzolare nel vuoto appeso per la vita ad una corda la cui estremità era precariamente legata al cornicione dell'ultimo piano di uno dei più alti grattacieli di Buenos Aires, o quell'altra volta in cui scampai miracolosamente ad una setta di intellettuali monarchici satanisti russi, fermamente intenzionata a tributare la mia vita alla loro malvagia divinità e al loro perverso re, non avrei comunque mai creduto di poter essere un giorno protagonista di una avventura come quella che mi ha condotto fin qua.
Tutto cominciò quando, di ritorno da un viaggio di piacere in alcuni
ameni paesini dalle parti di Saigon, mi imbattei in un losco emissario
di una organizzazione segreta, denominata Potere Cosmico, il
quale aveva evidentemente il preciso compito di reclutare me, stimato e
- modestia a parte - pluridecorato agente del SISDE (i servizi segreti
italo-mafiosi) per una losca missione volta al losco raggiungimento di
loschi scopi di carattere spiccatamente golpista. Il losco emissario
della losca associazione segreta (caratteristica questa collegata e
dipendente dalla loschezza stessa dell'associazione) mi attendeva dentro
casa mia, nella quale era penetrato attraverso l'angusta finestrella del
bagno, che aveva opportunamente forzato. Considerato che casa mia si
trova all'undicesimo piano di un alto grattacielo romano, una volta
intuita la provenienza di quell'uomo mi resi subito conto di trovarmi
dinanzi ad una persona capace di equilibrismi e contorsionismi non da
nulla; ricollegando queste mie intuizioni all'aspetto losco
dell'individuo (era infatti un tipo bassino, gracilino, vestito con un
doppiopetto blu, con gli occhi coperti da enormi occhiali da sole viola)
capii subito che si trattava di un losco emissario di qualche losca
associazione.
"Chi è lei?!" domandai, non appena entrato in casa, quando lo
vidi seduto sul divano del salotto
"Si calmi signor Rapitalà, sono qui per farle una
proposta!" rispose lui.
"Da quanto tempo è qui?"
"Solo pochi minuti" disse subito, ma in seguito scoprii che
non era vero, perché infatti sul bordo della finestra del bagno, dalla
quale era entrato e che aveva lasciato sbadatamente aperta, si era
formato uno spesso strato di ruggine, segno evidente che quell'uomo si
era introdotto in casa mia con un anticipo di almeno trenta giorni, come
del resto testimoniava anche il suo aspetto stanco e il suo alito,
tipico di colui che da tempo mangia poco e male.
"Se è qui per reclutarmi per qualche losca missione segreta -
dissi subito io - sappia che non sono interessato. Ormai le missioni
speciali, gli inseguimenti in motoscafo per le putride acque di laguna,
le scazzottate aeree con i paracadutisti nazisti travestiti da Vivaldi,
le sparatorie selvagge nelle fabbriche internazionali di fuochi
d'artificio e nelle centrali nucleari per me sono cose d'altri
tempi" risposi io fra lo stupito e il nostalgico.
"Signor Rapitalà, credo che dovrebbe ascoltare quello che ho da
dirle - affermò adirato lui, tirando fuori dalle mutande un revolver
(no, non quel revolver, un altro tipo di revolver, uno
d'acciaio!). La mia associazione, Potere Cosmico, sta progettando il
più grande colpo di stato che mente umana abbia mai osato concepire, un
incredibile golpe contro l'unico potere di diritto rimasto ancora in
piedi, contro il centro, il fulcro, il quartier generale di miliardi di
esseri umani sparsi per tutto il globo terracqueo; i nostri
ambiziosissimi progetti però non possono essere realizzati senza
l'aiuto di prodi agenti speciali come lei, caro il mio Rapitalà."
"Ma di che cosa sta parlando?" chiesi fra lo stupito e il
lusingato.
"Ma come, non capisce? Stiamo organizzando un coup d'etat
contro uno stato piccolo, ma immensamente potente, una monarchia
assoluta (l'unica della quale l'ONU non si lamenta) amata e rispettata
da tutti i potenti del mondo, il centro e il crocevia per ogni grande
trattativa diplomatica, il pulpito dal quale un uomo, secondo alcuni
addirittura il più importante fra gli esseri umani, lancia i suoi
messaggi all'umanità, e tutti lo ascoltano, siano essi suoi seguaci,
siano essi suoi detrattori! Intende di cosa sto parlando?"
"Sinceramente no!" risposi io fra lo stupito e
l'incuriosito.
"Ma come! Il più piccolo stato del mondo, la cui guida politica e
spirituale, mediatore fra Dio e gli uomini, ogni domenica diffonde
discorsi urbi et orbi da duemila anni a questa parte! Uno stato
che lei conosce bene perché si trova all'interno della città di Roma
(e guardi che di stati indipendenti dentro Roma ce n'è solo uno!), la
città-stato più piccola (e più ricca) del mondo. Il centro di questo
stato è una piazza intitolata al primo sommo pontefice della religione
cattolica e una basilica, la più grande del mondo, che porta il nome
della medesima personalità. Le dice nulla?"
"Si, ho capito di che luogo parla, però mi sfugge il nome!
inizia con la effe?"
"No!"
"Con la emme?"
"Neppure!"
"Con la O?"
"NO!! Sto parlando del Vaticano! Città del Vaticano!!"
Quando il losco emissario mi rivelò appieno i loschi piani della sua
organizzazione segreta, il mondo sembrò crollarmi addosso. Non che io
in effetti sia mai stato un cattolico praticante, come del resto
dimostrano alcune mie imprese, come quella volta che fui incaricato
dall'allora capo del SISDE, don Tano Badalamenti, di assassinare quattro
cardinali di Santa Romana Chiesa, due italiani, uno spagnolo ed uno
addirittura cinese, che stavano per consegnare al papa uno scomodo
dossier su una banda armata di briganti che in quel periodo si stava
impossessando di un piccolo stato del centro Africa attraverso
l'efficace metodo della completa spopolazione dello stesso. Dal momento
che l'Italia era di fatto in prima linea nella vendita di armi pesanti e
di sterminio alla spettabile banda di galantuomini, non era interesse
nazionale quello che il papa si attivasse perché cessasse lo sterminio,
e quindi io personalmente mi occupai di far esplodere, all'interno del
colonnato di Piazza San Pietro, la macchina sulla quale viaggiavano i
reverendissimi cardinali, i quali - una volta chiarita la faccenda con
il comprensivissimo Santo Padre - furono prontamente sostituiti senza
che nessuno se ne accorgesse; però adesso mi sarebbe dispiaciuto
partecipare addirittura ad un golpe contro il Vaticano, non tanto per
una questione di coscienza quanto per una questione di denaro.
"Quanto mi date se partecipo?" chiesi infatti.
"La sua vita! - rispose minaccioso l'emissario, puntandomi il
revolver in faccia - e se vuole anche il ministero degli esteri della
giunta militare che instaureremo."
"Accetto!" dissi senza esitazione.
La politica in effetti era sempre stata una mia passione: da bambino compravo ogni giorno molti quotidiani dei quali leggevo sempre la cronaca politica. Un giorno, quando la mia collezione di giornali si era fatta davvero ingombrante, mia madre mi invitò cordialmente a sbarazzarmi di tutti quei vecchi quotidiani ed io, da bravo figliolo, eseguii diligentemente: scaraventai l'intera pila di giornali fuori dalla finestra. Una combinazione direi curiosa di avvenimenti fece in modo che la pila di giornali, già innegabilmente pesante di suo, assunse molto più peso essendo stata scagliata dal quinto piano di una palazzina come la mia, e disgraziatamente finì proprio sopra l'automobile di un importantissimo parlamentare democristiano, di cui non rammento il nome ma ricordo soltanto che allora fosse in lizza per il ministero del tesoro. Inutile dire che l'onorevole e la sua scorta morirono sul colpo; la notizia uscì il giorno dopo su tutti i giornali ed io, innocente bambino, mi resi conto che era possibile "interagire" nella vita politica del mio paese, che fino ad allora mi era parsa eterea ed immutabile alla stregua delle vicende romanzesche dei libelli (perlopiù erotici) che leggevo all'epoca.
Non appena il losco emissario di Potere Cosmico apprese della mia
disponibilità a partecipare alla rischiosa impresa, distese i muscoli
facciali in un radioso sorriso che mostrava la sua decadente dentatura;
ripose il revolver nelle mutande e tirò fuori da una valigetta ormai
coperta da un grosso strato di polvere, un fascicolo contenente tutti i
dettagli del piano golpista.
"Ora le spiego il bi e il ba del piano!"
Il bi e il ba del piano
Il losco emissario prese a spiegarmi il piano eversivo: "Deve
sapere, caro il mio Rapitalà, che gli Stati Uniti d'America, nella
massima segretezza, hanno progettato e realizzato all'interno del
minuscolo stato del Vajanistan, una potentissima arma strategica, un
lanciamissili d'altissima precisione in grado di scagliare missili
terra-terra e terra-aria di media e piccola portata, assolutamente
invisibili ad ogni tipo di sistema di rilevamento e anche all'occhio
nudo, da una parte all'altra diametralmente opposta del mondo. È
evidente che se noi vogliamo impossessarci della Città del Vaticano,
trovandosi essa all'interno di una città non poco protetta come Roma,
dobbiamo occuparla con la massima velocità possibile. Se il Santo Padre
e tutti i cardinali e, soprattutto, tutte le guardie svizzere opporranno
resistenza è ovvio che il nostro tentativo fallirà miseramente. Ecco
quindi come ovvieremo a questo sgradevole inconveniente: ci
impossesseremo del lanciamissili intercontinentale, stermineremo a
distanza papa, cardinali e guardie svizzere e solo allora occuperemo
Piazza San Pietro e tutto il Vaticano con la massima velocità e facilità
d'esecuzione.
"La prima, importantissima tappa del nostro criminoso progetto deve
essere quindi quella di impossessarci di questa potentissima arma che si
trova in Vajanistan. Purtroppo però essa è protetta dalle milizie del
colonnello Mammettai, capo di una giunta militare finanziata e
vitalmente appoggiata dagli Stati Uniti affinché faccia appunto da
cane da guardia alla potentissima arma. Il suo compito sarà
quello di recarsi in Vajanistan, rovesciare il regime, impossessarsi
dell'arma e ripulire da lì Città del Vaticano. Dopo che lei avrà
compiuto pienamente il suo dovere, noi, con le nostre addestratissime
milizie, entreremo in funzione e in un batter di ciglia occuperemo il
Vaticano." Dopo aver sentito attentamente la spiegazione del losco
emissario, domandai: "E chi mi assicura che quando sarò tornato
dal Vajanistan voi mi affiderete il ministero degli esteri?"
"Legittima domanda. Laddove la nostra parola d'onore non le dovesse
bastare, e a giudicare dal suo sguardo direi che non le basta, le
affiancheremo a mo' di garanzia il colonnello Del Grande, vice-capo
della nostra associazione e quindi persona più che necessaria alla
sopravvivenza della stessa."
Non essendo io un esperto di geopolitica, anzi, a dire la verità, non essendo io un esperto di nessuna materia in particolare, non appena il losco emissario mi diede un biglietto d'andata e ritorno per il Vajanistan, nonché un particolare telefono satellitare per coordinarmi con l'organizzazione Potere Cosmico una volta impossessatomi del super-lanciamissili, presi da uno scaffale della mia vastissima biblioteca personale il terzultimo volume della mia storica copia della monumentale enciclopedia Sbragarozzi e lo aprii alla voce Vajanistan. Certo, è passato del tempo, ora mi ritrovo in una minuscola cella di una lurida stiva d'una nave pirata, ed è quindi logico che io non ricordi con certezza le esatte parole dell'enciclopedia, però il succo era il seguente:
VAJANISTAN: Regione desolata del sud est asiatico, cosparsa di monti per il 90% della sua estensione, confina con Annaratonistan, Roxystan, Zoguistan e Precalibesthipsichipietriscesicuristan. L'economia si basa sulla coltivazione della barbabietola da sughero, silicio e metanolo, e sull'importazione retribuita di rifiuti solidi urbani e frattaglie bovine infette di BSE. Storia: Lacerato da secoli di ininterrotte guerre civili, divenute a tratti persino individuali (tutti contro tutti), il V. ha trovato la sua unificazione politica solo nel 1986, anno in cui la multinazionale statunitense Deathplant ha impiantato alcune sue industrie nella zona e ha affidato, dopo uno storico consiglio d'amministrazione straordinario, la guida civile e militare del paese al colonnello Mammettai (V.), il quale detiene tuttora il potere. Mammettai, che alcune superstizioni locali vorrebbero sciamano o stregone dai grandi poteri soprannaturali, è il leader maximo del locale partito conservatore e ha sulle spalle la responsabilità di alcune fra le più sanguinose stragi della storia del V. ecc. ecc. ecc.
Evidentemente quindi mi ritrovavo a dover affrontare, con il solo aiuto
di me stesso e, forse, delle poche e male armate cellule partigiane del
partito liberale, il sanguinoso dittatore di un paese a me
sostanzialmente sconosciuto, in condizioni a dir poco proibitive ed in
un arco di tempo quantomai ridotto. Se fosse stato tutto qui, non avrei
avuto motivo di preoccuparmi, data la mia decennale esperienza in
rovesciamenti di regimi assoluti, guerriglia armata, sia nelle selve che
sui monti che sott'acqua, e tecniche di organizzazione di milizie e
commandi armati para-militari; del resto non a caso Potere Cosmico aveva
scelto proprio me per questa rischiosa missione. Purtroppo però le
cose, nella pratica dei fatti, si rivelarono molto ma molto più
complesse di come sarebbero potute apparire in un primo momento, a causa
dell'intervento di forze irrefrenabili e poteri forti di proporzioni
realmente spaventose, la cui concomitanza, pur nella mia pluridecennale
carriera, non mi era mai capitato di affrontare.
Ma torniamo a noi!
Il giorno dopo, già opportunamente provvisto di
biglietto aereo d'andata e ritorno, mi recai all'aeroporto di Roma.
Ricordo che gli aeroporti erano stati sovente, in gioventù, scenari di
incredibili avventure, come quella volta che il SISDE mi incaricò di
recuperare quattro testate nucleari da 28.000 megaton l'una che erano
state rubate dall'Iran dell'ayatollah Khomeini e sagacemente nascoste
dentro gli stomaci degli elefanti di un circo itinerante turco al soldo
dell'Iran. In quell'occasione, quando in effetti mi ritrovai sulle
spalle la non leggerissima responsabilità di salvare il pianeta dalla
minaccia nucleare di quel pazzo fondamentalista, fu il mio proverbiale
senso dell'osservazione ad aiutarmi a risolvere il caso: avevo infatti
notato una particolare predisposizione di quei pachidermi a produrre in
quantità abnormi grandi ammassi di feci presumibilmente radioattive, a
giudicare dalle mosche fosforescenti che vi ronzavano intorno. Non prima
di aver accuratamente riflettuto sugli avvenimenti, giunsi infine alla
conclusione che quella defecazione innaturale era causata
dall'ingombrante presenza delle armi di distruzione che i poveri animali
erano costretti a portare in grembo. Senza pensarci due volte diedi
fiato ai revolver ed ingaggiai con i trafficanti internazionali d'armi,
travestiti da uomini di circo, una feroce sparatoria, che purtroppo fece
le sue vittime. Otto persone, che il destino cinico e baro volle fossero
tutte minorenni, perirono per i proiettili vaganti, ma i malfattori
furono catturati e le armi rubate furono felicemente riconsegnate ai
loro proprietari, alcuni armaioli americani che, finalmente in maniera
regolare, le rivendettero poi all'Iran di Khomeini. E ricordo, sempre a
proposito di Iran, quella volta in cui ebbi a che fare con un commando
di pasdaran omosessuali che! beh, ma torniamo a noi.
Presi il mio aereo tranquillo e fiducioso che la seria compagnia
Alitalia mi avrebbe presto condotto, dopo ovviamente una lunga e molto
articolata ragnatela di scali e contro-scali in varie città del mondo,
a destinazione, ovvero nella ridente cittadina di Utz, capitale del
Vajanistan. Nel posto accanto a me sedeva il sosia perfetto di Uto Ughi,
come ebbi modo di apprendere non appena gli chiesi:
"Mi scusi, lei è Uto Ughi?"
ed ebbi come risposta: "No, ma me lo dicono in molti".
Si trattava, come promessomi dal losco emissario di Potere Cosmico, del
colonnello Del Grande, vice capo dell'associazione per la quale avevo
ormai preso a lavorare.
"Io solo il colonnello Amintore Del Grande, vice-capo
dell'organizzazione Potere Cosmico, che comunque credo che lei ormai
conosca abbastanza bene!"
"Abbastanza. Come già saprà, io sono Mimmo Rapitalà, stimato e -
modestia a parte - pluridecorato agente del SISDE."
"Caro il mio Rapitalà, la missione alla quale siamo chiamati, come
penso abbia già intuito, è di una difficoltà e di una importanza
estrema."
"Certo, colonnello, ma come lei sicuramente saprà già, io ho
affrontato nella mia lunga carriera tantissime missioni e di varia
natura, e nessuna di queste si è mai abbassata sotto un livello
comunque altissimo di rischio."
"Come sicuramente avrà intuito - ribattè Del Grande - noi di
Potere Cosmico non facciamo le cose alla carlona, e prima di scegliere
gli uomini a cui affidare i nostri criminosi progetti, ci documentiamo
molto a fondo, quindi è ovvio che io conosca sufficientemente la sua
biografia ufficiale"
"Vede signor Amintore, io! scusi, posso chiamarla Uto?"
"Ma per cortesia!"
"La prego!"
"E va bene, vada per Uto."
"Vede Uto, la mia biografia ufficiale, in quanto tale, non
comprende tanti, tantissimi episodi della ma attività di agente
segreto, dei quali peraltro non esiste nessuna testimonianza scritta o
orale all'infuori della mia diretta. Io mi considero un artista del
segreto, un vero e proprio virtuoso della missione impossibile. Ad
esempio lei sicuramente non sa che nel 1983 io da solo, con l'aiuto di
un coltellino svizzero, sventai un attentato collettivo che avrebbe
dovuto estinguere - pensi! - in una sola notte tutti gli appartenenti
alla setta dell'Hare Krishna, tra cui anche George Harrison!"
"Incredibile! E come fece?"
"La prego Uto, non tenti la mia vanità, non posso svelarle un
segreto di stato!"
"Ma scusi, che scrupoli si pone se addirittura si sta accingendo a
compiere un golpe in Vaticano?"
"Ma che c'entra! - esclamai un po' adirato - il Vaticano non è
mica la mia patria!"
Sorvolavamo i cieli dell'Europa mentre io e Amintore Del Grande/Uto Ughi
eravamo ancora assorti nella nostra conversazione fra galantuomini; il
nostro velivolo si tuffava dolcemente nella nebulosità delle nuvole,
che intrinsecamente implicano una certa nebulosità, e i volatili, come
è naturale, volavano al di sotto del nostro livello. Ancora una volta
l'uomo, con l'intelligenza e la tecnica, era riuscito a superare gli
altri animali irrazionali e apolitici (solo egli infatti è un animale
politico) persino nelle loro specialità. Scendendo nei mari più
profondamente di qualsiasi pesce, salendo in cielo più in alto di
qualsiasi uccello, correndo in terra più velocemente di qualsiasi altro
animale, l'uomo, nel corso della sua millenaria storia, si è sempre
dimostrato il signore e padrone dell'intero pianeta; solo il fatto di
non aver creato quest'ultimo ha però sempre costituito il suo
persistente limite invalicabile, nonché il suo più grande dubbio.
Queste mie considerazioni non sono affatto gratuite, ma sono anzi tutte
finalizzate a dimostrare come il vegetarianismo sia non solo una cosa
stupida ma anche contronatura, e per giustificare quindi il fatto di
essermi oscenamente ingozzato di carne d'ogni genie durante il pranzo
dell'Alitalia.
Dopo aver consumato il nostro lauto pasto, io ed il colonnello ci
dedicammo all'antichissima disciplina sportiva della gara di peti, nella
quale effettivamente io eccellevo grazie non solo alla mia naturale
predisposizione psico-fisica ma anche grazie al costante ed indefesso
allenamento. Ho sfidato in passato fior fior di campioni internazionali
in questa disciplina, riuscendo, se non a vincere proprio sempre, almeno
ad uscire dalla competizione a testa alta. Una volta, dopo aver battuto
in un estenuante incontro prolungatosi per più di quattro ore - quattro
lunghissime ora di sonori peti alternati - il campione asiatico di
flatulenza, una mia foto apparve sulla copertina di Petologia, la più
importante rivista specializzata d'Italia. Conservo con affetto quella
copertina dentro una elegante cornice finto-ottocentesca appesa nello
studio di casa mia; mi ricorda i bei tempi della mia prima giovinezza.
Dopo essere uscito ovviamente vincitore, mi misi a leggere alcuni
importanti documenti riguardanti usi e costumi del Vajanistan, in modo
da arrivare all'appuntamento con la storia un po' più preparato. Non
appena però mi risvegliai dalla lettura, mi accorsi che la fredda bocca
di un mitragliatore a canne corte era stata minacciosamente puntata alla
mia tempia.
"È finita per te, maledetto anti-mammettaista!" mi fu
ringhiato contro.
"Uto, ma che cosa stai facendo?"
Come la Sfinge
In maniera molto molto evidente si trattava di un tentativo di omicidio.
Quello che io fallacemente avevo creduto essere il mio compagno
colonnello Del Grande, in realtà era, per sua stessa ammissione, un
sosia professionista di Uto Ughi, impiegato alla corte del dittatore
Mammattai e incaricato in questa specifica circostanza di fare fuori me,
l'uomo che a ragione i servizi segreti Vajanistani avevano segnalato
come il pericolo numero uno per il regime. Vi era infatti un aspetto
della vicenda che Potere Cosmico, pur nella sua perversa meticolosità e
puntualità d'organizzazione, aveva trascurato, il fatto cioè che gli
Stati Uniti d'America, nell'interesse di salvaguardare il loro micidiale
lanciamissili intercontinentali, avevano rifornito l'esercito e i
servizi segreti di Mammettai di tutti i più moderni ritrovati della
tecnica e della scienza bellica, al fine di individuare ogni possibile
tipo di attentatore come me. La situazione di diretta minaccia in cui
adesso mi ritrovavo mi ricordava in effetti quella volta che un dottore
pazzo di nome Sylvie aveva catturato una persona a caso presa
dall'elenco degli abbonati del telefono (e il destino cinico e baro
aveva voluto che quella persona fossi io) per sottoporla alla
sperimentazione di un nuovo, rivoluzionario tipo di supposta, la quale
conteneva un potente esplosivo. L'esperimento avrebbe dovuto confermare
o smentire le folli ipotesi del professor Sylvie secondo cui le pareti
interne dello stomaco umano sarebbero perfettamente in grado di
resistere ad una esplosione di piccola e media potenza senza riportare
danni gravi. Quella volta riuscii a cavarmi d'impiccio soltanto grazie
alle mie doti ipnotiche, acquisite grazie agli insegnamenti di Cornoman,
una sorta di santone indiano che aveva rappresentato la mia guida
spirituale durante gli anni della giovinezza.
"Caro Rapitalà, lei ha un cuore ancora troppo tenero per un vero
agente segreto. Dovrebbe imparare da noi dei servizi Vajanistani:
spietati, cinici ed assol!"
Il sosia di Uto Ughi smise di parlare non appena lo fissai dritto negli
occhi con il mio potentissimo sguardo ipnotico; aprì la bocca e un filo
di bava cominciò a colargli dall'angolo destro della stessa, cioè la
bocca. Gli caddero tutti i capelli in un colpo solo e i suoi vestiti di
infradiciarono istantaneamente di litri e litri di sudore, segno
esteriore del rapidissimo scioglimento di quasi tutti i suoi grassi
corporei. Purtroppo però io non ho mai avuto la capacità di praticare
appieno l'ipnosi indiana, tanto che il mio guru, ormai rassegnato alle
mie ridotte capacità d'apprendimento in questo campo, il giorno del suo
compleanno, dopo che io gli dissi: "Auguri guru" mi rispose
prendendomi un po' in giro: "Ahi ahi, Mimmo deve ricordare che
l'ipnosi serve in ogni occasione, soprattutto se qualcuno ci minaccia
con pericolose armi da fuoco e soprattutto se contro di queste non
disponiamo una adeguata protezione meccanica". In effetti le parole
di Cornoman si rivelarono ben più che veritiere in quella circostanza
di cui sto raccontando, e infatti mi tornarono subito alla mente in
tutta la loro profeticità e ricordo che ebbi modo di riflettere sul
fatto che sovente i guru, specie se indiani, possono vedere cose che a
noi comuni mortali sono velate dall'invalicabile barriera della nostra
terrestre dimensione, caratterizzata da un totale oscurantismo praticato
dai vizi del corpo, che come è risaputo è la prigione dell'anima.
Ma comunque sia, sta di fatto che possedendo una conoscenza molto
parziale della tecnica ipnotica, non riuscii ad assoggettare
completamente la volontà del sosia di Uto Ughi, ma soltanto per metà:
in pratica scattò nella mente del mio aggressore un perverso meccanismo
secondo cui egli avrebbe deciso di far salva la mia esistenza soltanto
qualora avessi correttamente risposto ad un suo enigmatico rebus. Da qui
deriva il riferimento mitologico alla celeberrima Sfinge presente nel
titolo del capitolo che state leggendo.
"Mimmo Rapitalà - disse con voce innaturalmente femminile
il sosia di Uto Ughi - orsù rispondi al mio quesito/ oppure ti
ammazzerà/ la Sfinge che si nasconde nei panni di questo pervertito."
"Sfinge dei timori/ non mi farò certo indietro/ dal
momento che di orrori/ ne vidi di peggiori e in scenario ben più
tetro!" risposi per le rime.
Il sosia di Uto Ughi, ovvero la Sfinge mitologica, prese a fluttuare a
due palmi da terra nella maniera in cui si può fluttuare all'interno di
un aereo di linea. A differenza di quanto si potrebbe pensare, gli altri
passeggeri non furono affatto spaventati, ma anzi continuarono le
proprie esistenze all'insegna del più assoluto disinteresse.
Poi, con voce ad dir poco cavernosa, egli/ella disse:
È mafioso e piduista
l'alleato del fascista,
lui straparla contro i rossi
ed è schiavo di un tal Bossi
che non manca, quel suo duro,
di infilarglielo nel culo.Quel che Bossi chiede e chiede
lui, che è schiavo, lo concede
"A pranzo, a cena e a colazione
penso alla devoluzione!
Dammi ciò che più mi pare,
dice Bossi al suo compare,
e se osi ribellarti
basta un niente a rovesciarti!"Fini il fascio, che odia Bossi
proprio quanto e più dei rossi,
dell'Umberto gran padano
prende a calci il deretano!Tocca al nano schiavizzato,
che del fascio è un alleato,
di adoprarsi per calmare
'sti due matti da legare;
ma tranquilla sta la gente
ben plagiata nella mente.Se capito hai in realtà
quella ch' è l'attualità
dimmi orsù, senza esitare:
di chi cazzo sto a parlare?
L'indovinello, in verità, non era dei più semplici, e sebbene il tempo
a mia disposizione fosse oggettivamente poco, la mia sagacia e la mia
profonda ed invidiabilissima conoscenza dell'attualità e della storia
del nostro beneamato paese mi permisero di elaborare mentalmente la
risposta.
"Ah ah! - dissi beffeggiante - forse tu, o sfinge troia,/ ti
credevi che io ignorassi/ quello che, fino alla noia,/
sanno ormai pur'anche i sassi! Ben tu alludi/ a quel cornuto/
che ci ha rotto i coglion nudi/ sin dal giorno in cui è venuto!
Ebben tu sai megl' di me/ che lui è il re dei mascalzoni,/
a casa sua di soldi una barca c'è/ e si tratta di Silvio Berlusconi!"
Lessi molto evidentemente nella faccia della Sfinge, che come abbiamo
ripetutamente detto aveva assunto in questa circostanza le raffinate
fattezze del grande violinista Uto Ughi, l'espressione tipica che assume
chi non si aspetta che avvenga un determinato avvenimento quando ha
finalmente modo di constatare che l'avvenimento in questione è
avvenuto. Nella mente dell'agente segreto dei servizi mammettaisti scattò
quindi il meccanismo di autodistruzione previsto per queste evenienze:
portò la canna del suo mitra dentro la bocca e fece fuoco. In un volare
di frattaglie umane e resti sanguinolenti di materia celebrale sui volti
indifferenti degli altri passeggeri e su tutte le pareti interne e sui
finestrini dell'aeroplano, la situazione divenne nuovamente da critica a
stabile.
Ancora per qualche tempo i più immediati pericoli erano scampati, ma
io, dall'alto della mia esperienza, capivo che i veri perigli, quelli
degni di questa aulica denominazione, che mi avrebbero atteso infidi e,
se mi è concesso il termine, discretamente infingardi, si trovavano
ancora sul mio cammino ed erano relativamente lungi da venire. Eppure,
smentendo anche le mie più pessimistiche previsioni, il destino cinico
e baro aveva apprestato per me prove e pericoli di dimensioni davvero
insostenibili per qualunque altro essere umano (ma non ovviamente per lo
stimato e - modestia a parte - pluridecorato agente del SISDE Mimmo
Rapitalà!)
Primo contatto
Come ho precedentemente e ampiamente detto, i pericoli maggiori
sarebbero giunti a breve, addirittura prima della conclusione del mio già
discretamente avventuroso viaggio per il Vajanistan, paese il cui
raggiungimento costituiva in effetti soltanto la prima tappa della mia
missione. Prima però di soffermarmi su quello che potremmo ben definire
il mio "primo contatto", e presto vi svelerò con chi/cosa,
vorrei brevemente soffermarmi su Betta, un'hostess molto molto bella che
si trovava sull'aereo che stava rapidamente trasportandomi verso lo
scenario della mia rischiosissima missione. Betta non era affatto una
donna normale. Betta era una donna di una bellezza che, pur nella mia
rinomata modestia e parsimonia dialettico descrittiva, non esiterei un
istante a definire divina. Betta aveva una dolcezza ed una disponibilità
nei confronti delle persone con cui si ritrovava ad aver a che fare che,
sebbene sicuramente rientrasse nei suoi compiti professionali di
hostess, lasciava quasi basito chi - come me - era abituato ai rozzi
metodi di gente che con l'amore e la grazia di quella donna non ha
davvero nulla a che vedere. Betta aveva degli occhi azzurri molto
grandi, difficili da fissare, estremamente dolci, di quegli occhi che
non possono essere guardati da una persona che pretenda nello stesso
tempo di parlare e magari dir cose sensate. Betta aveva degli occhi nei
quali era davvero facilissimo perdersi completamente, soprattutto per un
uomo, come me, che - per quanto 'd'azione' possa essere, o semplicemente
definirsi - rimane sempre e comunque sensibile alla bellezza estrema di
quegli squarci di assoluto che la forza superiore ordinatrice del nostro
mondo riserva di tempo in tempo a noi uomini che vaghiamo in questa
valle di lacrime. I capelli lungi, vaporosi, crespi e castani le
contornavano il viso come i candidi veli di purezza contornano il volto
delle madonne dei quadri quattrocenteschi; la fronte spaziosa e il
meraviglioso naso alla francese completavano un volto tanto simile a
quelli delle bellissime donne create dai disegnatori di fumetti
giapponesi. Ma ciò che davvero rendeva possibile innamorarsi di Betta
solo guardando un suo sorriso, o ascoltando anche solo per qualche
secondo la sua voce, era quella dolcezza davvero unica che intrideva
ogni fibra del suo corpo e ogni suo minimo comportamento. A me, che -
come ormai credo di aver ampiamente detto - non sono un fesso, passò
ripetutamente, in quel breve lasso di tempo in cui ebbi modo di
soffermare la mia mente su di lei, il dubbio che questa meravigliosa
glassa di dolcezza fosse frutto di un continuo artificio, di un sapiente
atteggiarsi di lei, volto al raggiungimento strumentale di grazie da
parte degli uomini, ma, dopo una breve riflessione, mi resi conto che in
fondo questo non contava, perché la sua estrema beltà spirituale
bastava a se stessa, qualunque fossero le sue origini (naturali o
artificiali). Scambiai qualche parola con lei, giusto il tempo di
spiegarle come ero riuscito a liberare con l'ipnosi l'aereo da quello
che tutti credevano fosse un attentatore, e perché avevo pregato i
piloti, come ricompensa per la mia impresa, di continuare il viaggio
fino ad Utz, inventando però in questo caso la scusa di importanti
impegni di lavoro. Disgraziatamente però non riuscii nemmeno un secondo
ad esprimere i concetti come in effetti avrei voluto, poiché appena la
guardavo smettevo completamente di essere padrone di me e le mie parole
prendevano quindi una loro via autonoma. Decisi allora, in preda forse
ad uno stato embrionale di innamoramento, di scriverle una lettera.
Presi una salvietta di carta (ancora assolutamente intonsa) e vi scrissi
sopra con una penna biro le parole: "Cara Betta".
Proprio mentre stavo riflettendo su come continuare la mia missiva
amorosa, mi apparve quello che sarebbe stato nel prosieguo uno dei
protagonisti più importanti della mia mirabolante avventura, il Pritz
Nino. "Pritz" è il più alto titolo civile e militare della
società degli Xuittoniani, una razza aliena proveniente dal pianeta di
Xuittone che, come appresi in seguito, è una sorta di capitale (ma
sarebbe più giusto definirlo "epicentro") dell'Impero cosmico
del quale la terra, considerata dai più il centro assoluto nonché
l'unica dimensione dell'esistente, è soltanto una regione. Una delle
regioni principali, ma pur tuttavia una regione. Il Pritz mi si manifestò
sotto le sembianze a me familiari di Bobby Solo, uno dei miei cantanti
preferiti, giusto per venire incontro alle mie capacità mentali, e mi
spiegò in poche ed eloquenti parole come stanno in realtà le cose:
il pianeta terra è uno dei dodici pianeti principali del cosmo. Il
padrone della terra, vale a dire il presidente degli Stati Uniti
d'America, all'insaputa di tutti gli altri governi del mondo, basa la
sua politica, ovvero guida la terra in base agli ordini provenienti dal
governo cosmico centrale di Xuittone. È interesse, oltre che degli
americani, anche degli Xuittoniani che la terra sia sempre più
assoggettata e sempre meglio controllabile da parte degli USA. Ne
consegue con una certa evidenza che il Pritz Nino fosse profondamente
contrario al tentativo di Potere Cosmico di impossessarsi della città
stato del Vaticano, mossa che lui riteneva - forse a ragione -
propedeutica alla conquista del potere assoluto sul mondo intero, ai
danni ovviamente degli USA e dell'Impero. Proprio per questo motivo,
Nino mi esplicitò con la massima franchezza che, pur non potendo
interferire, per ragioni costituzionali cosmiche, in maniera pesante
sulle vicende della terra, si sarebbe adoperato in tutti i modi a lui
leciti per impedire a me e ai miei complici di portare felicemente a
termine il piano criminoso di golpe in Vaticano.
Forse, rivedendo le cose con senno di poi (di cui, è bene ricordarlo,
son piene le fosse), la mia risposta a Nino, considerata la sua grande
potenza, seconda forse soltanto a quella di Dio, peccò di una qual
certa arroganza. Ispirato da ricordo di quella volta in cui risposi al
cardinale vicario del papa che non gli avrei consegnato alcuni
importanti documenti di cui non sto a raccontare "nemmeno se mi
avesse venduto il culo", risposi al Pritz che ce ne sarebbero
voluti dieci, cento, mille di sgorbietti alieni come lui per impedire ad
uno stimato e - modestia a parte - pluridecorato agente del SISDE come
Mimmo Rapitalà di portare a termine la sua missione, e, non contento,
presi ad apostrofarlo con una serie di pernacchie di lunghezza e potenza
progressivamente crescenti, finché il Pritz non mostrò di aver
esaurito la pazienza e mi rivolse un agghiacciante urlo che congelò per
tutta la sua durata ogni mia autonomia psico-fisica. Poi scomparve così
come era apparso, e non appena mi ripresi dallo shock mi resi conto che
nessuno dei passeggeri, oltre a me, aveva visto Nino o sentito il suo
urlo annichilente. Mi ritrovai con la penna in mano (no, non quella
penna! la biro!) ed il pezzo di carta sottomano con su scritto
"Cara Betta". Andai in bagno, mi lavai il viso, poi tornai al
mio posto e scrissi suppergiù così:
"Cara Betta, ti scrivo questa lettera nella totale incertezza della
sua destinazione: non so infatti se, presto o tardi, te la invierò, se
la terrò con me o se piuttosto la distruggerò, per timidezza o per
timore. Pensando infatti che questa pagina possa un giorno trovarsi tra
le tue mani, anche la scrittura prende a vacillare nella sua andatura,
sembra abbandonarmi come la ragione ogniqualvolta vorrei parlarti e,
perdendomi nei tuoi occhi e nei tuoi gesti e nel Sublime stesso, di cui
sei la massima espressione, riesco solo a balbettare parole vuote,
sovrastato da te come Dante al cospetto di Dio, come un bambino davanti
al più bello dei regali di Natale. Vorrei che questo sospiro di carta
mi servisse per superare la timidezza e dirti che davvero sei, fra gli
esseri perfetti, il più perfetto che possa esistere; descriverti tutto
ciò che di meraviglioso, unico e irripetibile io vedo in quello che ti
riguarda, nei tuoi modi sempre gentili, in quei tuoi occhi profondi di
cui non riesco a capire il colore, nella modulazione dolcissima della
tua voce; spiegarti insomma che, oltre ad una bellezza oggettivamente
fuori dal comune, una evidente genialità ed una magica, tenera,
irripetibile dolcezza, tu hai qualcosa di aggiuntivo e realmente unico
al mondo, una dote ulteriore che, distinguendoti appunto da ogni altra
donna, purtroppo trascende nettamente i limiti espressivi delle
parole."
Presi un altro fazzoletto di carta e continuai:
"Del resto, il fatto stesso che tutti gli anni intercorsi dal
giorno della mia nascita all'istante in cui mi hai concesso di parlarti
per la prima volta mi appaiano ora come anni sprecati, grigi attimi di
transizione fra la prima visione della luce del mondo e la prima visione
della luce divina, mi rende ben chiara in mente l'importanza che tu
rivesti per me. Temo in verità che, per svariati motivi (non ultimo il
fatto che abbia sfracellato il cervello di un uomo su tutto l'aereo e mi
sia quindi macchiato ai tuoi occhi non di materia celebrale come molti
altri passeggeri ma di un crimine infame) tu ti sia fatta una idea
abbastanza negativa riguardo a me, oppure, pur essendoti fatta una idea
abbastanza positiva, cerchi di mostrare una cortese freddezza nei miei
confronti; ma non escludo comunque l'ipotesi che invece in questo breve
tempo tu non mi abbia mai nemmeno lontanamente pensato, e che io per te
non esista, non sia mai esistito e non esisterò neanche dopo questa
lettera.
Ad ogni modo, la cosa più importante per me, in questo momento, è
stata comunicarti [la parte più facilmente esprimibile di] ciò che io
provo per te; volevo leggessi, sapessi, capissi, e credo che, se sei
arrivata fin qui, almeno in questo ce l'ho fatta.
A questo punto arrivati, l'ultima cosa che mi resta da dire è anche la
più facile e la più vera, e cioè che io ti amo, anche se, come dice
Guccini, "è difficile spiegare, è difficile capire, se non hai
capito già".
DLIN-DLON. "Si comunica ai signori passeggeri
che fra qualche minuto atterreremo all'aeroporto internazionale (per
modo di dire) di Utz. I signori passeggeri sono pregati di allacciare le
cinture di sicurezza, cosa da fare in ogni atterraggio, ma che in questa
occasione diventa ancor più importante per due motivi: motivo numero
uno, l'aeroporto di Utz si compone di due sole piste dissestate, in
parte ricoperte d'erba, in parte sommerse dall'acqua paludosa e per il
resto perennemente ingombre di vacche, pii bovi ed altri animali
caratteristici. Motivo numero due, una perturbazione atmosferica di non
trascurabile portata sta a dir poco ostacolando le operazioni di
atterraggio, quindi quello che avremmo potuto definire, seppur con una
grossa approssimazione, un atterraggio regolare, è invece da
considerarsi a tutti gli effetti un atterraggio di emergenza, e per
giunta di quelli pericolosi. Nell'augurarsi che Dio ce la mandi buona,
l'Alitalia vi ringrazia di averla scelta, anche se si permette di
consigliarvi di selezionare una meta più tranquilla, qualora dovesse
esserci una prossima volta. Grazie e addio".
Dopo che queste rassicuranti parole furono vomitate nell'aria dal
gracchiante altoparlante dell'aereo, mi ritrovai in una tale e tanta
confusione, fra il ballare sfrenato del velivolo, il vomitare
altrettanto sfrenato di una signora cicciona seduta nel posto davanti al
mio, le urla terrorizzate di un prete pluriottantenne che il Fato,
dimostrando grande senso del ridicolo, aveva voluto lì con me su
quell'aereo, che mi riuscì davvero difficile consegnare la mia lettera
a Betta. Soltanto dopo che i piloti riuscirono nella loro impresa
disperata di far atterrare l'aeroplano senza riportare danni fatali,
riuscii a consegnarle, poco prima di uscire definitivamente
dall'aeroplano, la mia modesta, timida missiva. Lei, non mostrando alcun
segno di stupore, prese in mano quei fogli vergati interamente
d'inchiostro e mi rivolse un sorriso che sembrava ringraziare per
l'ultimo gesto di cortesia colui a cui era costretta a dire addio per
sempre. In quel momento ebbi la sensazione che non l'avrei mai più
rivista, ma mentre ero ancora nella fase di rielaborazione concettuale
delle sensazioni, un uomo dall'aspetto e dai modi decisamente loschi,
facendosi strada con un machete nell'altissima vegetazione selvaggia che
circondava completamente l'aeroporto e che, a dire la verità, si
estendeva a perdita d'occhio, mi si avvicinò con una qual certa
loschezza.
"Lei è Mimmo Rapitalà?"
"Si - risposi io imbambolato ed assente, senza nemmeno un filo
della mia solita diffidenza - si!" ripetei.
"Io sono il colonnello Amintore Del Grande. Ci siamo già
conosciuti."
Queste parole riportarono la mia mente all'importantissima missione alla
quale ero chiamato. Guardai il losco individuo e con mio stupore trovai
la conferma di ciò che in effetti avevo capito dal primo istante in cui
lo intravidi.
"Ma lei - dissi - è il losco emissario!"
"Ebbene si. Sono io il colonnello Del Grande. Non gliel'ho rivelato
subito soltanto perché il mio aspetto, le mie fattezze, la mia
conformazione fisica deve rimanere assolutamente segreta: solo poche
persone al mondo associano alla mia faccia un nome. Quindi, carissimo
Rapitalà, qualora scrivesse un giorno un memoriale di questa sua
impresa, abitudine peraltro tipica degli agenti segreti del SISDE, la
prego di non accennare la benché minima descrizione riguardo alla mia
persona, e di mantenere massimamente segreti tutti i numerosissimi segni
particolari che, qualora venissero assegnati al mio nome,
permetterebbero alle centinaia di miei avversari di rintracciarmi e di
uccidermi in un baleno."
"Non si preoccupi - lo rassicurai io - uno stimato e - modestia a
parte - pluridecorato agente del SISDE come me sa come comportarsi in
casi di questa portata. Ma bando alle ciance, lei stesso mi disse a casa
mia che il colonnello Del Grande, che poi sarebbe lei, mi avrebbe dovuto
ragguagliare ulteriormente sui particolari del piano. Orsù, dite
dite!"
Mentre il colonnello mi spiegava che avremmo dovuto alloggiare per due
soli giorni in un campo segreto di addestramento delle milizie
rivoluzionarie liberali, con le quali Potere Cosmico intratteneva da
tempo rapporti, e che io, dall'alto della mia esperienza, avrei dovuto
addestrare quei già ferocissimi soldati rivoluzionari in tutte le più
raffinate ed efficaci tecniche di rovesciamento di regimi, Del Grande
apriva uno scomodo passaggio nella selva con il suo affilatissimo
machete. Ad un tratto, dall'ombra impenetrabile della vegetazione, saltò
fuori un personaggio ai confini della realtà, un individuo la cui
conformazione fisica oscillava tra il serio e il faceto, una sorta di
aborigeno australiano addobbato come un indiano d'America, armato di una
scimitarra turca-ottomana che muoveva vorticosamente alla maniera dei
samurai orientali. Avevo letto sulla mia irrinunciabile Sbragarozzi
dell'esistenza in queste zone di particolari guerrieri indigeni
depositari degli usi e dei costumi di tutto il mondo, i quali,
nonostante questo loro intrinseco ed innato cosmopolitismo, hanno una
grandissima avversione verso qualunque tipo di corpo estraneo, sia esso
umano o animale, che invada il loro habitat naturale. Un degno
rappresentanti di questa specie decise quindi di aggredirci, e lo fece
spiccando da terra un impressionante salto, che lo portò a svariati
metri da terra.
Mentre quindi l'aborigeno si trovava ancora a mezz'aria e attendeva, con
la scimitarra levata, che la forza di gravità lo conducesse sopra i
nostri fragili corpi, le reazioni nervose del colonnello Del Grande gli
permisero di afferrare, nell'arco di poche frazioni di secondo, il mitra
uzi che portava in una fondina all'altezza della vita e di sventagliare
un intero caricatore sopra il corpo volante del guerriero cosmopolita,
il quale ovviamente ricadde a terra già cadavere. Lo lasciammo riverso
in una pozza di sangue mentre i topi selvatici del Vajanistan,
centoventi volte più voraci dei più voraci topi occidentali, avevano
già cominciato a consumare il loro lauto pasto cadaverico.
Ci infiltravamo sempre più a fondo in un territorio che ormai era sempre più simile alla jungla delle illustrazioni dei libri di Tarzan senza seguire apparentemente un percorso preciso. Io seguivo pedissequamente il colonnello che in silenzio diradava col machete le fitte piante sul nostro cammino, e dava l'idea di sapere dove andava. Dopo quasi due ore di cammino, quando ormai avevo smesso di chiedermi se ci eravamo persi perché la sicurezza d'aver smarrito la via aveva ormai sostituito del tutto il dubbio, all'improvviso ci ritrovammo in una vasta area completamente spianata e sgombra da piante di alcun tipo. Vi erano cinque o sei bungalow, tutti ricoperti di cartucciere per mitragliatrici come fosse paglia. Le varie parti del campo erano delimitate da staccionate formate da kalashnikov piantati per terra; fuori dalle capanne c'erano decine di uomini seminudi, armati anch'essi di cartucciere e pugnali da sub, che facevano esercizi ginnici e urlavano nel contempo slogan anti-conservatori in dialetto napoletano. Tutti i guerriglieri parlavano dialetto napoletano, cosa che in un primo tempo mi stupì, ma che mi parve logica non appena conobbi l'organizzatore del campo di addestramento, il sub-comandante Gennaro, un napoletano di Rifondazione Comunista emigrato in Vajanistan proprio per unirsi alla lotta dei partigiani liberali contro il regime di Mammettai.
"Agente Rapitalà - mi disse Gennaro mentre mi veniva incontro (traduco dal napoletano) - tale e quale alla foto, che pure è di dieci anni fa: evidentemente non è invecchiato affatto!"
"Grazie. Lei è!?"
"Gennaro, sub-comandante dell'esercito di liberazione Vajanistano. Qui tutti la aspettavamo con impazienza: ci è stato parlato di lei come dell'uomo che ci salverà dal regime decennale di quel gran porco di Mammettai!"
"Sono lusingato, comandante!"
"Sub-comandante, prego."
"Oh, scusi. Se vuole però, adesso che assumo io il controllo dell'esercito di liberazione, posso farla comandante" proposi io.
"Co' 'o cazz! Io sono sub-comandante come Marcos!" mi rispose con una punta di indignazione.
"Beh, ma potrebbe essere comandante come il Che!" gli dissi allora.
"Lei mi mette in crisi agente! ehm, generale. Se mi è concesso vorrei prendermi qualche giorno per riflettere e documentarmi sull'argomento."
"Non c'è tempo, Gennaro, abbiamo un paese da ripulire, un popolo a cui restituire la libertà, un regime locale da abbattere ed uno mondiale da instaurare!"
"Prego?!" mi chiese incuriosito Gennaro.
"Niente, si dimentichi di queste ultime mie parole. Piuttosto, di quanti uomini disponiamo?"
"Trenta signore, e tutti preparatissimi, anche se un po' depressi!"
"Depressi? - chiesi io -. E come mai?"
"Finora abbiamo sollevato trentadue rivoluzioni e trentadue rivoluzioni le abbiam perdute. Proprio come quell'altro colonnello!"
"Si si, so di chi parla. Raduni i suoi uomini, sub-comandante, e mi procuri un megafono perché devo fargli un discorso. E si ricordi che, per esperienza personale, la trentatreesima volta è sempre quella buona!"
L'addestramento
Quando tutti i guerriglieri furono radunati dinanzi a me, presi il megafono che mi era stato porto dal sub-comandante Gennaro e pronunciai un discorso dalla portata davvero storica. Va detto, ad onor del vero, che la mia istruzione umanistica mi ha sempre permesso di eccellere nella fondamentale arte oratoria, tant'è che molte volte nella mia carriera la dialettica mi ha aiutato a togliermi d'impiccio. Ricordo, a testimonianza di ciò, quella volta in cui fui mandato a spiare alcuni segretissimi progetti militari dell'Unione Sovietica (una delle missioni più impegnative della mia vita): tramite una lunghissima serie di contraffazioni negli uffici pubblici (creazione di certificati di nascita, stati civili, tessere annonarie e di partito) creai dal nulla il personaggio di un libero professionista ungherese di nome Mirko Stanislao Sk'orskij e mi diedi alla vita di partito. Al culmine della mia fulminante carriera politica entrai a far parte del comitato interno del partito, e addirittura nel dipartimento che più mi interessava ai fini della mia missione di spionaggio. Ricordo, e ci ricolleghiamo appunto al discorso da cui siamo partiti, che i miei comizi si svolgevano sempre al cospetto di folle oceaniche e deliranti, le quali impazzivano letteralmente per la mia finissima ed entusiasmante retorica politica, e mai, neppure la prima volta, la mia voce e il mio perfetto russo furono minimamente turbati dall'emozione.
Ebbene, adesso ero nuovamente chiamato a infondere in quei guerriglieri esausti e demoralizzati da anni di vane lotte civili un po' di speranza e di ottimismo.
"Uomini - cominciai a dire, simulando un vago accento napoletano per farmi meglio capire - oggi è un giorno molto diverso da quelli che avete fin qui vissuto. Da oggi si respira un'aria nuova, un profumo netto che permea l'aria. Lo sentite?"
"Si - mi interruppe uno zoticone mezzo nudo - si sente puzz' 'e mmerda!"
Crasse e sguaiate risa esplosero fragorose nell'aria. Feci segno a Gennaro, che era accanto a me, di porgermi la pistola e freddai il bifolco che aveva osato parlare con un unico, precisissimo colpo.
"Si sente aria di vittoria!" dissi poi, e la folla esplose in un prolungato e forse poco naturale applauso.
"Ciò che avete finora fatto, miei prodi condottieri, non è stato inutile. Il nemico è fiaccato, il regime sta dando sempre più vistosi segni di cedimento. L'ora della riscossa liberale è ormai vicina! Siamo chiamati oggi a prepararci per sferrare la spallata finale che farà schiantare al suolo la grottesca ed insostenibile corte di Mammettai. Sulle marmoree pagine della storia è già segnato a lettere d'oro il nome di ognuno di noi, sotto il capitolo LIBERAZIONE DEL VAJANISTAN, paragrafo LA VITTORIA FINALE. Le nostre sole forze basterebbero e forse avanzerebbero per porre definitivamente fine all'incubo del regime conservatore che ormai da troppi anni opprime il Vajanistan, ma per di più, miei eroici compagni, io ho la certezza che le forze sovrannaturali che regolano il cosmo, ormai anche loro stufe dei mammettaisti, ci appoggeranno nel nostro storico compito di frantumare, una volta per tutte, le nostre decennali catene!" Dire che gli applausi fioccarono a più non posso sarebbe usare un eufemismo.
"Quindi, miei diletti, è ormai chiaro che manchi poco all'ora della libertà. Dopodomani, alle ore 12:00, sferreremo il colpo letale per Mammettai e per i suoi infidi seguaci, e faremo fuori Maciste e tutti i farisei! VIVA IL PARTITO LIBERALE!"
"VIVA!!" risposero in coro i soldati e poi si lanciarono il quindici minuti d'applausi ininterrotti.
Prima di addentrarmi nella descrizione dei miei metodi di addestramento dei guerriglieri, devo dire che per quanto essi fossero evidentemente persone incolte e, se mi è concesso, semi-selvagge, amavano la lettura. In particolare quella di certi romanzi di spionaggio commerciali di infima qualità, zeppi di errori di grammatica e di stampa, pubblicati su carta più volte riciclati e venduti a poche lire nelle edicole del paese, prodotti peraltro involontariamente esilaranti. Allego a questo memoriale uno di questi libelli squallidissimi dal titolo "Colpo grosso per James Blond" che un guerrigliero mi diede con le lacrime agli occhi come pegno e segno di ringraziamento per la fiducia in sé e la speranza nel futuro che, a detta sua, gli avevo donato [il libello in questione è stato inserito in appendice a questo volume n.d.c.].
L'addestramento infallibile che in pochi giorni (uno e mezzo, per la precisione) avrebbe dovuto portare il movimento liberale alla conquista del potere in Vajanistan e me ed il colonnello Del Grande alla conquista del super-lanciamissili americano, custodito direttamente nel palazzo del governo, consisteva in una lunga ed estenuante serie di esercizi ginnici volti a temprare il corpo e abituare lo spirito alle fatiche nel minor tempo possibile.
Ecco nel dettaglio la nostra rigidissima tabella di marcia:
1.LOTTA GRECO-ROMANA: Il primo, fondamentale passo necessario per una ottimale preparazione fisica finalizzata ad un golpe come si suol dire "a regola d'arte" è senza ombra di dubbio la lotta greco-romana. Inventata dai fratelli omosessuali Lucrezio Furio (romano) e Democlito Tassalonicese (greco), entrambi figli di un ricco patrizio di nome Aurelio Giulio Furio, in occasione dei contrasti per la spartizione dell'eredità del padre, defunto intorno alla metà del primo secolo dopo Cristo, "la lotta pornografica dei greci e dei latini", come è stata efficacemente definita dal grande Franco Battiato, è rimasta attraverso i secoli una delle più complete ed utili discipline ginniche esistenti. Io ritengo che questa bellissima tipologia di lotta possa rivelarsi assolutamente utilissima durante ogni normale azione di guerriglia e di incursione all'interno di palazzi e sedi istituzionali; quante volte del resto è capitato che un commando di guerriglieri, dopo essere penetrato - magari con inenarrabili fatiche ed enormi sforzi fisici - all'interno del palazzo del governo da rovesciare, trovandosi a dover affrontare l'ultimo manipolo di fedelissimi del governante da deporre, non sappia che pesci pigliare. Ebbene, la risposta a tutto ciò ci viene dai nostri avi, che teorizzarono tanti secoli or sono la lotta, appunto pornografica, di due uomini completamente ignudi che, seguendo complicate e rigidissime regole disciplinari, cercano di sopraffarsi e dominarsi (un po' in tutti i sensi) vicendevolmente. I vantaggi di questa specie di lotta sono almeno due: a parte quello morale ed etico di portare a termine una rivoluzione battendo i propri nemici secondo le regole di uno degli sport più antichi del mondo, c'è anche da considerare il potere diversivo che lo spettacolo porno-omosessuale offerto dalla lotta esercita sugli spettatori e sui nemici: la paura di ritrovarsi dinanzi ad avversari disposti sessualmente al peggio può far desistere i nemici da ogni loro intento belligerante, fatta salva ovviamente la loro eterosessualità.
La prima cosa quindi con cui cominciai l'addestramento dei miei uomini fu un'ora e mezza di lotta greco-romana, ed effettivamente devo dire che mi ritenni soddisfatto dei risultati ottenuti. Pur non avendo mai praticato, per loro stessa ammissione, questa antica ed onorevole disciplina, i miei guerriglieri si rivelarono particolarmente agili nel ruzzolarsi nudi vicendevolmente aggrovigliati e molto motivati e smaniosi di vittoria. Chissà, forse facevano tesoro dell'esperienza ginnico-sessuale accumulata nei pochi momenti di svago durante la loro permanenza in quel campo d'addestramento per soli uomini.
2.GARA DI RUTTI: Nessuno di quei noiosi barbogi che insegnano nelle nostre moderne accademie militari considera la gara di rutti come la considero io. Secondo la mia personale dottrina, nessuna gara, oltre a quella dei rutti, può vantare di infondere una così lunga serie di effetti positivi sulla psiche delle milizie: la competizione del rutto fa leva su un tasto oggettivamente fondamentale nella preparazione psicologica di un soldato che si rispetti, vale a dire la virilità. Infatti, da sempre identificato con gli aspetti più beceri, potremmo dire, dell'uomo inteso come maschio forte, il rutto più del peto si presta ad appassionanti competizioni only-for-men che ben si attagliano alla preparazione di un soldato. La gara di rutti fa impegnare tutti i partecipanti a tirare fuori dal proprio esofago quanto di più potente e virile possa essere congenito alla specie umana. Inoltre la suddetta competizione ha di buono che evita tutta quella serie di complessi e pericolosi problemi posti invece dalla gara di lunghezza del pene, aperta, per ovvie ragioni, solo agli uomini ma, come già detto, decisamente rischiosa per i contraccolpi che può inferire sul morale delle truppe. Niente come una buona gara di rutti può invece creare sano cameratismo, spirito competitivo e volontà di migliorarsi, di giungere dove nessun altro ruttatore è mai giunto prima; persino colui, o coloro che usciranno sconfitti troveranno una parola di conforto dal vincitore, che nella maggior parte dei casi dirà loro: "Beh, comunque i tuoi rutti fanno davvero spavento!", creando così quel feeling necessario ai soldati affinché - anche in battaglia - essi siano spinti, chissà, a salvarsi vicendevolmente la vita. Dopo la lotta greco-romana, ordinai dunque ai miei uomini di impegnarsi al pieno delle loro capacità in una gara di rutti della durata di trenta minuti. In un epico contrapporsi di veri e propri rombi di tuono, riuscii così nel mio intento di stabilire quell'amalgama e quel clima di ottimismo che prima del mio avvento non c'erano stati mai in questo campo di disgraziati.
3.TIRO AL BERSAGLIO: Inutile dilungarmi sul tiro al bersaglio che sicuramente tutti voi conoscete a menadito. L'unica cosa che voglio specificare è che il bersaglio era umano. Dopo quest'esercitazione rimanemmo in 25 (ma buoni).
4.URLAZZI IN LIBERTĄ: Va detto che, leggendo sulla carta scritta, forse il mio metodo d'addestramento può effettivamente apparire, ad un eventuale lettore, un bel po' stravagante ed inutile; ma siccome in guerra, come del resto nelle case chiuse, l'importante è il risultato, bisogna sicuramente dire che dal punto di vista fondamentale dei risultati conseguiti il mio metodo risulta più che valido. Infatti, già dopo la gara di rutti il morale di quelle truppe che io avevo trovato quasi sull'orlo del suicidio si era spinto a livelli davvero elevati; la consapevolezza e la fiducia nelle proprie forze era ormai una sensazione comune. perfettamente riscontrabile da chiunque si trovasse in zona. Tutti adesso erano davvero emotivamente convinti e caricati, pronti per combattere e dare tutti se stessi alla causa liberale. Eppure, come la mia lunga esperienza di stimato e - modestia a parte - pluridecorato agente del SISDE mi insegna, laddove l'entusiasmo e la volontà di vincere sia troppo elevata, si rischia effettivamente di commettere delle sbadataggini al momento decisivo. È necessario, secondo il mio modo di vedere, una fase in cui le truppe possano scaricare le tensioni - seppur positive - accumulate e acquistare quella calma e quella concentrazione che, con un paragone forse un po' ardito, potrei accostare a quella dei bonzi tibetani. Prima di iniziare a mangiare, quando tutti i soldati furono seduti in una lunghissima tavolata da me voluta e fatta costruire (io infatti sono tradizionalista: quando si mangia, si mangia tutti insieme seduti a tavola!), proprio qualche istante prima di toccare il cibo, gettai un urlo agghiacciante che per qualche secondo immobilizzò tutti gli astanti, ghiacciando le loro reazioni nervose. Poi invitai a fare lo stesso i miei soldati, e, prima con qualche esitazione, poi più scioltamente, tutti presero ad urlare come degli assatanati. L'urlo agghiacciante non solo permise ai miei prodi di sfogarsi, ma, come seppi in seguito, giunse persino alle orecchie di Mammettai, che lo interpretò giustamente come il segnale che il suo tempo stava per finire.
Come suol dirsi, due piccioni con una fava.
Mimmo Rapitalà abbassò il giornale. Seduto sulla tazza del suo water, fissò lo sguardo nel vuoto e cominciò a riflettere. Pensò a quando era bambino, ai bei sogni che faceva a 14 anni, alle illusioni, alle speranze, alle ottimistiche certezze di allora. Pensò a come trattava di merda quelli che allora sembravano i meno capaci e più stupidi fra i suoi compagni di classe, quelli di cui aveva la certezza che non sarebbero diventati mai nessuno. Pensò che questi, ad anni di distanza, inaspettatamente erano diventati tutti (ma proprio tutti) dei pezzi grossi: chi banchiere, chi politico, chi professore universitario. E pensò che nessuno di loro lo degnava più non di un saluto, né di una parola, ma nemmeno di un insulto, di uno sputo, un segno di disprezzo. Niente. Non lo considerava più nessuno. Alla tenera età di 33 anni, cominciava a credere di essere solo un povero stronzo qualunque, come al mondo ce ne sono miliardi. Solo, perduto, seduto sulla tazza del water, sentì persino riecheggiare una musica, un coro composto da tutti i miliardi di poveri stronzi qualunque che per conferma gli cantavano: "E così tu sarai uno in più, con noi" (Uno in più, Lucio Battisti, 1969).Non c'era dubbio. Se avesse continuato a vivere in quel modo avrebbe certamente finito i suoi giorni stroncato dal quinto ed ultimo ictus mentre, sdraiato sullo squallido lettino di un ospizio, tenta per l'ultima volta di sollevare con la mano tremante la lercia gonna di una infermiera cinquantanovenne con le misure di Merilyn Monroe, Marlene Dietrich e Sofia Loren messe l'una accanto all'altra.
Una indecenza inaccettabile, un'eventualità da respingere e contrastare. Ma come? Che fare?
"Abbattere il parassitarismo borghese e instaurare la dittatura del proletariato!" gli rispose prontamente il fantasma di Lenin, apparso con aria severa davanti a lui. No, non era una soluzione accettabile.
"Sterminare tutti gli ebrei, i negri e pure i ricchio!" a Hitler, per cortesia!
No, Mimmo sentiva che la soluzione ai suoi mali, la meta da raggiungere nella sua triste esistenza, l'obiettivo primario da centrare ad ogni costo per ottenere il riscatto ed il successo era soltanto uno: il danaro. Il danaro (con la "a", suono evidentemente più aperto, proprio per evidenziare l'abbondanza intrinseca di questo danaro) è stato, è e sarà sempre il "motore immobile" del mondo. Il danaro, questa panacea di ogni male, questo totem magico che se è adorato da tutti ci sarà un perché, doveva entrare necessariamente a far parte della vita di Mimmo Rapitalà; essa, una volta sposatasi completamente al danaro, avrebbe finalmente smesso di essere una brulla antologia di delusioni e sputazzate in faccia e si sarebbe invece trasformata in un albo d'oro di trionfi e glorie senza fine. L'idea del danaro, in realtà, non era del tutto nuova per Mimmo; un occhio particolarmente attento avrebbe infatti potuto individuare, nella sua infanzia, i prodromi di una vita da sacerdote della moneta. Come non riconoscere infatti i segni del danaro nella fanciullesca abitudine che aveva Mimmo di vendere per strada oggetti e cianfrusaglie raccolti in casa, come piatti d'argento, vasi Ming, album di francobolli di papà, libri ed enciclopedie varie? E come non ricordare la soddisfazione che provò nel mostrare a suo padre la sua prima banconota da diecimila lire, e il sorriso compiaciuto del babbo nell'osservare quel piccolo affarista in erba, e come quel sorriso gli morì in faccia quando Mimmo rivelò che quei soldi derivavano dalla vendita delle chiavi della 600 blu di casa? E che dire delle mazzate violente, cicliche, ininterrotte, che gli furono date con bastoni, battipanni, scope e altre armi improprie, usate in tutti i modi: davanti, di dietro, di piatto, di taglio, in testa, in faccia, fra un'articolazione e l'altra, nelle giunture delle ossa del cranio, talvolta con scientifica precisione e calcolo certosino, talaltra con selvaggia e incontrollabile violenza, prima attraverso una 6 giorni di pura barbarie e poi, scemando, ancora per un lungo periodo successivo, durato anche svariati mesi?
Sarà stata forse quella cieca furia a sopire per così tanto tempo in Mimmo Rapitalà il desiderio di prostrarsi, come tutti gli uomini di successo del nostro mondo, al dio-danaro? Lui non lo sapeva. Seduto sul water continuava a fissare il vuoto, vagando nei meandri della sua mente alla ricerca di una maniera per procurarsi tanto, tantissimo danaro, e di conseguenza tanta, tantissima felicità. Ma mentre stava lì accomodato, con le brache calate, a rimuginare sul come e sul perché, improvvisamente gli giunse una illuminazione divina, rapida come solo un'improvvisa illuminazione divina può esserlo. Continuò a fissare il vuoto, ma non più con lo sguardo ebete di colui che ha la mente completamente sgombra da ogni pensiero, bensì con l'aria illuminata di chi, finalmente, ha visto la luce. Ebbene, la soluzione per uscire dagli abissi della sua esistenza colma fino all'orlo di nulla, la pietra miliare della strada che porta al compimento del proprio destino adesso era lì, (metaforicamente) dinanzi ai suoi occhi. Dove un qualunque profano avrebbe visto semplicemente il lavandino del bagno di casa Rapitalà, lui, Mimmo Rapitalà, vedeva invece il Grande Imprenditore nelle vesti di "modello di vita da seguire". Il Grande Imprenditore, l'ideale di self-made-man fatto persona, anzi, fattosi autonomamente persona; il Grande Imprenditore, pontefice massimo del culto del danaro, la religione delle religioni, l'unica che abbia il potere di mettere d'accordo orazi e curiazi, guelfi bianchi&neri e ghibellini, satanisti e cardinali, mullah e rabbini, satanisti e rabbini, cardinali e mullah, cardinali e orazi, curiazi e rabbini, satanisti, ghibellini e guelfi bianchi con orazi, curiazi e rabbini, col beneplacito di cardinali e guelfi neri, insomma, tutti, ma proprio tutti. Anche i curiazi.
Come San Paolo, fulminato da Dio sulla strada di Damasco, così Mimmo, fulminato dal Grande Imprenditore sul suo water, si alzò di scatto dalla sua postazione con fare mistico e, dopo aver fatto pulizia, tirato la catena e abbottonato i pantaloni, uscì di corsa dal gabinetto; ballando un rap di composizione estemporanea il cui testo era suppergiù così: "Eureka! ho trovato! Eureka! ho trovato!" si diresse ritmicamente verso la cucina. Sedette al tavolo ancora ingombro di rimasugli della cena di una settimana prima, ricoperti da uno strato di mosche e insetti vari da fare invidia alle baraccopoli di Calcutta, prese un fazzolettino di carta ed una penna trovata lì vicino e cominciò a stendere il suo piano imprenditoriale per la conquista del mondo della finanza.
Diventare imprenditori non era affatto difficile: i film, i programmi tv, i fumetti, le canzoni, le etichette disegnate dei pedalini e gli album da colorare americani testimoniavano chiaramente che basta avere una buona idea e tanta volontà per diventare "anche tu" un multimiliardario famoso, apprezzato, spietato, amato dalle donne, agiato, crudele ed elegante. E se questo era vero prima - pensò giustamente il nostro Mimmo Rapitalà - figurarsi adesso che l'azienda, l'unica strada sicura che porta ai billions of trillions of millions dollars, aveva conosciuto una nuova frontiera, nata da un'incredibile rivoluzione - meno violenta di quella francese e più avventurosa di quella cubana - che ha segnato una svolta epocale nella storia del quattrino. La old economy, espressione che, per chi non lo sapesse, si traduce in volgare toscano con "vecchia economia", era roba ormai da preistoria, da terzo mondo, da negri insomma! Chi più al giorno d'oggi, per fare danaro, metterebbe su una azienda metallurgica o siderurgica o agricola? Nessuno, si rispose subitamente Mimmo! Al giorno d'oggi ci si faceva i soldi con la new economy, termine che, per chi come al solito non lo sapesse, vuol dire "nuova economia", ed è rappresentata da tutte quelle aziende che vivono ed operano su Internet, la magica rete che ha accorciato così tanto le distanze da rendere il mondo grande come una nocciolina. Immaginarsi, in proporzione, il cervello di Mimmo.
Eppure, pur nelle sue infinitesimali dimensioni, l'apparato celebrale di Rapitalà fu in grado, in quei frangenti traboccanti di creatività, di stabilire con esattezza quale fosse la strada da percorrere per entrare finalmente nel magico mondo della finanza e dell'impresa. Per spiegare l'immensa portata innovativo/rivoluzionaria dell'idea rapitalaista, è necessario però che noi si segua pedissequamente l'illuminato e illuministico concatenarsi delle elucubrazioni del nostro eroe, affinché chi fra voi lettori sia meno dotato dal punto di vista intellettivo possa comunque legere et intellegere al pari dei compagni più fortunati. Qual è la cosa più utile del mondo? L'ossigeno, senza alcun dubbio. Chi fornisce l'ossigeno? Gli alberi. Chi fornisce gli alberi? Altri alberi, passaggio inutile. Dove crescono gli alberi? Nei boschi. Dove ci sono molti boschi? Esatto, nei cosiddetti paesi boschi, nella penisola iberica. Cosa c'è nei paesi boschi? Il terrorismo dell'ETA. Che lettera segue l'eta nell'alfabeto greco? Teta. La lettera teta, accanto ad un'altra teta, cosa dà? Un paio di tete. Tete e!? Culo, esatto. Cosa ci sono sul culo? Le mutande!! Ed ecco quindi che, mutatis mutandis, Mimmo giunse alle mutande!! L'essenza profonda della genialata del Rapitalà era proprio questa: importare mutande a basso costo da paesi stranieri e venderle (all'ingrosso) via Internet - ad un prezzo convenientissimo - ai singoli commercianti, che poi avrebbero provveduto a rivenderle al cliente. Semplice, fulminante, geniale. All'americana. Però, una volta trovata l'idea, bisognava metterla in pratica. Ma come fare? Per far partire l'azienda era necessario, secondo i calcoli, un patrimonio pari ad almeno 10.000 euro, di cui Mimmo ovviamente non disponeva. Come procurarselo? Vagliò varie ipotesi:
1) Rubarlo. Un metodo rischioso ma - da che mondo è mondo - efficace. Da considerare qualora non se ne trovasse uno migliore.
2) Raccoglierlo tramite prostituzione. La propria o quella di qualcun altro/a. Ma di prostituirsi non ce n'era molta voglia, e mancava anche materiale umano da far prostituire. Ipotesi scartata.
3) Chiederlo ad una banca o ad un istituto di credito. Ma a Mimmo non avrebbe fatto credito nemmeno uno strozzino clandestino, figurarsi gli strozzini istituzionalizzati della banca.
4) Vendere qualcosa. Ma Mimmo, che - forse come retaggio delle sue traumatiche esperienze commerciali di quand'era fanciullo - era diventato materialista e si legava molto alle sue cose, era un po' restio a vendere qualcosa. Forse!
Eureka!! Mimmo aveva trovato la soluzione: vendere mamma al mercato nero!
Lei era sempre stata una gran donna, infaticabile, lavoratora e forse anche piacente, nonostante i suoi 65 anni; la sua ottima salute inoltre avrebbe tranquillamente permesso esportazioni d'organi in abbondanza. 10.000 euro li valeva tutti, fino all'ultimo centesimo. Eccome! Si, era quella la soluzione; del resto non era cosa né nuova né strana sacrificare gli affetti familiari al lavoro, lo facevano tutti colo che volevano davvero diventare qualcuno. Si, vendere mamma era l'unica cosa da fare, e facendo ciò Mimmo Rapitalà avrebbe preso due piccioni con una fava, come suol dirsi: da un lato avrebbe ottenuto i soldi necessari per far partire la sua impresa mutandiera, e dall'altro si sarebbe anche propiziato, con quel sacrificio umano, l'onnipotente dio-denaro. E si sa, per la religione questo ed altro.
Il mercato delle schiave rappresentava senza dubbio il centro vero e proprio della città di Mimmo. Una volta valicata la Rupe degli Assassini, guadato il Fiume di Sangue-nero-della-terra e attraversata la Valle di Lacrime di Gente Morta, l'unico "ostacolo" che impediva di raggiungere il mercato delle schiave era soltanto l'Impervio Bosco del Nano Sodomita. L'Impervio Bosco del Nano Sodomita, diversamente da quanto l'intera popolazione era solita riferire, e cioè che fosse di impossibile accesso, era un luogo indiscutibilmente inospitale ma non impossibile da oltrepassare, verità questa dimostrata dall'esistenza stessa del mercato delle schiave, al quale si accedeva infatti solo per quella via. Il problema principale che rendeva difficoltoso l'accesso all'Impervio Bosco del Nano Sodomita, oltre alla grossa presenza al suo interno di predoni e banditi di varia natura, era il Nano Sodomita di cui sopra, un personaggio, o sarebbe meglio dire un'entità, che infestava quelle orrende zone sodomizzando a sorpresa ogni sconosciuto che violasse il suo territorio. Su questo argomento forse è meglio però lasciare la parola ad Aristotile Porfirio, noto geografo conterraneo di Mimmo Rapitalà, che nel 1969, scrisse un irrinunciabile poema epico/descrittivo sull'argomento, dal titolo "Su l'Impervio Bosco del Nano Sodomita /e altre cose sulla guerra vietnamita", in cui espone così le crudeli leggi che regolano il Bosco:
"Sull'impervio Bosco del Nano Sodomita
tante cose si dicono, ma non son vere:
se ad esempio vai lì, non rischi la vita,
ma di certo devi pararti il sedere.Il nano Bogotà, famoso sodomita,
risiede nel bosco, che da lui prende 'l nome,
in cui se un incauto vuol fare una gita
non capirà affatto né dove né comema si ritroverà col buco che l'irrita
ed un bruciore nelle zone posteriori
tale da desiderare la dipartita
nel mondo di tutti i sodomizzatori.Il Nano Bogotà, persona molto astuta,
sodomizza mai né le donne né i vecchi,
ma ben gradisce di farsi una venuta
nel seder degli uomini e negli orecchi"
La leggenda del nano Bogotà era conosciuta da tempo da tutti gli abitanti ed ovviamente anche da Mimmo, il quale però si era sempre rifiutato di credervi, ancorandosi alle sue personali convinzioni illuministiche. Fu con questo spirito che perciò il nostro eroe, determinato a raggiungere il mercato delle schiave e dare finalmente avvio alla sua grande impresa, si avventurò nella selva oscura con la madre narcotizzata chiusa in un sacco.
Percorse in relativa tranquillità i primi cento metri del suo cammino, facendosi cautamente strada tra i rami folti e le foglie - gremite di insetti di varia natura - che da un albero all'altro si intersecavano in una fitta, seppur valicabile, muraglia boschiva. Prima di compiere ogni passo, il Rapitalà faceva precedere il suo volto occhialuto dalle sue lunghe braccia, le quali, con gesti insicuri e nervosi, erano le prime a venire in contatto con la folta materia floreale che gli velava completamente la visuale dello spazio prossimo. Quando in cuor suo, con una superficialità che a detta degli anziani pare sia tipica delle ultime generazioni, Mimmo cominciava ormai a credere che in fondo il diavolo non sia così brutto come lo si dipinge, dalla fitta vegetazione, preceduto da un sibilo forte ed acuto simile a quello dei serpenti a sonagli, venne fuori con una violenza spaventosa una grande testa di drago attaccata ad un enorme corpo di serpente, che squarciava ogni ostacolo sulla sua strada e sembrava inizialmente che volesse trapassare il cranio di Mimmo da parte a parte. Quando però l'orrendo mostro si fu trovato dinanzi al futuro grande imprenditore, fu possibile per Mimmo leggere sul suo volto un'espressione che inizialmente fu di sorpresa, poi di stupore e infine di vera e propria allegria. Ah ah ah! scoppiò a ridere il mostro, ma guarda tu chi cacchio viene a trovarmi!
"Mimmo!!" urlò poi l'orrendo, con ilarità.
"Mi scusi, ma ci conosciamo?" domandò il Rapitalà comprensibilmente sorpreso dalla confidenza che l'immonda bestia si era improvvisamente presa.
"Ma come, vecchio paraculo, non mi riconosci?"
"Veramente no!"
"Ma cose da pazzi! aspetta aspetta!" il mostro sembrò cercare concentrazione. Poi, dopo dieci secondi di religioso e ascetico silenzio, con voce artificiosa, acuta e gracchiante, il drago esplose:
"RAPITALÀ!! NON HAI SSSSTUDIATO E TTI METTO TTUE!!! Ah ah - rise poi lo schifoso - ti ricordi adesso?! Sono Fornicopolo, siamo stati anche compagni di banco per due anni!!"
Improvvisamente, come un'illuminazione dal cielo, Mimmo ricordò tutto e riconobbe persino le fattezze del suo vecchio compagno di classe nel volto animalesco dell'essere che gli stava ora davanti.
"Oddio Paolino, ma che come cazzo hai fatto a ridurti così?" chiese poi con sincera apprensione
"Eh, Mimmo caro, la vita è dura per tutti! Una volta preso il diploma non avevo niente da fare, l'università non potevo permettermela perché, lo sai, la mia famiglia non avrebbe trovato mai i soldi per potermici mandare; del resto a lavorare in fabbrica otto ore al giorno, sinceramente, non sono adatto, e quindi ho cercato un altro lavoro onesto, non troppo faticoso che però mi permettesse di campare."
"E allora?" lo incalzò il Rapitalà.
"E allora, e allora! E allora niente, una mattinata, uscendo dall'ufficio di collocamento, al quale peraltro mi hanno ripetutamente mandato a quel paese, perché caro mio anche lì bisogna avere i propri santi in paradiso, ho incontrato una tipa molto particolare, una donna dalla bellezza davvero sconvolgente che mi ha fatto salire sulla sua macchina sportiva. Io pensavo inizialmente che fosse in cerca dei soliti favori sessuali che, dato il mio fisico palesemente atletico e prestante, come tu ben sai, tutte le donne, nel corso degli anni, mi hanno ripetutamente chiesto (talvolta anche sottoponendosi ad umiliazioni se vogliamo anche decisamente eccessive!"
"Si va bene, ma vai avanti, Paolo" lo rimbrottò Mimmo.