11. "squatters"

 

1) Le bombe, qualsiasi tipo di bomba, appartengono concretamente e culturalmente ai conservatori dell'apparato politico vigente.
2) Il terrorismo non proviene da deviazioni ideologiche volte a destabilizzare, bensì è progettato in maniera quasi-scientifica per stabilizzare e rafforzare l'Ordine costituito.
3) Lo stato, anzi i reggenti lo stato utilizzano come prima arma l'informazione [...] Il possesso anche azionario delle maggiori testate giornalistiche e televisive dei soliti poteri e famiglie rivela la simbiosi potere economico-potere politico- potere informativo mediatico.
4) Il metodo usato dai parassiti dello stato è sempre lo stesso, è legge che va sempre bene in qualsiasi situazione geografica o temporale, cambiano solo gli uomini utilizzati.
5) È importantissimo sottolineare che un movimento politico nazional-rivoluzionario-ricostruttivo come Forza Nuova deve sempre denunziare questi fatti,anche se, come in questo caso non ci toccano in prima persona.
Sappiamo benissimo infatti che le attenzioni di questi apparati per nulla deviati ma totalmente coerenti alla loro funzione, sarà sempre rivolta a noi. Se non lo fosse dovremmo iniziare a preoccuparci: sarebbe il pericoloso sintomo di contiguità o nella migliore delle ipotesi di indifferenza dettata da totale sicurezza del Sistema.
Proprio per questi motivi non ci deve interessare se ad essere infamato è il Tortora, Renato Zero, un Veneto Bifolco della Serenissima, o un compagno che magari la settimana scorsa ci ha rotto la testa.
L'importante per noi, lealmente e veramente rivoluzionari sarà il dover focalizzare il Nemico e poi scinderlo in due parti: la testa e il resto del corpo. Quello che crea il Male è il cervello.
È lì che noi dobbiamo scontrarci. Se continueremo a fottercene fra un po', chissà magari anche domani, avremo anche noi una Sole e un Baleno. (Forza Nuova, Pacchi & compagni, comunicato datato 8/8/1998)

Con questo comunicato, il gruppo neo-fascista Forza Nuova ha espresso la propria solidarietà sui generis ai cosiddetti "squatters"[1]. Riteniamo in gran parte sottoscrivibile l'argomentazione di questo stralcio, malgrado l'ambiente da cui proviene. E proprio una considerazione sui milieux ideologici si rende necessaria per introdurre questo capitolo: nel corso della nostra trattazione abbiamo più volte denunciato l'uso strumentale dell'antifascismo per far passare leggi liberticide, sperimentare nuove tecniche processuali e/o introdurre nuovi reati associativi e d'opinione. Pur disprezzando i fascisti d'ogni specie, di ieri e di oggi, ci è sempre sembrata una scelta ovvia denunciare le montature ai loro danni. Anche parlando di Mani Pulite, non abbiamo mai confuso la difesa degli inquisiti con qualsivoglia solidarietà politica. Tale premessa vale anche per i cosiddetti "squatters" (torinesi e di altre città), dai quali ci riteniamo sideralmente distanti.
Come scrissero gli "amici dell'Internazionale Situazionista" nel volantino Il Reichstag brucia? del 19/12/1969, "gli anarchici, in effetti, offrono i migliori requisiti per le esigenze del potere: immagine staccata e ideologica del movimento reale, il loro "estremismo" spettacolare permette di colpire l'estremismo reale del movimento".
Troviamo la stessa ipotesi, ulteriormente sviluppata, nel celeberrimo libro-controinchiesta La strage di Stato:

Ma perché si scelgono proprio gli anarchici? [...] Innanzitutto gli anarchici rappresentano la parte più debole dello schieramento di sinistra, perché priva di protezione, senza amici, di fatto isolata politicamente. Inoltre sono pressoché privi di organizzazione, e seguaci di una teoria politica articolata in varie tendenze, alcune delle quali sono spesso indefinibili o mal definite: due caratteristiche che permettono ogni tentativo di infiltrazione e di provocazione al loro interno. (E.M. Di Giovanni, Marco Ligini e altri, La strage di Stato, Avvenimenti, Roma 1993, p.22)

Oggi le cose sono più complesse: i cosiddetti "squatters" sono l'estrema perversione, il feedback assoluto del represso sul repressore e soprattutto del diffamato sul diffamatore. Rappresentano una patologia ideologica che andrebbe studiata come una variante della "sindrome di Stoccolma" (l'amore del rapito per il proprio sequestratore). Ci troviamo di fronte all'autogestione dell'emergenza da parte degli stessi capri espiatori.
Lo "squatter" fa di tutto per corrispondere agli stereotipi demonizzanti dei media. Quindi, è un "nemico pubblico" comodo e funzionale: per polizie e giornalisti è manna piovuta dal cielo (anche perché è un perpetuo ri/produttore di guerra tra poveri. La sua retorica consiste nell'attaccare tutte le altre soggettività autogestionarie o "di movimento" definendole "corrotte", "vendute", "bottegaie", "funzionali al potere", "serve dello stato"...) È finalmente "risolto" il problema della discrepanza tra come i movimenti si autorappresentano e come i media distorcono quell'immagine: quando si tratta degli "squatters" la discrepanza è minima, quasi impercettibile.
Lo "squatter", assetato di protagonismo/vittimismo, pretende, esige di essere fatto martire e capro espiatorio, misura la propria "sovversività" sulla quantità di repressione che gli viene rovesciata addosso, fino allo snobismo blasé:

...gli spazi occupati... lo Stato può militarmente toglierceli quando vuole (con quel che potrebbe seguire) o lasciarci perdere. Ce li siamo presi, ce li terremo con la forza, e con la forza ce li leveranno quando gli converrà. Punto. [...] non siamo qui con lo scopo di durare per sempre come cariatidi religiose o faro delle masse oppresse [...] Adesso arriveranno perquisizioni nelle case e nei posti occupati, sequestri degli onnipresenti manuali da bombarolo (sì, sono in libera vendita, per non parlare di Internet), volantini, lettere e giornali, intensificheranno pedinamenti e intercettazioni, ripartiranno sui giornali le liasons [sic] con ogni e possibile [sic] fatto criminoso e anarchico italico e straniero, insomma, la solita trafila [...] Sapete, in fondo è la solita storiella, noi da una parte e loro dall'altra, come sempre, come tutti i giorni, anche senza prime pagine... (El Paso Occupato, ...E un pacco a Cavaliere..., <http://www.ecn.org/lists/movimento/>, 24/7/1998)

In frasi come questa risuona alta la nota del "tenetemi sennò l'ammazzo", esortazione proferita quando si è ragionevolmente certi che sarà l'avversario ad essere trattenuto.
È chiaro che tale disincanto sbruffonesco ("Di che vi scandalizzate? È la solita trafila!") rende impossibile qualunque campagna contro le montature giudiziarie e le provocazioni in cui gli anarco-insurrezionalisti vengono regolarmente coinvolti o si coinvolgono da soli. Provate a dar loro solidarietà contro i Pm che li incarcerano e i media che li calunniano: inveiranno contro di voi prendendo le distanze dai "paraculo" e dagli "innocentisti", le cui azioni sono sono "il solito utile appoggio all'opera della polizia" (Ibidem). Non date loro solidarietà: vi accuseranno di essere "complici" della repressione. La nostra tesi è che i veri complici siano loro.
Vere o no che fossero, non valgono più certe critiche fatte agli autonomi romani di via dei Volsci:

...nei "Volsci" si trattava di essere (come dire?) "peggio ancora di tutto", più sgrammaticati e più sguaiati, più violenti (a parole, naturalmente) e più odiosi e odiati che fosse possibile. Che poi la polizia e tutto l'apparato repressivo usasse splendidamente quest'atteggiamento punk per ottenere consenso sociale alla più spietata e violenta repressione, questo è un altro discorso che gli autonomi del '77 non riuscirono neppure lontanamente a comprendere. (Raul Mordenti, Frammenti di un discorso politico: il '68, il '77, l'89, Essedue Edizioni, Verona 1989, p.103)

Sono passati vent'anni, l'emergenza è stata interiorizzata e lo "squatter" non può essere tacciato di alcuna ingenuità: sa benissimo quali sono le conseguenze del suo nichilismo, anzi fa del proprio peggio per provocare la repressione. Si comporta così perché ha orrore di ogni vittoria parziale, perché le vittorie parziali implicano qualche compromesso, e soprattutto responsabilizzano. Lo "squatter" teme ogni concreta manifestazione di strategia e di "arte della guerra" perché preferisce crogiolarsi nel no future capitalistico, nell'eterno presente che deresponsabilizza.
Rispetto agli anni '70, c'è un passaggio di meno:

In tutta l'operazione repressiva l'aspetto di guerra psicologica è più importante della repressione immediata. Sarà proprio questo aspetto a rendere possibile in seguito una repressione generalizzata. Col [blitz del] 21 Dicembre [1979] si intimidano migliaia di compagni e li si informa che fra di loro c'erano degli assassini, dei traditori e dei fratricidi, dei delatori, dei venduti e dei dementi, e che questa è l'essenza stessa di tutto ciò che loro hanno fatto, violenza bruta, cieca, omicida, appena giustificata da ideologie deliranti. (Proletari, se voi sapeste..., cit., p. 20)

Gli "squatters" fanno risparmiare tempo allo stato, facendosi da soli (e facendo a tutto il movimento delle occupazioni) la guerra psicologica: "Sì, siamo dementi e deliranti, la nostra è violenza bruta e cieca". Gli "squatters" sono a tutti gli effetti co-gestori dell'emergenza. Non bisognerebbe mai confondere la denuncia delle montature ai loro danni con la solidarietà nei loro confronti, perché in questo modo si occulterebbe la dialettica che li incatena anima e corpo ai loro carnefici.
Proprio per questo, ospitiamo la ricostruzione degli eventi torinesi che, nel 1998, hanno portato gli "squatters" alla ribalta/gogna mediatica nazionale. Il testo è stato scritto a caldo dalla colonna torinese del Luther Blissett Project, e oltre a mantenere l'equilibrio di cui sopra, rende mirabilmente conto di come si costruisca dal nulla un'emergenza, col contributo di buona parte delle forze sociali

 

Una città sull'orlo di una crisi di nervi
(Luther Blissett Project Torino, febbraio-aprile 1998)

 

Una guerra civile virtuale
Se Baudrillard aveva definito la guerra del Golfo una guerra virtuale, in piccolo possiamo definire la vicenda torinese che va sotto il nome di "problema squatter" una guerra civile virtuale. Ovviamente virtuale perché non è mai esistita nei termini in cui è stata presentata. Non che non sia successo nulla: tutto è partito da un fatto atroce, il suicidio in carcere di Edoardo Massari, anarchico fatto arrestare dal Magistrato Laudi e accusato di essere un "eco-terrorista".
Alcune date che scandiscono questa vicenda:
27 febbraio: al termine del concerto dei 99 Posse alla Lega dei Furiosi [2], cinquecento autonomi sfilano per le vie del centro chiedendo la liberazione di Salvatore Ricciardi e dei detenuti politici degli anni '70. Il corteo non è autorizzato e via Po si riempie di scritte.
5 marzo: operazione dei Ros, che sgomberano tre case occupate e arrestano tre anarchici (Edoardo Massari, Maria Soledad Rosas e Silvano Pellissero) accusati di aver messo delle bombe contro l'Alta Velocità in Valle di Susa [3].
6 marzo: presidio in centro contro lo sgombero delle case (prima apparizione degli squatter come "nemico pubblico numero uno"), scontri con la polizia, vengono infrante diverse vetrine e sette manifestanti vengono fermati ma poco dopo rilasciati.
28 marzo: si uccide in carcere Edoardo Massari, dopo che il giorno precedente il Tribunale per la Libertà ne aveva confermato l'arresto. Corteo in centro.
3 aprile: funerale di Massari a Brosso, paesino del Canavese. Viene consentito di partecipare anche a Maria Soledad Rosas, fidanzata argentina di Massari, ancora agli arresti. Sette giornalisti vengono assaliti e picchiati e uno di questi finisce in ospedale con gravi lesioni.
4 aprile: corteo nazionale di oltre cinquemila persone a Torino. Infranti i vetri del Palazzo di Giustizia.
6 aprile: il sindaco Castellani ritira la delega all'assessore Alberione (di Rifondazione Comunista) che ha partecipato al corteo, dopo la presa di posizione dei commercianti e de "La Stampa".
11 aprile: la crisi di Giunta rientra.
Questi i fatti essenziali, tra cui molti meno rilevanti: cortei, prese di posizione, tensioni, articoli e servizi televisivi. L'evento è stato creato dal poco ed è stato in grado di far interagire tutti gli attori di questo rapporto sociale, consolidando identità prima deboli, cristallizzandole in azioni eseguite come da copione. I carabinieri cattivi che pisciano sui materassi dei centri sgomberati, la polizia brava che fa svolgere il corteo, la Giunta Comunale che vuol dialogare, la Giunta Comunale ricattata dai commercianti, la Giunta Comunale ricattata da Rifondazione Comunista, la Giunta Comunale che punisce chi sbaglia, la destra che chiede ordine e polizia, i commercianti che difenderanno i loro negozi coi bastoni, il prete che vuole dialogare nella legalità, gli intellettuali che spiegano, i giornalisti avvoltoi, i giornalisti vittime, gli anarchici che "sono sempre bastonati, dal clero e dallo Stato". Tutti nel loro ruolo, nel gioco di ruolo a beneficio dei media, per amplificare paure e tensioni molto reali, drammatizzandole, concretizzandole nello stesso momento in cui le rendono virtuali, pure immagini. Una grande paura che rinvigorisce gli spiriti, una "grande esperienza" in attesa della prossima.
In questo grande gioco, Edoardo Massari invece è morto realmente.
Torino però non è mai stata nel marzo-aprile 1998 sull'orlo della guerra civile, non siamo tornati indietro negli anni Settanta, nessun clima cupo, la gente continuava a girare per strada, chiedendosi certo cosa stava succedendo.
La parola "squatter" ha sostituito nel nostro immaginario "somatostatina", esattamente come questa aveva sostituito c'è crisi, c'è molta crisi, oppure ho vinto quacchecosa? Pronta ad essere dimenticata. Parole mediatizzate dalla vita breve.

Una città che vive sull'orlo di una crisi di nervi
Torino è una città che attraversa la crisi che segna la fine della città-fabbrica fordista in senso classico, crisi che la proietta verso un limbo indefinito, costringendola a cercare nuove identità. La fine della città-fabbrica segna anche la fine del soggetto che l'aveva egemonizzata: la classe operaia Fiat sconfitta nell'ottobre 1980 e le sue organizzazioni storiche. Emergono nuove figure che andranno a sostituirla sul palcoscenico civico e sociale: prima i quadri-Fiat, quelli della "marcia dei 40.000" e dell'Associazione Quadri di Arisio, più tardi i commercianti dell'Ascom, l'Associazione Commercianti guidata da De Maria, e poi i Comitati Spontanei [4].
La città in crisi significa soprattutto la rottura del legame sociale, l'atomizzazione, la frammentazione, la distruzione degli ultimi elementi di culture autonome nella città, la fine della differenziazione spaziale cittadina per come si era consolidata negli ultimi ottant'anni e più, la fine delle cinture operaie, delle barriere operaie. La crisi della rappresentanza, del ruolo dei partiti e del sindacato.
D'altra parte a Torino non si assiste all'esplosione del lavoro autonomo di seconda generazione, Torino non ha il fascino del bacino di lavoro immateriale che hanno altre metropoli.
Emerge una grossa paura come frutto della crisi e dell'isolamento. L'interruzione della comunicazione sociale ha come frutto la "balcanizzazione" della città: ogni quartiere, ogni fetta di quartiere, ogni isolato ragiona all'interno di logiche difensive, vivendo una condizione di "stato d'assedio" continuo e virtuale, una sindrome di invasione e di impoverimento costante che genera il "rancore come forma politica di massa" così ben descritta da Aldo Bonomi.
Assistiamo così non alla fuga dalla città, ma ad un costante allontanamento dalla città: non più centro unico produttivo, non più capace di attrarre, di affascinare: la città perde la sua egemonia, non è più il luogo della possibilità, della libertà, della circolazione delle idee, diventa il luogo del disagio, la città "sporca", crogiolo di disordine. La provincia prende la sua rivincita.
Prevale la paura. E negli ultimi anni la politica torinese ha vissuto di queste paure.
Farne l'elenco a partire dal 1993 ghiaccia il sangue nelle vene: gli immigrati di San Salvario [5] (a più riprese), i tossici e gli spacciatori di San Salvario, dei Murazzi del Po (ogni estate), Piazza Carlo Felice [6], Porta Palazzo (immigrazione e spaccio), le prostitute della Pellerina, i bidellli "tossici" delle Cooperative B nelle scuole elementari, i violentatori del Parco del Valentino, i barboni di Santa Rita [7], quelli di via Roma e Piazza Castello, i venditori abusivi alla sera in Piazza Castello, i lavavetri, gli squatter.
Nessun'altra città è riuscita a crearsi una tale quantità di capri espiatori in così pochi anni.
Una città che sembra riuscire a tenersi insieme solo in un clima d'emergenza, da invasione o guerra civile simulata. Il laboratorio, il precedente sembra essere stato la Torino "assediata" dal terrorismo, alla fine degli anni Settanta, quella del processo alle Br, dell'omicidio Casalegno, di Peci. È quel clima che si replica.
Guerre civili simulate che lasciano a terra delle vittime. In piena campagna, artificialmente creata, sull'emergenza immigrazione a San Salvario, viene ucciso un orefice durante una rapina: sono arrestati due tossicodipendenti italiani (immaginiamoci cosa sarebbe successo in quel clima se gli assassini fossero stati due immigrati!); ai Murazzi del Po prima muore un immigrato, annegando nel fiume dopo essere stato ammanettato dalle forze dell'ordine, intervenute in una rissa tra immigrati e buttafuori dei locali; l'anno dopo muore annegato un altro immigrato, mentre un gruppo di italiani gli impedisce di raggiungere la riva e salvarsi. Questa volte a morire è stato Edoardo Massari, anarchico, uccisosi in carcere.

Siamo tutti controllati?
Di tutta la vicenda la cosa che colpisce (ovviamente al di là della morte di Massari) è l'armamentario che si mette in piedi per un'inchiesta per danni provocati da ordigni rudimentali [8]. Cimici (come si usa dire) sulle macchine, intercettazioni telefoniche e ambientali, forse infiltrati. È possibile che per una qualunque inchiesta, che non si riferisce neanche a fatti contro la persona, neppure una rapina, tanto meno un omicidio, si possano usare metodi di spionaggio simili? È indecente l'uso di queste tecnologie di spionaggio, è indecente pensare che un poliziotto possa ascoltare le conversazioni con la mia fidanzata perché un magistrato sospetta che la simpatizzante squatter che vive con me possa lasciarsi scappare un giorno, tra un ciappetto e l'altro, una succulenta informazione.

Intellettuali cittadini: Vattimo, Gallino, Revelli, Don Ciotti
Torino è certo una città intellettualmente illustre: Gramsci e Gobetti prima, Einaudi, Bobbio e Galante Garrone poi. Oggi a fare opinione ci sono il filosofo Gianni Vattimo, il sociologo Luciano Gallino, Don Luigi Ciotti (che raccoglie l'eredità tutta torinese dei Don Bosco e dei Cottolengo), il sociologo Marco Revelli, lo storico Nicola Tranfaglia, il giornalista Gad Lerner (se escludiamo Alba Parietti e Piero Chiambretti).
L'intervento più significativo è quello di Luciano Gallino, sociologo di primo livello. Un suo commento sulla prima pagina de "La Stampa" del 7 marzo, il giorno dopo gli arresti degli "eco-terroristi" e delle vetrine rotte, dal titolo "Non basta reprimere". Dice Gallino che dobbiamo fare i conti con "l'Europa dei casseurs", cercando di "Capirli, di conoscerli meglio e di discutere con loro che cosa vorrebbero per non finire totalmente isolati. Spaccando le vetrine vogliono dire qualcosa Gli autonomi sono una costellazione di tipi sociali svariatissimi, che agiscono in modo simile per motivi differenti, o in modo diverso per la medesima ragione". Cosa consiglia? "Capirli e conoscerli non può essere il compito di poliziotti, di assistenti sociali e nemmeno di sociologi di campagna. Dovrebbe essere semmai qualcuno di loro o che con loro è vissuto a lungo, ad assumere il ruolo di mediatore non politico, ma culturale." Il suo intervento è imprevisto e inauditamente positivo per i contenuti. Ma poi Gallino sparisce e sale in scena Vattimo e qui il tono cambia.
Vattimo parla della scelta di Massari come di "una scelta di vita eticamente più coerente e profonda di quanto io non pensassi" però conferma che il "tratto dominante della mentalità dei giovani alternativi che devastano le nostre città" sia sempre la "fragilità e il vuoto culturale". Dopo pochi giorni cambia di nuovo opinione. È stato insultato nel suo studio all'Università ed è stato indicato quale "assassino" di Massari (insieme a tanti altri) nel manifesto di convocazione della manifestazione nazionale del 4 aprile. Il giorno dopo scrive l'editoriale de "La Stampa" dal titolo "Non c'è molto da capire". Dopo aver ascoltato Radio Black-Out dice che sono gli altri a non volere il dialogo e che è "meglio dichiarare che non c'è gran che da capire. La loro cultura, quando riesce ad esprimersi in discorsi articolati e non solo in urli e insulti, è per l'appunto anche la nostra. Quella scritta nei libri che noi servi del potere cerchiamo di far leggere a tanti riottosi studenti alternativi, i quali però preferiscono nutrirsi di techno e fanzine. Che preferiscono farsi rincretinire da quella ideologia del consumo che poi calunniano alla loro radio e da cui vorrebbero liberarsi, invece che leggendo, spaccando vetrine e devastando città". Insomma: Vattimo ha l'idea fissa che gli "alternativi" devastino le città. Perlomeno un po' eccessivo. Si legge nelle sue parole una difesa un po' vetero del sapere libresco, una sorta di difesa dell'accademia. Qualcosa di utile però c'è: la critica al linguaggio rozzo di radio Black-Out ci sta: la propensione per il facile insulto, l'ironia forzata (e a volte macabra), il facile estremismo verbale che il mezzo radiofonico amplifica in un delirio di onnipotenza mediatica che permette nell'anonimato di lanciare strali e minacce a destra e a manca. Radio Black-Out come una moderna variante delle lettere anonime di minaccia di Capitan Swing nelle campagne inglesi ottocentesche, studiate da Hobsbawn e Rudé? Perché no? Il paragone regge come regge quello tra le paure di Torino e la Grande Paura del 1789 studiata da Léfebvre.

Radio Black Out
Nuova Radio Alice, Radio Black-Out o radio squat, sfonda a livello nazionale. Tutti dichiarano di ascoltarla, per capire. Impossibile parlare agli squatter, almeno li ascoltano. Blobbata su Tg3 e magazine vari. Nessuna seria analisi sul linguaggio (stavolta Umberto Eco tace). Colpisce l'opinione pubblica la lista di insulti e minacce, nessuna riflessione più profonda. Forse non è così facile farne.
Di certo l'area dei centri sociali e degli squat tende ad utilizzare questo spazio di comunicazione indipendente. Silenzio stampa con i giornalisti, specialmente dopo i fatti di Brosso. Si parla solo con chi è sulla tua lunghezza d'onda, letteralmente.
Radio Black-Out paga il limite e la potenza del mezzo: se hai una radio non puoi stare zitto, devi per forza dire qualcosa, con il rischio di dire cazzate. Un manifesto puoi pensarlo un giorno intero, così un volantino. Non così una trasmissione, specialmente se ti arriva in diretta una notizia come il suicidio di un tuo amico.
Una nota curiosa: i media "spettacolari" sono una merda e con loro non si parla, però li si ascolta, e se si riconosce la propria voce si è contenti. È come dopo un corteo quando lo sport più in voga è guardare su Tg e foto sui giornali se ti riconosci!

Caccia al direttore responsabile
Il direttore responsabile del radiogiornale di una radio è ovviamente pubblico, basta cercarlo nell'apposito modulo dell'apposito ufficio. Invece sembra essere una grossa scoperta, come se costui (che non ha mai messo il piede in radio peraltro) si fosse nascosto per anni. Ovviamente a nessuno prima era venuto in mente di cercarlo. Scandalo! È un dipendente pubblico, lavora in Provincia, ne è addirittura il capo ufficio stampa. Iniziano le pressioni da parte dell'ordine dei giornalisti, della stampa e della magistratura. Lui rilascia dichiarazioni pubbliche da buon democratico (ex-Lotta Continua), ma prende le distanze.
Di questa vicenda la questione assurda è che il fatto che costui sia dipendente pubblico è vissuto come un tradimento: chi lavora per le istituzioni non può "tradirle" permettendo a degli esclusi, ai "nemici" di questa società di esprimersi. E c'è chi pensa di licenziarlo, di sospenderlo dall'ordine dei giornalisti, di incriminarlo: in pratica di rovinarlo e spaventarlo. Come piccolo esempio pubblico.

Radio Black Out: contro la libertà di stampa - Ghiglia e la stampa
Radio Black-Out nasce nel 1992. Nello stesso anno aprono altre due radio, una a Milano (Radio Onda Diretta) e una a Bologna (Radio K Centrale). Tengono compagnia ad altre emittenti di "movimento" sopravvissute agli anni '70: Radio Onda Rossa di Roma, Radio Sherwood di Padova, Radio Onda d'Urto di Brescia. Radio diverse tra loro, di cui poco ci si è occupati. A Torino ne parlano solo ogni tanto i giornalisti musicali: Alberto Campo su "Repubblica" e Gabriele Ferraris sulla pagina degli spettacoli de "La Stampa". Il Comune finanzia addirittura le sue feste annuali. Tutto bene quindi. Fino al marzo '98.
Agostino Ghiglia (consigliere regionale e comunale di An, per inciso è stato in galera per aver picchiato uno studente del Liceo Volta e ne è uscito dopo aver chiesto scusa, ci sono ancora in giro le scritte "Ago infame" per le scuse) chiede con un'interpellanza un controllo da parte dell'Escopost (la polizia dell'etere) sulla legalità della radio. Peccato che l'Escopost sia di casa a Radio Black-Out (che ha da alcuni mesi un contenzioso con i Ros dei carabinieri per un documento riservato dell'inchiesta Marini che ha reso pubblico). Finirebbe tutto lì se Radio Black-Out non fosse diventata la radio più famosa d'Italia, radio squat, riblobbata su Tg nazionali, Radiorai, programmi sul "disagio giovanile". Ma soprattutto la radio dai cui microfoni è stato urlato "Giornalisti assassini", "Magistrati macellai", e altre rozzezze simili, giocattolo di quel gioco di simulazione che i redattori di Radio Black-Out sono stati contenti di giocare appieno, vedendosi confermare la loro identità "antagonista". Non riuscendo o non potendo andare al di là di questo.
E allora si chiede di chiuderla: come al solito la Magistratura indaga, i politici di destra la indicano come capro espiatorio, l'ordine dei giornalisti apre il suo fronte.

Lo scontro coi giornalisti
Lo scontro con i giornalisti ha caratterizzato l'intera vicenda. E questo scontro si è manifestato in un susseguirsi di episodi. Da un lato la semplificazione dei media che ha "provocato" le risposte degli squat (a partire dalla costruzione della categoria di eco-terrorista fino alla mediatizzazione della figura dello squatter). Dall'altro l'escalation: l'irruzione al salone de "La Stampa" con il lancio dei vermi, la conferenza stampa con la carne macellata offerta ai cronisti, le botte ai giornalisti al funerale di Massari a Brosso, l'accusa ai giornalisti di essere tra agli assassini di Edoardo Massari, la pubblicazione sul manifesto di convocazione del corteo del 4 aprile dell'elenco dei giornalisti "nel mirino", l'allontanamento dei giornalisti dal corteo stesso.
Comunque i fatti di Brosso hanno rappresentato un vero spartiacque per l'opinione pubblica: Daniele Genco, cronista dell'Ansa e della "Sentinella del Canavese" (giornale di Ivrea), è stato aggredito ed è finito all'ospedale con gravi lesioni.
Certo questo Genco non è un'aquila: sulla "Sentinella" ha attaccato Massari all'epoca del primo arresto [9], ha testimoniato contro gli anarchici per degli incidenti a Ivrea durante un corteo legato a quell'arresto, insomma era ragionevole che lui a Brosso non ci andasse proprio. Certo era un suo diritto (anche professionale) esserci. Rompergli una vertebra a calci è certo un atto pericoloso. Soprattutto è pericoloso toccare una categoria che in un pestaggio "politico" (come in un elenco di giornalisti su un manifesto associati alla parola "Assassini!") sente vibrare dentro una paura e una ferita più antica, l'eco dei vari Casalegno e Tobagi, uccisi dal terrorismo, dei Montanelli, dei direttori del GR1, dei giornalisti dell'Unità feriti negli anni Settanta. Gli "squatters" questo non l'hanno certo calcolato. Ed è stato un errore di opportunità. Dando calcioni e sberle ai giornalisti peraltro è difficile poi non costringersi in un autoisolamento ed essere oggetto di una mediatizzazione assurda.

La risposta ai giornalisti
La risposta degli squat all'azione di mediatizzazione/spettacolarizzazione è stato l'autismo e il rifugiarsi nella comunicazione propria (radio, volantini, manifesti). Silenzio stampa con i giornalisti. Inutile cercare di spiegarsi. Dibattito vecchio questo e sempre aperto.
Unica eccezione il Centro Sociale Gabrio: prima l'intervista con Gad Lerner, poi la lettera aperta alla ministra Turco sul "Manifesto", infine l'intervento a Mixer. Un passo coraggioso perché li differenzia dagli altri (e tenderà a riisolarli), comunque debole (perché è intrinseca la debolezza dei centri sociali).
La questione del silenzio stampa è accettata da tutti gli antagonisti torinesi, ma da alcuni mal volentieri, specialmente da chi vorrebbe differenziarsi dagli squatter (come il Centro Sociale dei Murazzi) e di utilizzare il palcoscenico nazionale raggiunto per interpretare la parte dell'autonomo verace. In attesa della prossima occasione.

Un sondaggio della stampa
Ma "La Stampa" del 10 marzo ci stupisce, pubblica un sondaggio dal quale emerge, a tre giorni dalle vetrine rotte, che il 70% dei torinesi vuole che si continui il dialogo con gli squatter (c'è da chiedersi che dialogo, quello informale?). Ecco il sondaggio:

Dopo le vicende della scorsa settimana, lei condivide la scelta del sindaco e del Comune di continuare comunque un dialogo con i giovani dei centri sociali o ritiene che la violenza possa essere arginata solo con l'intervento delle Forze dell'Ordine?
- continuare il dialogo con i giovani dei centri sociali 69,3 %
- intervento delle Forze dell'Ordine 12,8 %
- mi è indifferente 3,5 %
- non sa / non risponde 14,4 %

Lei sa che attività svolgono i centri sociali gestiti dagli squatters ?
- sì, completamente 15 %
- sì, in parte 25,2 %
- no 59,8 %

Lei conosce i centri sociali gestiti dagli squatters ?
- sì 71,2 %
- no 28,8 %

Per quello che Le è dato di sapere qual è il Suo giudizio sui centri sociali?
- positivo 32,8 %
- negativo 28,4 %
- indifferente 13 %
- non sa / non sono informato 20 %
- non sa / non risponde 5,8 %

La domanda interessante è perché "La Stampa" con questo sondaggio e l'intervento di Gallino sostanzialmente appoggia la linea del dialogo per poi ritrarsi così evidentemente? Bisognerebbe farselo spiegare seriamente per capire cosa influenza così decisamente la linea editoriale della cronaca di Torino, quella cioè che fa davvero opinione

Dialogo sì/Dialogo no
A Torino sembra di essere tornati al tempo del sequestro Moro: c'è un partito del dialogo e un partito della fermezza verso gli squat e i centri sociali. C'è chi chiede il dialogo, ma solo fino al venerdì prima del corteo, per poi irrigidirsi il giorno dopo; c'è chi al dialogo crede e rischia di perderci la poltrona da assessore, come una parte di Rifondazione Comunista o i Verdi del consigliere regionale Pasquale Cavaliere; c'è chi vorrebbe dividere gli esagitati dai moderati: come Sergio Chiamparino, deputato torinese del Pds, "isolare i violenti consentendo all'ala moderata del movimento di emergere" e lo stesso giornalista Genco (che consiglia un'epurazione all'interno degli stessi squat), e ovviamente c'è chi lo rifiuta: il Polo, la Lega Nord, e chi se ne frega e pensa solo ai suoi negozi: l'Ascom.
L'unica iniziativa un po' concreta è la proposta che matura dopo la morte di Massari, fatta da Giorgio Cremaschi, Giovanni De Luna, Marco Revelli, Nicola Tranfaglia, Don Luigi Ciotti, Pasquale Cavaliere, Stefano Alberione e Vanna Lorenzoni: costruire uno spazio aperto, libero, di confronto e di discorso, entro cui misurare con franchezza, anche con durezza, le rispettive ragioni, ma nel rispetto reciproco. La proposta è in sé poco realistica, perché c'è poco spazio di dialogo, gran parte degli squat non lo vogliono, vogliono solo essere lasciati in pace, e chi forse lo vorrebbe avrebbe effettivamente poco da dire. Il ruolo che viene fatto calzare ai centri sociali, quello di essere gli interpreti di un disagio sociale vasto, della disoccupazione giovanile e dell'esclusione sociale è troppo largo per spalle così strette. Nelle intelligenze più lucide vorrebbero esserlo, ma la realtà è diversa per quanto ci si voglia autorappresentare.
Le posizioni più ridicole appaiono nei giorni successivi all'aggressione ai giornalisti. Dice Don Ciotti "Dialogo sì, ma solo se si rispetta la legalità". Ma se si rispettasse la legalità, che bisogno ci sarebbe di dialogo? Nessuno osa chiederglielo. Ma tanto lui parla agli altri cittadini, non è certo una proposta reale.
E poi c'è chi sulla questione del dialogo si gioca la sua identità politica. Il Centro Sociale dei Murazzi (cioè la vecchia autonomia anni '80) pone le sue condizioni al dialogo: 1) non essere scambiati per chi, come nel nord-est, fa il consigliere nella Giunta Cacciari o fa il consulente a Roma per la Ministra Turco sulle politiche giovanili; 2) libertà per i due squatters ancora in carcere; 3) libertà per tutti i detenuti politici degli anni '70 E qui è già finita: da quando un sindaco, anche con tutta la sua buona volontà, può dare un'amnistia?
L'unico un po' disposto al dialogo sembra il Centro Sociale Gabrio, l'unico che potrebbe provare ad aprire una vertenza sociale. Ma bisognerebbe rompere di nuovo con le realtà autoreferenziali, e non avrebbe senso dopo aver fatto tanto per essere riaccolti negli "squat buoni".
"Per dialogare bisogna essere in due.", così si era espresso il sindaco Valentino Castellani.
Un dialogo sbandierato da tutti fino al giorno prima di un corteo "pericoloso", che resiste alla "prova" di un pestaggio di sette giornalisti, e che si arena per qualche decina di vetri rotti e di scritte, è un dialogo debole. Il giorno dopo il corteo, di quel dialogo (mai iniziato, mai concretizzato) di cui tutti si sono riempiti la bocca cosa resta? Niente! Un assessore che era andato al corteo viene sospeso fino a quando non presenta le scuse al sindaco (cosa che fa per non creare danni politici assurdi), chi ha tirato sassi sul Palazzo di Giustizia sarà accusato del reato di devastazione, la Città di Torino si costituirà parte civile.
Ci sarà mai l'Assemblea richiesta in fretta e furia da Revelli & C., unica concretizzazione di questo dialogo? Non crediamo, o comunque sarà molto sottodimensionata.

Zero dialogo
Bisogna farci i conti: in città (in ogni città) c'è una piccola minoranza di persone che non vogliono dialogare, non stanno nella legalità, non la riconoscono, né riconoscono il valore del dialogo. Utilizzano canali di comunicazione propri e diversi, sono al tempo stesso autoreferenziali, esclusi, marginali, culturalmente integrati, anzi all'avanguardia. Così a Torino, in una dimensione un po' particolare perché fortemente "ideologizzati" in senso anarchico.
Qui ognuno gioca il suo ruolo: è giusto che ci sia qualcuno che cerchi comunque di tenere aperto il dialogo per evitare guai peggiori, anche perché qualche canale lo si lascia sempre (non ci si taglia mai tutti i ponti alle spalle in questa società dove farsi male costa troppo), ed è giusto che a giocare questo ruolo sia anche chi ha cariche istituzionali anche se sarebbe necessario trovare interlocutori riconosciuti da tutti (come è stato Primo Moroni a volte a Milano), uomini e donne "di frontiera".
Però bisogna sapere che, almeno apertamente, gli squatter non vogliono dialogare, e di questo rifiuto, di questa estraneità ed esternità alla società fanno la loro forza (limitata) identitaria.
Una città moderna deve sapere che non basta avere un assessorato alla gioventù per poter parlare a tutti. Spesso funzionano meglio i canali informali, che a volte non sono neanche sufficienti.
Questo rifiuto al dialogo, anche duro, è un limite, un'autoghettizzazione? Certo, è evidente. Ma bisogna tenerne conto. Specialmente in momenti di alto valore simbolico.

Lo spettacolo al culmine: Torino, sabato 4 aprile, uno strano corteo
Sabato 4 aprile 1998 a Torino si svolge il "corteo nazionale dei centri sociali" contro la repressione, per la libertà dei due anarchici ancora in carcere, per protestare contro la morte di Massari. È un corteo strano. Blindato è blindato. È grosso, più di quanto ci si aspettasse: oltre cinquemila persone. È diviso trasversalmente in molte parti: la prima divisione è tra squatter, anarchici, centri sociali dell'area dell'autonomia, e poche altre persone (Rifondazione Comunista, sindacalisti, Revelli, Cavaliere e l'assessore al bilancio Alberione). Alla testa c'è un nucleo ampio di persone fortemente motivate, ferite e furenti per la morte di Massari, giudicata un vero assassinio di Stato. Ci sono poi moltissime persone che sono venute a manifestare contro questa morte assurda e criminale e contro il clima di caccia alle streghe che si vive in città. Ma l'impressione è che molte altre siano lì perché è l'unica manifestazione nazionale dell'area dei centri sociali di quest'anno. Molti di questi sembrano aver creduto alla rappresentazione data dai media del clima da anni '70 di Torino. L'impressione è che a questa parte della morte di Massari interessi un po' poco, sia davvero un'occasione.
Il corteo non doveva finire in scontri, questa era la "linea" passata dopo molte discussioni: la ridotta galassia "antagonista" non avrebbe retto lo scontro, e così è andata. Liberi di sfogarsi contro il nuovo Palazzo d'in-Giustizia, che come da previsione viene investito di un fitto lancio di pietre. Nessuno si oppone alla rottura dei suoi vetri: tutti sembrano condividere che una vita spezzata vale ben cento vetrate, e d'altra parte sono tutti quasi convinti che la città può pagare questo pedaggio: in cambio "salva" il centro. Il Palazzo di Giustizia, una piccola Bastiglia di Torino?

Un timpano rotto?
Sera del 4 aprile, il corteo è finito. Il ministro dell'Interno Napolitano dice sensatamente che non è successo nulla di drammatico a Torino. Lui i vetri del Palazzo di Giustizia li aveva messi in conto nel momento in cui aveva acconsentito a fargli passare sotto cinquemila persone, senza mettergli davanti nemmeno un poliziotto.
Passata la buriana, il tempo di tirare un sospiro di sollievo tutti quanti e il meccanismo dell'emergenza riesplode: "Chi ha detto che non è successo niente di drammatico?", tuona Costa, La Stampa, De Maria dell'Ascom. Un Castellani frastornato (a cui non sembrava vero che non ci fossero stati scontri gravi, feriti, arresti, ecc. con grave danno dell'immagine di Torino alla vigilia di un appuntamento turistico e religioso come l'ostensione della Sindone) è costretto a seguire a ruota: i commercianti non hanno potuto vendere per il terzo sabato consecutivo, i muri sono stati imbrattati, i negozi devastati, e addirittura una signora ha perso un timpano, un pazzo ha lanciato una bomba carta tra la folla a Porta Palazzo. Detto così sembra un macello. Intanto le vetrine rotte si riducono a due insegne di un negozio di Marvin [10] (non certo colpito a caso). E il timpano rotto della signora svanisce. È vero che una signora si è spaventata, giustamente, per il botto, ma del timpano rotto (il ferito più grave della giornata) non si hanno più notizie. Ma intanto la drammatizzazione è ripresa. Revelli in Rai fatica a riportare il tutto al piano di realtà, a cercare di ripartire dalla morte violenta in carcere di un uomo. Tutto inutile. Ci sono le scritte, le vetrine, e un timpano rotto!

Il giorno dopo: il dialogo sepolto sotto la devastazione
Difficile dialogare quando il reato che si rispolvera è quello di devastazione, circa dieci anni di carcere. I telegiornali fanno sapere che la Digos è al lavoro, tutti sono stati fotografati, presto saranno individuati i colpevoli di aver rotto vetri, scritto sui muri, rotto le insegne di Marvin, il vetro del distributore della Shell, buttato una bomba carta a Porta Palazzo.
Davvero per aver tirato quattro sassi uno rischia dieci anni di prigione? Rompere i vetri è violenza? La violenza non è un atto che ferisce un essere vivente (non diciamo neanche umano)?
Certo che la magistratura sta facendo di tutto per distendere il clima!

Il giorno dopo: il potere dei commercianti
Un altro dato interessante è il potere assunto dalla categoria dei commercianti, dato non nuovo e tutto interno alla ridefinizione del quadro sociale complessivo che colloca i commercianti (e soprattutto le loro associazioni di categoria) come rappresentanti dell'intero ceto medio. A Torino, con l'inizio degli anni '80, il ceto egemone all'interno delle classi medie - come una volta si definivano - è stato rappresentato dal quadro-Fiat, l'attore della marcia dei 40.000, e l'associazione di riferimento è stata l'Associazione-Quadri. Emarginato socialmente il "quadro" (oggetto a sua volta di ristrutturazione alla fine degli anni Ottanta), è emersa invece la categoria dei commercianti, che si è espressa prima con i movimenti anti-fiscali e poi nell'affermazione della forza egemone dell'Ascom, l'Associazione Commercianti guidata da De Maria.
Le associazioni dei commercianti hanno qui assunto un ruolo centrale nella vicenda squatter. Apolitici per definizione, non si sono lasciati rappresentare dal Polo, ma hanno mantenuto una rappresentanza di categoria autonoma, riuscendo a imporre al sindaco la "punizione" dell'assessore Alberione.
I commercianti sono stati "vittime" della vicenda squatter, coinvolti loro malgrado a partire dalla rottura delle venti vetrine durante gli incidenti del 6 marzo (che il Comune si è impegnato a ripagare immediatamente, rivalendosi poi nel processo), penalizzati dai tre cortei che il sabato pomeriggio hanno percorso Porta Palazzo (il più grosso mercato all'aperto torinese), e inventano il mito dei danni alle vetrine del corteo del 4 aprile (come abbiamo visto l'unico colpito, e lievemente, è stato Marvin).
De Maria traduce simbolicamente la reazione rabbiosa della sua base associativa al corteo nazionale del 4 dichiarando: "Non abbasseremo più le saracinesche. Le porte rimarranno aperte, con i commercianti davanti a difendere la proprietà, il lavoro, la libertà. Chi sfila con i passamontagna e i bastoni sappia che d'ora in poi non è detto che i commercianti non reagiscano, piazzandosi coi bastoni davanti ai loro esercizi". L'immagine è quella del negoziante coreano che nella Los Angeles in fiamme del 1992 difende il suo negozio dal saccheggio con la maglietta di Malcolm X addosso e la mitraglietta in mano, in versione subalpina s'intende. È ovvio che è solo una minaccia, simbolica certo, ma vuole ottenere due effetti: un gesto simbolico che si concretizza nella sospensione della delega ad Alberione fino alle scuse, e il divieto per i prossimi cortei al passaggio in centro e a Porta Palazzo. Commercianti pragmatici, come sempre.
Quello che colpisce è il potere della categoria, ma questa è solo una controprova; la sua autonomia di rappresentanza; la politicità di questa rappresentanza, capace di trattare alla pari con i partiti; la delega a questa categoria a rappresentare il torinese medio; i valori di fondo "proprietà, lavoro, libertà".

Le forze dell'ordine
Innanzitutto i Ros, è loro l'operazione di sgombero delle tre case occupate il 6 marzo, l'arresto dei tre anarchici, le pisciate sui materassi, il danneggiamento rancoroso delle case occupate (ve li ricordate al Leoncavallo con la distruzione di computer, biblioteca, ecc.?).
Poi gli arresti, tre subito, sette al corteo, due per una rissa davanti al Prinz Eugen (squat torinese), tre per il pestaggio del fotografo: totale quindici, e non è ancora finita.
La scorta al magistrato Laudi il giorno dopo il suicidio di Massari, per inscenare il clima da anni di piombo.
Ma soprattutto il dibattito in città sulla questione dell'intervento delle forze dell'ordine quando si compie un reato (scritte sui muri, lancio di pietre, corteo non autorizzato, pestaggio dei giornalisti). Questore Faranda e Prefetto Moscatelli spesso sotto accusa.
Il prefetto dopo il primo corteo notturno e le scritte in via Po dichiara con realismo: "Certo sarebbe stato meglio se non fosse successo niente. Ma da qui a considerarla una cosa gravissima ne passa. I muri delle metropoli di tutto il mondo sono lì a testimoniare che quanto accaduto a Torino la scorsa notte è all'ordine del giorno in tante altre città. Certi fenomeni sociali vanno metabolizzati cercando di evitare il peggio Se tutte le violenze si esaurissero in una scritta sui muri del centro saremmo molto sollevati". Dichiarazioni che provocano la richiesta di rimuovere Prefetto e Questore.
Il copione si ripete altre tre volte uguale.
1) Durante la vista del capo della polizia Masone a Torino fa polemica la sua dichiarazione "Torino non vive nell'emergenza". Comitati spontanei, Borghezio e Costa (leader della Lega Nord e del Polo a Torino) gli danno del bugiardo, anche se Masone dichiara che i centri sociali "sono al centro della nostra attenzione Abbiamo studiato cose da fare, le attueremo".
2) Al funerale di Massari, dopo il pestaggio del giornalista Genco, la polizia è accusata di non essere intervenuta, e le autorità chiederanno scusa dicendo di aver sottovalutato la situazione.
3) Prima e dopo il corteo nazionale, quando è lo stesso Ministro dell'Interno Napolitano a dover intervenire su "La Stampa" per spiegare perché non vieta il corteo (dopo che Castellani ha dichiarato: "La manifestazione è nazionale: quel che è meglio fare lo valuti il Consiglio dei Ministri"). Scrive Napolitano: "Divieti non motivati da convocazioni arbitrarie di cortei o di comizi o da pericoli accertati di grave turbativa dell'ordine pubblico possono ottenere effetti opposti a quello desiderato di tutelare l'ordine pubblico e la tranquillità dei cittadini. L'essenziale è che si adottino tutte le decisioni indispensabili per evitare inammissibili degenerazioni nell'esercizio del diritto costituzionale di manifestazione".
Lo scontro tra due diverse filosofie dell'ordine pubblico è evidente. L'accusa alla linea Napolitano, Faranda, Masone, Moscatelli è di lassismo in nome del male minore. Non che questa politica non porti arresti e denunce, come abbiamo visto, ma si chiede il gesto di forza.
E dire che anche Gallino il 7 marzo aveva detto: "La difficoltà sta nel decidere esattamente cosa fare. Chiudere tutti i centri sociali? Pretendere che la polizia carichi con durezza al minimo cenno di vandalismo da parte di gruppi di autonomi, piccoli o grandi che siano? Processare per direttissima tutti quelli colti sul fatto? Imporre il coprifuoco ai soggetti già fermati e identificati più di una volta? Il rischio è che qualunque cosa si faccia per imporre con la forza la legge e l'ordine si riveli un rimedio peggiore del male. Nel senso che invece di duecento giovani che spaccano una ventina di vetrine potrebbero sbucarne qualche settimana dopo il doppio che moltiplicano i danni".
E su questo dibattito aleggia ancora la vicenda Leoncavallo-Formentini del '94, la lunga battaglia per la chiusura del Leoncavallo, che sempre più si dimostra essere stata laboratorio nazionale per la gestione dei centri sociali.

Fallisce la protesta della destra
A Torino la destra ha una maggioranza sociale, affermata nelle politiche del '94 con la simbolica elezione di Alessandro Meluzzi (ex-Fgci, psichiatra di Forza Italia) nel collegio tradizionalmente di sinistra di Mirafiori. Una maggioranza sociale che fa a pugni con un'assenza assoluta di classe dirigente adeguata, tanto che per presentare un candidato sindaco deve andare fino a Mondovì a pescare nella destra liberale, la più conservatrice, dell'ex ministro Raffaele Costa. Il suo programma è semplice: legge e ordine. È una destra che incarna e cavalca tutte le paure che Torino esprime, oltre a mantenere nel suo Dna il rancore della marcia dei 40.000 contro il disordine e gli scioperi, le marce anti-fisco di metà anni Ottanta, l'aggressività contro le diversità proprie del comitatismo.
In questo frangente la destra cerca di inserirsi con una dimensione di piazza nella vicenda squatter. I giovani di Azione Giovani - Fronte della Gioventù e del Fuan (le organizzazioni giovanili di AN) organizzano presidi davanti al Comune, volantinaggi in via Roma. Infine arriva la fiaccolata serale, organizzata da tutte le forze del Polo per il 20 marzo. Raccolgono solo cinquecento persone, quasi tutti militanti stretti, al grido: "senti che puzza di maiali, sono arrivati i centri sociali", "centro sociale occupato, noi lo vogliamo sgomberato". A guidarla Costa e Ghiglia, si chiede l'intervento delle forze dell'ordine per riportare la "legalità". In realtà si tratta di un fallimento, il Polo non riesce a raccogliere la protesta della Torino bene. Anche se hanno mobilitato il loro comitato anti-squat (Comitato spontaneo per Torino città sicura rappresentato da Denis Martucci vicino a Forza Italia). Le critiche ai centri sociali sembrano rispolverate dagli anni '60 "scarsa igiene, promiscuità sessuale", non pagano la SIAE, non hanno licenze, fanno rumore.

Il Pds: non è di sinistra chi calza il passamontagna
Il Pds torinese è piuttosto sfigato, e questo si sa. Ha provato l'esperimento Castellani [12] al primo giro senza Rifondazione Comunista, un laboratorio per i Progressisti di Occhetto, al secondo giro è già fallito; così come in Regione, e nelle Circoscrizioni, tutte regalate alla destra. Ma è soprattutto il suo personale politico che è l'immagine della sfiga: Piero Fassino (sottosegretario agli esteri), Sergio Chiamparino (deputato), Domenico Carpanini (Vice Sindaco). Unico giovane l'attuale segretario provinciale Nigra. Oltre naturalmente al filone dei magistrati (Violante e Caselli, della generazione precedente).
È Chiamparino che ci rigetta tutti in pieni anni '70 quando riesce a dichiarare in televisione rispondendo a Revelli e poi su "La Stampa": "Alcune formulazioni ambigue e retoriche possono dare l'impressione che in questo fenomeno vi siano dei pezzi della nostra storia e delle nostre idee. Non è così, va detto con chiarezza". In TV ci va più deciso: "Quelli col passamontagna che tirano i sassi non fanno parte dell'album di famiglia!"
Viene da chiedersi: chi è più legato alle identità degli anni Settanta? I manifestanti col passamontagna che tirano i sassi al Palazzo di Giustizia di Torino o Chiamparino, che cita nella sua dichiarazione la celebre frase di Toni Negri: "Immediatamente risento il calore della comunità operaia e proletaria, tutte le volte che mi calo il passamontagna"? Sveglia Chiamparino, quello che sta succedendo è più vicino al "No justice no peace" di Los Angeles del '92 che non agli anni '70.
Chiamparino dice cose sensate quando non riconosce come neanche lontanamente contigui i suoi percorsi con quelli degli squatter. D'altra parte è semplicemente simmetrico alle dichiarazioni degli stessi squatter, che non riconoscerebbero mai in Chiamparino un loro "compagno di strada".
Usa però la solita arroganza quando non vuole riconoscere che in quel corteo si esprimeva anche un'anima di quella sinistra plurale che c'è, e che non basta che un Chiamparino qualunque dica "non la voglio vedere".

Ambiguità degli squatters
Una nota ai margini: in questo caso come nel caso Marini (l'inchiesta condotta ai danni degli anarchici dal magistrato Marini e che ha portato a decine di incriminazioni per fatti anche piuttosto gravi come rapimenti, attentati, rapine, ecc. e a una polemica, con perquisizioni, tra i Ros e Radio Black-Out mesi fa) c'è sempre ambiguità, che più che voluta sembra subita dagli ambienti anarchici. Da un lato si attacca la litania sulla repressione contro gli innocenti, incastrati da una "montatura" (che se è montatura è quindi falsa), dall'altra si ammicca a quei comportamenti di cui si è accusati, non rivendicandoli (quando succede, come nel caso di alcuni imputati del caso Marini, ciò provoca problemi non da poco alle strategie di difesa giudiziaria), ma dicendo sostanzialmente che sono giusti. Nel caso che prendiamo in esame: il magistrato Laudi falsifica le prove, scambia petardi per esplosivi, taniche di benzina per stufe o affini per molotov, e così via, dall'altro di colpo ci scopriamo contro l'Alta Velocità (considerando che negli anni precedenti sull'Alta Velocità è uscito solo un volumetto di critica per le edizioni Nautilus di poche pagine che pochissimi ricordano) tanto da scrivere: "Ravvisiamo nel metodo delle azioni, tutte contro macchinari e strutture una totale identità con le nostre idee, le nostre analisi e la nostra pratica". Riteniamo difficile fare battaglie di difesa condotte così: o ci si dichiara innocenti (esempio: Sofri) e allora si conduce quella battaglia, oppure di fronte alla repressione di un'attività illegale che vuole essere anche sovversiva, si chiama a difendere questa stessa forma di lotta. A noi ovviamente non interessa prendere le distanze da atti "violenti", anzi riteniamo che l'azione contro le "cose" sia impropriamente chiamata violenza. La violenza è quella contro le persone. Nel rompere un vetro o una centralina non c'è neanche violenza indiretta, nessuno è intimidito, spaventato, terrorizzato.
Ma perché questa ambiguità? E qui entriamo più nel dettaglio. Chiedere a tutti di schierarsi sugli arresti e sui fatti della Valsusa ("Tutti coloro che si dicono contro questo stato di cose devono prendere una posizione chiara sia riguardo gli arresti... sia riguardo gli eventi della Valsusa. Non può essere bella solo la rivoluzione dall'altra parte del mondo") vuol dire costringere i propri interlocutori (Centri Sociali e affini) entro un'egemonia culturale tutta anarco-individualista, che fa presa su un'idea sbagliata della solidarietà con chi si espone con azioni clandestine tipica degli anni '70. Se non condivido quella pratica, sono una merda, uguale a Ghiglia, a Don Ciotti. Solo l'illegalità è la pietra di paragone su cui valutare la radicalità di una posizione politica. Non è un caso che un ragionamento così rozzo provenga da un'area che ha fatto di un comportamento illegale (l'occupazione abusiva di uno spazio) non un mezzo giusto di azione politica, ma un fine ultimo di identità e di espressione. Non voglio uno spazio per fare delle cose, ma il mio fine è occupare uno spazio. Se non occupo sono un tutt'uno con le istituzioni, sono un traditore, un infame.
Infatti l'altro metro di paragone è proprio il rapporto con le istituzioni: il Centro Sociale Gabrio è stato accusato per anni di essere una schifezza perché aveva trattato con il Comune dopo l'occupazione di un posto, avevano una sponda politica in Rifondazione Comunista e addirittura avevano contatti con la sinistra Cgil: un vero scandalo. E non a caso il Gabrio per essere riaccettato ha dovuto cambiare in parte la propria "leadership" e soprattutto cambiare politica e linguaggio, appiattendosi in parte su quello "duro" degli squatter. E le aperture del Gabrio (la lettera aperta al Ministro Turco, l'articolo di Gad Lerner sulla Stampa e l'intervista a Mixer) saranno elementi di polemica, almeno sotterranea. E questo anche se si sa che quasi ogni centro sociale in un modo o nell'altro ha collegamenti con le istituzioni: basta pensare all'area "dell'autonomia di classe" (quelli contro l'istituzionalizzazione degli ex compagni del nord-est) che chiudono una trattativa con assessori comunali su Murazzi, Askatasuna [12] e Lega dei Furiosi ( che fino a poco tempo fa era di tutti e di nessuno). Ma qui si sussurra solo, non si arriva allo scandalo, perché i rapporti di forza sono paritari.
Siamo al primitivismo dicevamo, perché nessuno nella storia dei movimenti sociali radicali ha mai misurato il grado di radicalità e di sovversione dall'illegalità delle proprie pratiche. Un esito estremo che prende il peggio della lezione del '77 forse e che è comune solo alla logica distorta delle organizzazioni clandestine dell'occidente (ma il paragone regge solo su un piano squisitamente riferito alla logica). In tutti i movimenti la radicalità risiedeva nella parola d'ordine dirompente (il salario sganciato dalla produzione, i soviet, il potere operaio, rifiuto del lavoro, il reddito di cittadinanza, ecc.), mai nelle forme. E questo oggi è un problema, perché l'egemonia culturale della filosofia squatter (anche dove non ci sono squat) rende difficile pensare ad un conflitto futuro che esuli dal puro scontro tra "bande" (non certo armate).

Come conclusione provvisoria
Un dato impostante nella sua tragica banalità: se Edoardo Massari non fosse stato in carcere, indubbiamente oggi sarebbe vivo.
A Torino si è combattuta una guerra simulata e finta, che si è creata improvvisamente, con un susseguirsi di drammatizzazioni e riflussi, fino a sfiorare il tracollo, il cortocircuito. Una guerra virtuale che ha visto tutti gli attori travolti da una situazione che è sfuggita da ogni controllo.
Quando questo succede, ogni strategia sembra inutile e controproducente: stare zitti, urlare, cercare di spiegarsi, cercare di scomparire, ormai la macchina è partita e sembra non potersi fermare. La possibilità di spettacolarizzare un evento, un avvenimento (e non solo di mediatizzarlo) è legata alla sua inconsistenza reale, alle labilità della sua densità sociale. Più una cosa è debole più è facilmente spettacolarizzabile.
E l'area dei centri sociali e degli squat è debolissima. Così come sono deboli i barboni o gli immigrati o i tossici.

Torino Aprile '98

 

NOTE

1. Questo soggetto è in gran parte identificabile con l'area sociale sviluppatasi intorno all'anarco-insurrezionalismo/primitivismo, e si è auto-definito "squatters" con un'operazione platealmente metonimica (il tutto per la parte): la parola "squatter" è usata in tutto il mondo, e significa genericamente "occupante".

2. La Lega dei Furiosi è un grosso spazio libero ai Murazzi del Po in cui ogni tanto ci sono dei concerti organizzati dai Centri Sociali o da Radio Black-out.

3. In Valle di Susa sono in corso i lavori per realizzare la linea ferroviaria ad alta velocità che dovrebbe collegare Torino con la Francia (e quindi il Nord-Ovest dell'Italia con l'Europa): lavori ad alto impatto ambientale ai quali si oppone da tempo buona parte della popolazione della Valle di Susa.

4. Comitati Spontanei di cittadini, nati nella seconda metà degli anni '90 nei quartieri più densamente popolati da immigrati, chiedono una maggiore presenza delle forze dell'ordine sul territorio, legalità, controllo e rigore contro la microcriminalità e contro gli immigrati clandestini e si oppongono all'apertura di centri di accoglienza per immigrati o barboni.

5. San Salvario è il quartiere adiacente alla stazione ferroviaria di Porta Nuova, da sempre quartiere di prima ospitalità per gli immigrati: negli anni '50 - '60 quelli che venivano dal sud Italia, oggi abitato in gran parte da immigrati extracomunitari.

6. Piazza antistante la Stazione di Porta Nuova.

7. Santa Rita è un quartiere residenziale i cui abitanti si sono mobilitati contro l'apertura di un dormitorio per barboni in un edificio di proprietà comunale.

8. Gli attentati contro l'Alta Velocità in Valle di Susa sono stati tutti effettuati con ordigni esplosivi artigianali di portata limitata contro macchinari per sondaggi oppure contro le centraline elettriche dei cantieri senza causare mai danni particolarmente ingenti; fa eccezione un furto di attrezzature da lavoro nel Municipio di Caprie (paese della Valle di Susa) unico reato per il quale il Magistrato ha reso pubbliche delle prove contro uno dei tre arrestati, per l'appunto intercettazioni ambientali con cimici sull'automobile.

9. Edoardo Massari era già stato arrestato nel '93 in seguito all'esplosione di un ordigno rudimentale che lui stava fabbricando nel retrobottega della sua piccola officina per la riparazione di biciclette a Ivrea.

10. Marvin è una catena di negozi di materiali fotografici il cui proprietario è un noto esponente della destra ex-MSI e organizzatore delle "ronde tricolori": ronde di fascisti che pattugliavano di notte le vie del centro di Torino per tenerle pulite, a suon di mazzate, da immigrati e spacciatori. Il titolare di Marvin è stato denunciato e processato per questi fatti.

11.Valentino Castellani, docente universitario a Ingegneria Elettronica, , viene candidato Sindaco dalle forze di centro-sinistra e viene eletto nel '93 e riconfermato nel '97 (con l'indispensabile apporto di Rifondazione Comunista) proprio a spese di Raffaele Costa e per pochissimi voti.

12. Altro Centro Sociale Occupato di Torino.

 

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