MITOLOGIE
Il Novecento sotto i piedi
Elvis Presley fu ucciso da un enorme panino. Da anni mangiava come due elefanti asiatici. Il suo intestino era perennemente occluso. Tutto questo perché l'abuso di droghe e psicofarmaci aveva causato una degenerazione ipotalamica che gli impediva di sentirsi sazio. Mangiava fino al collasso. Mangiò letteralmente fino a scoppiare.
Un'analoga degenerazione ipotalamica dev'essere all'origine di alcune delle critiche più stupide fatte a Luther Blissett da certi attardati razionalisti di Sinistra: per anni si sono strafatti di ideologie pseudo-salvifiche e prometeiche, finendo per strafogarsi di settarismo e paranoie. La loro dieta è tuttora tristemente sbilanciata, povera di fibre (di qui la loro stitichezza teorica e pratica) e troppo ricca di glutammato (la cosiddetta "sindrome da ristorante cinese"). Si riempiranno la bocca di (pre)giudizi rancorosi finché non scoppieranno, è destino. Luther non ne seguirà l'esempio: di Elvis ha solo il ciuffo a banana.
Il testo che segue è stato scritto - e diffuso come pamphlet autoprodotto - nell'inverno 1995-96, per far piazza pulita di alcuni pericolosi fraintendimenti e rintuzzare le critiche più sceme al Luther Blissett Project, tra cui quella di "fare il gioco del nemico", sterile esercizio di oratoria a cui certi Uomini del Risentimento non riescono proprio a rinunciare.
"La storia in generale, la storia delle rivoluzioni in particolare, è sempre più ricca di contenuto, più varia, più multilaterale, più viva, più 'astuta'" di quanto possano immaginare anche il migliore storico e il migliore metodologo.
V.I. Lenin plagiato da P.K. Feyerabend.
Luther Blissett è un agente segreto che gioca la partita del Mito allo scopo di minare l'autorità del Mito (della Verità, dell'Identità, della Ragione, ecc.).
P.K. Feyerabend plagiato da me.
1. IL MITO DELLA VERITÀ
1. Pilato si chiedeva cosa fosse la Verità. Blissett si domanda cosa ce ne freghi. Non solo della risposta al problema, ma dei suoi stessi termini. Molti hanno provato a dare una soluzione all'enigma. Pochi hanno detto che esso, semplicemente, non ha alcuna ragion d'essere.
2. Dire la verità, affermava Aristotele, è descrivere come stanno le cose. Un linguaggio che funzionasse come uno specchio del mondo, garantirebbe la correttezza delle nostre affermazioni.
3. Kant si accorse che l'idea di Aristotele si basava su una potente immagine mitologica; quella, appunto, del linguaggio come specchio neutrale. Egli ci fece vedere come quella pura superficie riflettente fosse deformata da agenti particolari, che potremmo chiamare i nostri schemi concettuali. Così, mantenendo la definizione di Verità come corrispondenza alla realtà, ecco che essa diventava un ideale irraggiungibile, da sostituirsi con una più umile Verità-per-noi.
4. Il termine Verità-per-noi ha un forte inconveniente. Contiene un vocabolo che acquista un senso solo in riferimento ad un contesto particolare: "noi". La "nostra" verità è diversa da quella di un aborigeno, semplicemente perché il "nostro" mondo, ovvero il contenuto di ciò che è vero, è diverso dal loro. Perché diversa è la nostra percezione di esso e il nostro modo di parlarne. Entrambi sono specchi deformati dagli schemi concettuali.
5. Ogni cultura ha il suo mondo, la sua verità. Non ci sono schemi concettuali giusti o sbagliati. Non c'é modo di correggere quelli altrui. Essi sono incommensurabili. Questo relativismo nasconde il razzismo più sporco sotto il lindore della tolleranza.
6. La Verità è Una, e l'impresa scientifica occidentale è il modo più efficace per cercare di scoprirla attraverso una progressiva accumulazione di conoscenze. Questo è razzismo immerdato di tecnocrazia.
7. La Verità non è Una. Le Verità non sono molte. Tertium datur: La Verità è un nonsense.
7 bis. LaVerità non è Una. Il Metodo Scientifico scricchiola. Le Verità non sono molte. Scricchiolano gli schemi concettuali e i metodi scientifici.
8. La verità è un nonsense. L'oggetto della Verità è la Realtà, il Mondo. Ergo la Realtà è un nonsense. Ed essere un nonsense è ben diverso da non essere.
9. In sostanza: che non ci sia un punto di vista assoluto, sciolto dai legami della Cultura, della Storia, della Geografia, del Denaro, dal quale mostrarci quale sia la Verità, pura, oltre tutti questi fattori, eterna e disinteressata, è assodato. E per tanto dev'essere assodato che il relativista non deve fare lo stesso gioco dell'assolutista dicendo che ogni cultura deve avere un tale punto suo proprio.
10. Diceva Quine: Se la verità è relativa a un certo contesto, dov'è il punto di vista assoluto da cui giudichiamo questo fatto?
11. Quando una nostra teoria ci lascia all'asciutto, perché in un punto dice che le cose stanno come non stanno, ma noi teniamo particolarmente a quel punto, possiamo aggiustare la teoria in molti modi diversi, direi secondo il nostro senso estetico, pur di mantenere intatto quel punto.
12. Ma allora la teoria non ci dice come stanno le cose. Infatti: ci indica in che modo agire se vogliamo certi risultati. E questo significa che non abbiamo bisogno del Mondo e della sua descrizione speculare, la Verità.
13. Non possiamo distinguere ciò che dipende dai nostri schemi concettuali e ciò che dipende dal mondo. Ma allora la differenza tra i due concetti non fa differenza. E per tanto è un nonsense.
14. Ma quando c'è un processo contro un omicida, noi vogliamo ricostruire come sono andate le cose. Sapere se è Vero che quell'uomo ha ucciso il tale. Ovvero se nel mondo si è verificato un tale evento: l'assassinio di Luther da parte di Blissett.
15. Qual è in tal caso, la prova per me più sicura? L'aver assistito a un atto così e così da parte di Blissett. E se ora la difesa mi desse delle prove molto stringenti che qualcuno mi aveva precedentemente drogato? O che c'è un tipo in tutto simile a Blissett? Non avrei più quella sicurezza.
15 bis. E forse nel gioco linguistico dei tribunali l'idea di verità come corrispondenza è meno assurda che in altri. Ma, per il momento, la nostra vita ha a che fare solo marginalmente con le aule di giustizia. E poi: che cos'è un omicidio? Che cos'è un furto? Per un tribunale rivoluzionario la spesa proletaria non lo sarebbe, la proprietà privata, sì. Ed ecco che rientrano in gioco le nostre convinzioni, le teorie.
16. Noi lavoriamo sulle nostre credenze. Abbiamo vari criteri per aggiustarle e nessuno di questi è il criterio infallibile. Ma ciò non vuol dire che non siano confrontabili tra loro. In certe situazioni sappiamo che certi sono più utili, in altre no.
17. Questi criteri però servono per avere credenze vere. E allora dovremo spiegare il termine "vero". Ma il fatto è che tra credere una cosa e crederla vera non c'è alcuna differenza. Posso credere qualcosa non necessariamente perché la credo vera, se con credere intendo accettare qualcosa come criterio di azione. I motivi per credere sono molteplici. E questo dimostra una volta di più la non sensatezza del termine "vero". Ed ecco che "vero" può essere eliminato.
18. Diceva Goodman: Non posso dire, sensatamente, "È vero che Piove, ma non ci credo".
19. C'è una differenza tra il dire che Verità è un concetto eliminabile e dire che è un nonsenso: con un nonsenso ci si può divertire.
20. Le nostre credenze, le nostre teorie sono la Realtà. Possiamo farne ciò che vogliamo. In certe situazioni la soluzione ci sembrerà determinata (come di fronte a un leone), in altre ci sarà spazio per giocare.
21. La situazione del § 16 è che non esiste un supercriterio per giudicare i criteri, se non lo stare a vedere che differenza fa usare uno o l'altro e cosa ne pensiamo di questa differenza.
22. Quanto detto di Vero si può dire con altrettanta facilità di Bello, Giusto, Razionale, Arte e via discorrendo.
23. La Filosofia deve piantarla di cercare le essenze di tali concetti per dirimere dove ce ne sia una maggiore concentrazione. Deve smettere di credere di poterne dare una giustificazione fondante, una patente di accettabilità.
24. Chi ha avuto a che fare con un bambino piccolo sa che la serie dei suoi perché è potenzialmente infinita. E sa che il modo per bloccarla è dire "Non c'è un perché, è così e basta". Ora questa può sembrare una strategia autoritaria. Da bambini spesso ci ha fatto provare odio per i grandi. Ma la vera autorità è quella di chi inventa Miti per giustificare ogni cosa.
25. "È così e basta" è una frase che crea rabbia. E uno davvero arrabbiato potrebbe allora cercare di cambiare le cose e dire "Ora non è più così". "Ecco la ragione" è una frase che condanna come irrazionale ogni tentativo di dissenso. Questa è la frase veramente autoritaria.
26. Due persone cercano di spiegarsi. Arriva il punto in cui entrambe dicono "È così e basta". Non siamo tornati all'incommensurabilità delle teorie, al rinchiudersi ognuno nel suo mondo? No, perché mentre non potevamo cambiare i nostri schemi concettuali, possiamo cambiare le nostre teorie. Per una molteplicità di ragioni e in una molteplicità di modi. Quando si arriva al "È così e basta", ma in realtà anche prima, ciò che conta è la persuasione.
27. Cercare di persuadere qualcuno implica il capire la sua posizione, i suoi criteri, i suoi bisogni. Avere schemi concettuali diversi da qualcuno significa, forse, non considerarlo nemmeno una persona. O considerare persone anche i termitai.
28. Giocare con La Verità, con La Realtà, con Il Giusto: significa prendere in giro chi ci crede ma, soprattutto, mettere in crisi i criteri che ciascuno ritiene infallibili a priori. Ad esempio: "È vero perché l'hanno detto i giornali", "È vero perché lo disse Aristotele", "È vero perché è coerente".
29. Giocare con le cose serie, ecco il peccato di Luther Blissett. Mostrare che l'immobilità non è l'unico comportamento, nel negozio di oggetti in vetro. Giocare, ecco l'irrazionalismo. Le persone razionali non si possono permettere di giocare. Discutono razionalmente anche di una partita di poker.
2. IL MITO DELLA RAGIONE
Senza bisogno di scomodare Nietzsche possiamo affermare tranquillamente che da più di mezzo secolo la contrapposizione "razionalismo/irrazionalismo" per ciò che concerne la scienza in generale e l'epistemologia in particolare è stata messa in crisi. Non è stato Blissett e nemmeno la Nuova Destra, bensì personaggi del calibro di William James, John Dewey, Ludwig Wittgenstein, Walter Benjamin, Thomas Kuhn, Paul K. Feyerabend, Richard Rorty, Jacques Derrida, etc, etc. Costoro non possono certo essere accusati di aver giocato in favore di una rinascita fascista, visto che tutti quanti si distinguono o per uno smaccato liberalismo di stampo anglosassone o per un "anarchismo epistemologico" dichiarato o addirittura, nel caso di Benjamin e Derrida, per una riattualizzazione del pensiero marxiano. Le filosofie non-positiviste e non intellettualiste, per intenderci le filosofie del linguaggio, si sono sempre ben guardate dallo sfociare nell'idealismo o nello spontaneismo assoluto. Ovvero, non sono cadute nell'errore opposto a quello dei neo-positivisti, ma hanno cercato di aprire nuove strade per nuove culture filosofiche (o post-filosofiche, per dirla con Rorty). Hanno cercato di fornirci un modo diverso di guardare le cose, e facendo questo hanno reso più interessante la nostra vita.
L'intuizione essenziale è quella che non esiste un paradigma unico con cui guardare il mondo per rappresentarselo nella maniera giusta; niente del genere si è mai dato nella storia dal momento che è impossibile astrarsi dalla storia. Le nostre visioni sono visioni contingenti, storiche e culturali appunto, sempre suscettibili di essere rivedute e comunque interconnesse col sistema di credenze in cui siamo immersi.
Così, ad esempio, l'idea di un progresso scientifico per "accumulazione" progressiva di dati attraverso il Metodo, risulta quanto mai infantile e al tempo stesso autoritaria, non meno di quella hegeliana di un cammino monodirezionale verso l'autocoscienza dello Spirito. Non c'è limpidezza della ragione che tenga: gli scienziati sono uomini, inseriti in un contesto culturale-linguistico, e non possono rivelarci niente del mondo com'è in sé. Possono dirci quali sono le teorie sul mondo allo stato attuale delle credenze-conoscenze scientifiche. Niente ci dice che tra cinquant'anni non si possa scoprire che gli atomi e gli elettroni non esistono (anzi, Max Planck c'era già andato molto vicino vari decenni fa...).
Ora io non mi rammarico di questo; a mio parere è preferibile un mondo in cui ci sia una vasta gamma di scelte tra teorie e punti di vista diversi, rispetto a un mondo in cui regni l'accettazione unanime di una sola Verità. E l'idea che il cammino umano vada verso un margine sempre maggiore di certezza e la Storia verso un'ineluttabile conclusione, mi terrorizza, mi fa passare davanti agli occhi l'immagine di Bernardo Guy che si frega le mani adunche.
L'ideologia razionalista, che ha trovato in Galilei e Newton i suoi epistemologi e negli Illuministi i suoi teorici politici, avrebbe voluto mantenere in auge proprio un senso di devozione verso la Verità, una verità materiale, empirica, ma pur sempre una e una sola, una verità che sarebbe bastato disvelare attraverso l'analisi della storia e del mondo circostante. Una Verità statica e immutabile che si rivela passo passo agli occhi della Ragione (all'Occhio della Mente).
Blissett, seguendo l'altra tradizione, quella pragmatista, pensa invece che le verità/credenze/visioni del mondo non si guardino, bensì si creino, attraverso la ricombinazione multipla di fatti, teorie, valori. Il punto è che Galilei compì un'attività creativa quando costruì il suo modello scientifico, creativa e rivoluzionaria rispetto allo stato della scienza normale della sua epoca che aveva già raggiunto la propria Verità e che giustamente lo considerò un eretico (1), cioè - secondo una nota analogia medievale - un falsario. Galilei non scoprì un bel niente, anzi, la Verità si dipanò sotto i suoi colpi, il margine di incertezza aumentò per tutti, l'Uomo fu teletrasportato dal centro alla periferia dell'universo, il principio d'autorità fu minato radicalmente. Fu un progresso verso una verità più vera di quella aristotelica? Più corrispondente alla Verità Oggettiva là fuori? E chi può dirlo? Il nostro giudizio è condizionato dal fatto che siamo figli di Galilei, sarebbe come chiedere di dare un parere su noi stessi. Sicuramente dal nostro punto di vista fu un miglioramento. Fu la porta di accesso verso una società più interessante, più libera e articolata. È tutto quello che possiamo dire. Tanto più che nel XX° secolo, teorie come quella di Planck (meccanica quantistica) o di Heisenberg (principio di indeterminazione) hanno minato inesorabilmente i capisaldi della fisica newtoniana e il modello empirico-osservativo di Galilei, rivelandone tutti i limiti intrinseci e hanno suggerito che l'applicazione della Logica all'ambito scientifico, nel lungo periodo può rivelarsi un impiccio piuttosto che un vantaggio. Il padre della logica deontica, G.H.Von Wright, dovette ammettere che la Logica poteva essere presa a fondamento della razionalità umana, ma questo non implicava nessuna coincidenza di quest'ultima con il reale.
È proprio in questa prospettiva che il confine tra "agire razionale" e "agire irrazionale" si fa labile, i due aspetti si compenetrano e la loro contrapposizione diventa una forzatura, uno pseudo-problema. La razionalità non esiste. Il nostro analizzare/agire è sempre tinto di quella che l'anacronistico illuminista chiamerebbe "irrazionalità", è cosparso di credenze, di preconcetti culturali, di emotività e scelte arbitrarie tra teorie. Capire questo evidentemente non significa essere disposti ad accettare tutto, ad abbandonarsi al "puro istinto" o al qualunquismo generalizzante al di fuori di ogni analisi. Accettare la propria contingenza e complessità sbarazzandosi dei dualismi classici non implica condannarsi all'impredicabilità, tutt'altro. Significa semplicemente che saremo interessati all'articolazione delle forme di vita e della vita stessa, nella globalità dei suoi aspetti. Significa che non saremo invece interessati a ipostatizzare la distinzione tra agire razionale e agire irrazionale per riuscire a isolare l'irrazionalità, come una bestia nera da abbattere a fucilate, come un intralcio al cammino verso l'autocoscienza nella storia. Negare una componente importante della nostra esistenza porta a nascondersi dietro il dito reazionario di un'ideologia assolutistica. Strategicamente ciò equivale a pretendere di confutare la religione sostituendo Dio con la Dea Ragione (Robespierre docet...).
C'è dell'altro però. La constatazione che la nostra vita e le nostre visioni del mondo sono fatte di razionalità e irrazionalità al tempo stesso e senza soluzione di continuità, rende impossibile leggere la storia come un processo di progressiva affermazione di una razionalità intrinseca. È la differenza tra vedere le rivoluzioni come dei passi avanti, come delle aggiunte nel cammino lineare (e appunto cumulativo-dialettico) della Storia e vederle invece come dei salti qualitativi verso una visione delle cose radicalmente diversa, degli scarti verso un differente piano di realtà. È la differenza tra pensare con Hegel che la dialettica corrisponda al reale e pensare con Wittgenstein che essa sia soltanto una delle teorie possibili attraverso la quale interpretare il mondo e la storia, non necessariamente la più giusta né universalmente la più utile.
Due sono state le leve che hanno spinto le masse a scagliarsi contro lo stato di cose presente: l'insopportabilità delle condizioni di vita; e la visione di un mondo migliore che si sarebbe realizzato dopo la rivoluzione. Ebbene, non c'è niente di puramente razionale in questi due elementi. C'è anzi molta immediatezza, e scarsità di analisi. Le analisi - indispensabili - le fanno sempre i teorici; la partecipazione di massa si innesca su ben altri moventi, più concreti ed emozionali, non per questo meno validi e importanti. E a chi mi viene a dire che occorre seguire il Metodo Rivoluzionario, rispondo che finora tutti i metodi hanno fallito, visto che il comunismo è ben lontano dalla sua realizzazione, quindi smettere di indagare adesso, sarebbe sdraiarsi sugli allori (?) di un passato sempre più remoto.
Quello a cui voglio arrivare è prendere atto del fatto che, secondo un buon atteggiamento pragmatista, nessuna cosa può essere a priori giudicata indegna di essere usata al fine di suggerire una visione della vita diversa da quella che ci viene offerta quotidianamente.
Una metodologia pragmatista-blissettiana ci dice di formulare analisi, cioè ipotesi, rispetto a determinati fini, e andare a verificarle nella prassi. Commisurando risultati e fini scopriremo dove l'analisi non ha funzionato e potremo correggere il tiro. Questo è quello che Blissett sta facendo con le categorie di identità e di individuo, e con le correnti teorie della verità.
"Fin da ora vi dico che non accetterò scontri ideologici, se non con avversari che reputo veramente seri - per esempio il Papa -, ma soltanto risultati pratici. Prosit" (Luther Blissett al Terzo Festival Plagiarista, Helsinki 1995).
(1) Caso più unico che raro, mi trovo d'accordo con il cardinale Giacomo Biffi versus papa Giovanni Paolo II. Il pontefice, nel 1992 ha ufficialmente riabilitato Galileo Galilei chiedendo scusa alla comunità scientifica e sostenendo che lo scienziato pisano dovrebbe essere un esempio per la Chiesa tutta. Il cardinale Biffi ha contestato questa posizione asserendo l'ineluttabilità della condanna ecclesiastica nel XVII secolo per le teorie galileiane. Tali teorie - sostiene Biffi - minavano concretamente l'autorità della Teologia e della Chiesa: Galilei, come ogni scienziato "rivoluzionario" non poteva ottenere un trattamento diverso da quello che storicamente subì (dalla Chiesa, ma anche dagli atenei di tutta Europa). Questo ragionamento è un esempio eccezionale di lettura dialettica della storia, che farebbe invidia a qualsiasi marxista hegeliano e tuttavia contiene un elemento fondamentale di verità. La Chiesa è un'istituzione conservatrice e repressiva, nata storicamente per consentire all'autorità statale il controllo delle masse cristiane (questo io e Biffi lo sappiamo bene): un rivoluzionario che possa dirsi tale non può pretendere comprensione da parte di uno Stato Assoluto Gerocratico ad esclusione femminile quale è ancora a tutt'oggi il Vaticano.
3. IL MITO DEL SÉ
(un dialogo platonico)
IDENTITARIO: Carissimo Luther, incontrarti è sempre un piacere! Ho pensato di portarti un piccolo regalo per testimoniarti la mia stima: un quadro a olio dipinto da me.
LUTHER: Un quadro dipinto da te? Un tuo quadro? E cosa me ne faccio?
IDENTITARIO: Ma...l'ho fatto io!
LUTHER: Appunto: se l'hai fatto tu, io non so cosa farmene.
IDENTITARIO: Perdonami ma non capisco il tuo risentimento. Pensavo ti facesse piacere avere in casa qualcosa di mio; sono un pittore affermato.
LUTHER: Ascolta, caro: tu mi porti un oggetto di cui ti dichiari Autore, ovvero un qualcosa su cui eserciti artisticamente la tua Autorità. Pensa se un amico mi regalasse un cavallo che risponde solo ai suoi ordini e per il resto se ne sta fermo immobile a ruminare radicchio, non pensi che dovrei risentirmi con quell'amico?
IDENTITARIO: Certamente sì! Ma quando leggi un libro scritto da un'altra persona, quella lettura ti dà piacere.
LUTHER: È vero. E quel libro mi è utile nella misura in cui mi posso servire delle idee in esso contenute a mio piacimento. E io sono utile a quelle idee nella misura in cui permetto loro di riprodursi nel mio e in altri cervelli e di evolversi. E come sai l'evoluzione avviene spesso grazie alla distorsione, al deturnamento di organi. Così quelle idee entreranno a far parte di altre persone e saranno da loro assimilate, in modo che qualcosa di assolutamente estraneo ad esse, di non prodotto da loro, contribuirà a produrre la loro storia.
IDENTITARIO: Certo, noi ci nutriamo di idee e siamo fatti di idee. Ma non sono le idee a crearci: siamo noi a sceglierle.
LUTHER: E chi sarebbe questo qualcuno che le sceglie?
IDENTITARIO: Io, cioè la mia Personalità, che sceglie le idee che le si adattano di più e che le paiono più congeniali.
LUTHER: E chi sarà mai questa tua Personalità, se non l'insieme delle idee che infettano il tuo cervello in questo momento e che, tutte insieme, sono l'humus da cui nasce il Grande Racconto che tu chiami col nome di Io?
IDENTITARIO: Spiegati meglio, Luther, perché mi sento già preda dell'inquietudine.
LUTHER: Ci sono uccelli che costruiscono il loro nido con tutto ciò che gli capita di incontrare e che attira la loro attenzione. Questi uccelli non sanno esattamente cosa stanno facendo, semplicemente lo fanno. Lo stesso si può dire del nostro cervello, che rappresenta, e soprattutto si autorappresenta, una storia costruita come un cut-up di idee, situazioni, persone che ha incontrato. Questa storia, questo testo, siamo noi. Non c'è nessun Autore. Ad ogni occasione sono pronte varie edizioni di quel testo: ma non c'è un Editore che sceglie quale verrà data alle stampe. Una delle idee più potenti che i membri della nostra cultura ospitano è che quel testo sia il prodotto di una Coscienza, di una Volontà.
IDENTITARIO: Ma, allora, di cosa è mai il prodotto?
LUTHER: Pensa a me. Ho una biografia ben precisa, ma si può dire che essa sia stata prodotta da qualcuno? I miti e le leggende proliferano, si affermano, si diffondono. Chi può dire dove inizia la catena?
IDENTITARIO: Tu non sei certo l'esempio più calzante, poiché sei un condividuo. Ma cosa dirai degli individui come me?
LUTHER: Dirò che essi si ostinano a considerarsi individui perché la società li ha progettati in questo modo, e non saprebbe dove sbattere la testa se non potesse individuare, sempre, il responsabile di un'azione qualsiasi. Dirò che nel buddhismo la Coscienza Individuale (Vijnana) è il terzo Anello (Nidana) di una catena di 12 elementi (Paticca Samuppada) che dall'Ignoranza (Avidia) porta fino al Dolore.
IDENTITARIO: Sostieni delle idee molto pericolose, caro Luther. Se non abbiamo coscienza e non abbiamo un io, se non c'è un Autore dei nostri discorsi, così come delle nostre sofferenze e delle nostre gioie, cosa obietteremo a coloro che ci vogliono opprimere, che vogliono imporre la loro Autorità su di noi? Un mio amico che aveva idee simili alle tue e diceva che i Diritti d'Autore sono un furto, rimase molto male quando un altro scrittore si iscrisse alla S.I.A.E. con i suoi testi...
LUTHER: A chi ci vuole rubare la gioia, risponderemo che la gioia non ha padrone. Non che i padroni di quella gioia siamo noi. I sentimenti non sono qualcosa di materiale e non conoscono i confini dei corpi. Fluiscono tra loro, come l'acqua tra i massi di un torrente. E i massi la modellano, la fanno zampillare in mille modi diversi. Questo è ciò che importa: che ogni cellula del condividuo modifichi i suoi sentimenti in maniera diversa e originale. Non si può essere assolutamente originali rispetto a sé stessi: l'unico modo per esserlo è non considerarsi un Sé.
IDENTITARIO: Tu elogi la schizofrenia, come già fecero tanti sani prima di te. Ma non credo che chi ne è veramente vittima condividerebbe davvero le tue parole.
LUTHER: Sono perfettamente d'accordo con te. Lo schizofrenico è un individuo che, sentendosi minacciato dall'esterno, ritira il suo vero sé in una cella inaccessibile e mostra agli altri una o più maschere, in modo che le cose terribili che sente accadere intorno a lui non lo tocchino realmente. La schizofrenia è il risultato della difesa più accanita del proprio sé da parte di un individuo. Ma la difesa non è l'avere più Sé in uno stesso corpo, bensì più corpi in uno stesso Sé.
IDENTITARIO: Insomma, il Partito Massa...
LUTHER: No, tutt'altro. Perché nel Partito-Massa tutti i corpi devono catalizzare le stesse idee. Nel condividuo i corpi sono altrettanti centri di elaborazione dati, di creazione di idee e sentimenti. Come gli scogli nel torrente, dicevamo... Con la differenza che gli scogli sono passivi, immobili. I corpi invece non attendono l'arrivo delle idee come si trattasse di una grazia celeste, ma causano la corrente come i massi che franano in un lago artificiale.
IDENTITARIO: E cosa bisogna fare per diventare condividui?
LUTHER: Basta rinunciare alla propria identità, con tutti i vantaggi che questo comporta. Tuffati nell'onda dei sentimenti di rabbia e gioia che senti fluire intorno a te, rielaborala, senza apporre il tuo marchio, la tua firma. Perché di un lavoro firmato i tuoi simili non sanno che farsene: è qualcosa di finito, di cui tu hai decretato la fine e a cui nessuno potrà aggiungere nulla di nuovo. La non identità del condividuo va di pari passo con l'incompletezza.
LUTHER: È stata una conversazione molto proficua, caro Luther. E, non da ultimo, mi hai convinto...
LUTHER: Dirai meglio: mi sono convinto!
4. IL MITO DELLA STORIA
"È un po' come perder tempo a vivere"
Vasco Rossi
La Storia e la storia
La Storia non è mai altro che una storia. L'idea assolutista che la Storia sia Verità (che esista una verità storica inappellabile e perfettamente conoscibile) è minata oggettivamente dal fatto che ogni epoca ha riscritto da capo il passato ad uso e consumo del proprio presente. Basti pensare ad esempio a quale ribaltamento di giudizio ha subito nel tempo un periodo importantissimo come il Medioevo: gli illuministi lo considerarono l'era dell'oscurantismo, una specie di parentesi nera da dimenticare; pochi decenni dopo, i romantici ne riscoprirono molti aspetti, esaltandolo come regno dell'immaginazione, del folklore, della passione, del gotico, ecc.
La storia deve essere riscritta da ogni nuova generazione, perché, se il passato non cambia, è il presente che muta; ogni generazione rivolge al passato domande diverse, e nel rivivere aspetti diversi delle esperienze dei suoi predecessori, scopre di avere con esse nuovi punti in comune.
Christopher Hill
La ricostruzione storica spacciata per verità tiene già in sé ogni assolutismo. Lo storico, si sente dire da più parti, è un detective che cerca indizi in base ai quali ricostruire fatti e situazioni. È così nella misura in cui Nathan Adler non potrà mai essere assolutamente certo della sua induzione finale, perché lui non era lì, è stato ingaggiato a fatto compiuto, e anche se fosse stato presente non è detto che il suo punto di vista avrebbe confermato quello di tutti gli altri testimoni (Rashomon docet).
La Storia è appunto una storia, è la ricostruzione di un
plot, di un ambiente, di una trama parziale; è accostamento
di indizi, di frammenti che sembrano confermare o confutare ipotesi, sulla
base di esigenze presenti, attuali e mai eterne od obiettive. Non verità
quindi, ma verosimiglianza.
Del resto, i movimenti rivoluzionari per primi si sono avvalsi di una rilettura
arbitraria delle epoche storiche, finalizzata a centrare le scommesse sul
presente.
La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di "attualità" [Jetztzeit]. Così, per Robespierre, la Roma antica era un passato carico di attualità, che egli faceva schizzare dalla continuità della storia. La Rivoluzione francese s'intendeva come una Roma ritornata. [...] Ma questo balzo [nel passato] ha luogo in un'arena dove comanda la classe dominante. Lo stesso balzo, sotto il cielo libero della storia, è quello dialettico, come Marx ha inteso la rivoluzione.
Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia
La lotta sul terreno della storia è affascinante e probabilmente indispensabile per sovvertire il mondo e la Storia del mondo, per impedire che i balzi siano gestiti dall'alto. Ecco perché il "materialista storico" non può commettere l'errore di cercare di difendere una Storia, una e una sola inappellabile Versione Ufficiale. Sarebbe ancora condurre la lotta dall'interno di una concezione monoteistica del mondo e della vita.
Resurrectio mortuorum
La difesa a oltranza della Memoria Storica è l'altare su cui officia ancora il cristianesimo, è la pretesa di cristallizzazione del passato, a cui corrisponde la morte nel presente.
La missione che Cristo affida agli Apostoli è quella di andare per il mondo a testimoniare la venuta di Dio sulla terra e il suo imminente ritorno per saldare tutti i debiti della Storia. La Verità è stata data, è stata consegnata loro da Dio in persona: non c'è più nulla da aggiungere, la Storia ha finalmente un/una Fine e un Verso, cioè una Versione.
Il memorismo, questo lucidare lapidi, che conserva intatta l'idea cristiana del martirio (testimonianza, appunto, di verità), questo "imbellettare i morti", tutti ben disposti nelle loro tombe, trova la sua ragione d'essere nella lotta spettacolare contro il tentativo revisionista di imboscare degli indizi, o di trarre da essi una nuova trama. È lo scontro per il possesso dei cadaveri, delle spoglie. È la vita dirottata sulla morte. È la crociata per la "giusta" interpretazione delle Sacre Scritture, per il monopolio della Versione Ufficiale.
Ogni rilettura della storia, abbiamo detto, è strumentale, la verità è quella del nostro contesto spazio-temporale, gioco linguistico, Network, Gemeinwesen che dir si voglia. Chi si è sgravato dal senso di responsabilità nei confronti del (povero) Cristo morto per noi - morto al posto nostro, per lasciarci vivi, liberi di agire -, non è più disposto a subire il ricatto della Memoria. Egli accetta l'apertura della Storia e la possibilità delle sue infinite riscrizioni. Questo non implica che ossequierà lo Scriba Ufficiale di turno o che cancellerà i suoi oppositori dalle fotografie. Egli è un detective, ed è anche bravo nel suo mestiere. Ma pretenderà di usare la storia, di interagire col passato senza imporre ad esso alcuna sacralità, di aggiungersi nelle fotografie (in basso a destra con dei baffi posticci). Lo Spirito Libero ha raccolto la massima di Cristo: "Lasciate che i morti seppelliscano i morti"; per lui evocare i morti non significa mettere in fila le bare (il Nuovo Testamento comincia con un elenco cronologico di defunti, la genealogia di Cristo) finalizzando momenti di vita alla commemorazione, bensì portarli fuori dalle tombe, spezzare le lapidi con gli epitaffi scritti sopra, profanare i sepolcri, e trascinare gli spettri sulle barricate del presente. È il presente stesso che si dilata nello spazio-tempo e chiama su di sé e per sé le vite di Giovanni di Leida e di Giovanni di Patmos, di Spartaco e di Jacques de Molay, di Frank Zappa e del capitano Henry Morgan.
Lo Spirito Libero (il "materialista storico") è il tombarolo per antonomasia.
Lo Spirito Libero è colui che ha abbandonato il Calvario della Memoria di gran fretta, dopo aver vinto una tunica ai dadi. Quelli truccati che aveva portato da casa.
Apocapitalismo e Fine della Storia
"La fede guarda da una fine che potrebbe non venire."
Sergio Quinzio
"Tanto han gridato all'apocalisse che essa non verrà. E anche se venisse, del resto, ci vorrebbe del bello e del buono a distinguerla dalla sorte quotidiana riservata all'individuo come alla comunità."
Raoul Vaneigem
L'Apocalisse non è altro che la quotidianità. È la sospensione della vita nell'attesa della morte (di uno sparo, di una coltellata, di un tir, dell'HIV, dell'ecocataclisma o anche della vecchiaia). L'Apocalisse è il regime della sopravvivenza a cui la maggior parte del mondo è condannata. Apocalisse: rivelazione dall'alto, fine della Storia, atto impositivo di un Dio che trascende il nostro mondo e la nostra volontà. L'Apocalisse non è nient'altro che la vita nella società (apo)capitalistica. Essa non verrà mai perché è già presente. Un presente vuoto, che vive di nulla, anzi che non ha niente a che fare con la vita e si regge sul ricatto economico.
La tradizione degli oppressi ci insegna che lo "stato di emergenza" in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono "ancora" possibili nel ventesimo secolo è tutt'altro che filosofico. Non è all'inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l'idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.
Walter Benjamin, op. cit.
Il fascismo, la strategia del terrore, l'economia... sono apocalittici. Perciò il presente messianico, il vero stato di emergenza, non può che corrispondere all'accelerazione dell'Ipocalisse, della rivelazione dal basso, in cui l'alienazione e la noia diffuse vengono fatte retroagire e trasformate nella carica di dinamite vitale che fa "saltare il continuum della storia" (W. Benjamin).
L'apocalittico, schiavo di una visione lineare della Storia (di una Versione Ufficiale), vive nella sospensione del regime di sopravvivenza - nell'angoscia della morte (la sua e quella del mondo) -, nella paura della fine. Il sistema di produzione apocapitalistico si regge interamente su questa paura, sul panico della perdita del poco, sulla riduzione di ogni singolo a sentinella della propria morte.
L'ipocalittico invece punta molto o tutto, gioca con la fine del mondo, flirta con essa, scommette (sul)la propria vita, facendola detonare nella fine di questo mondo. E non c'è strategia del terrore che tenga, poiché l'ipocalittico ha smesso di avere paura della paura e fa surf sulla cresta dell'Ultima Onda, affermando così la sua categorica non-ricattabilità.
Lo Spirito Libero, il materialista storico, l'ipocalittico, il surfista sono Cristo che dice: "Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori" (Matteo 9, 13). Se nemmeno a Dio interessano i "puri", la gente onesta e pulita, i santi e gli eroi, perché dovrebbero interessare all'ipocalittico? Perché dovrebbe cercare di perseguire una presunta purezza, tanto cara al francescanesimo (questo sindacalismo dell'eresia), all'anarchismo, al fascismo e alle sotto-sette di piazza? Per che cosa? Per mantenersi pulita la fedina morale in vista dell'Ultimo Giorno?
La rivoluzione non è un pranzo di gala. L'Ipocalisse viene appunto dal basso, dalla sentina della società, è una contaminazione letale che non prevede bei gesti di testimonianza o di categorica affermazione del proprio Io-Sé, ma richiede di sporcarsi le mani e di camminare per la strada, di usare i dadi truccati, di insinuare con ogni mezzo l'incertezza nei templi del potere. È il brainstorm di un milione di menti, l'acme della Guerra Psichica. Ma non l'apocalittica perenne Attesa del Momento Opportuno, bensì una lenta virale infiltrazione che porta il cancro nel sistema. L'attesa, la testimonianza (il martirio), la Resistenza, hanno senso solo nella prospettiva di un Avvento (il Secondo Sabato). Ma la Parusia c'è già stata, non c'è più niente e nessuno da aspettare. Non verrà mai nessuno. Non ci sarà alcuno Scontro Finale dentro o fuori dalla storia.
Cristo aveva promesso di tornare in capo a una generazione e non ha mantenuto la parola. Forse perché non c'era niente da mantenere: siamo noi la parusia, la parusia con noi stessi, la comunità umana. E giunti a questo punto non possiamo nemmeno più dirci eretici, poiché non si tratta più di una scelta: Hic Rhodas hic saltat! È questione di vita o di morte. Sottostare ancora per un giorno al regime dell'Apocalisse (l'Economia) e alla visione della vita e della storia che essa ci impone è un prezzo che non possiamo più pagare, a meno di non volerci condannare a una mummificazione prematura.
"Nessuno risale più addietro del suo presente. Mai nessuna epoca ha meglio propagato, pur annebbiandola con inevitabili confusioni, la sensazione che tutto si giochi adesso."
Raoul Vaneigem