5. Collaudo e rodaggio della macchina 7 Aprile
La new wave dei processi politici inizia intorno alla
metà degli anni Settanta, per iniziativa di alcuni giudici
istruttori, molti dei quali vicini al Pci. In questi anni viene
lanciata l'offensiva di Giancarlo Caselli e Luciano Violante,
entrambi Gi a Torino [1], contro esponenti della destra politica
accusati di mire golpiste o di attività eversive. All'accertamento
dei fatti si sostituisce spesso l'indagine sulla personalità
politica dell'imputato, , come se il suo essere fascista fosse
l'unico dato necessario a provarne la colpevolezza, se non del
reato in oggetto sicuramente di qualcos'altro[2].
L'azione penale contro le "trame nere" legittima agli
occhi dei "democratici" (e persino di alcuni "rivoluzionari")
un pugno di giudici istruttori e pubblici ministeri che poco dopo
cambieranno bersaglio e si dedicheranno alla repressione dell'ultrasinistra.
Questo è anche il curriculum vitae di Pietro Calogero,
sostituto procuratore a Treviso: le sue indagini sui neo-nazisti
Freda e Ventura sono il lasciapassare grazie al quale, trasferitosi
a Padova, costui potrà esporre l'eponimo "teorema"
e affermare di aver messo le mani sul Grande Vecchio e sui capi
supremi del "terrorismo" italiano.
Caselli e Violante conducono pionieristiche inchieste-pilota,
come quella sulla rivista "CONTROinformazione", quella
contro l'operaio genovese Giuliano Naria o le numerose indagini
compiute sul movimento bolognese dopo i fatti del marzo 1977.
Durante queste inchieste, si sperimentano - prima ancora delle
leggi "antiterrorismo" - la tecnica del "collage
giudiziario", la soggettivazione delle inchieste basata sulla
fattispecie terroristica e l'allungamento artificioso della
carcerazione preventiva. Quest'ultimo si ottiene emettendo, al
termine della prima carcerazione, un nuovo mandato di cattura,
che cambia le imputazioni per lo stesso fatto-reato, o ne aggiunge
di nuove, o fa riferimento a presunti reati "connessi".
Qualunque sia l'escamotage, l'effetto è quello di
prolungare la detenzione.
Torino è la capitale della crisi del fordismo, perennemente
sull'orlo di una crisi di nervi. Città-laboratorio dell'Antiterrorismo
e del "pentitismo", qui le emergenze vengono fatte esasperare
e incancrenire (dal "terrorismo" alla microcriminalità
agli "squatters"), qui si consumano le più brucianti
sconfitte storiche della classe e dei movimenti, qui il Pci fa
partire pressanti inviti alla delazione, tramite i questionari
distribuiti con il mensile di partito "Nuova società"
[3]. È da sotto la Mole che bisogna partire
per spiegare il ruolo svolto dal Pci - e soprattutto della sua
commissione di "esperti" sul "terrorismo"
- nella demolizione dello stato di diritto e delle garanzie costituzionali.
Detta commissione è approntata e diretta da Ugo Pecchioli;
in essa si avallano o addirittura si propongono (o comunque si
prefigurano) le leggi speciali, ma non solo: si danno indicazioni
a tutti gli operatori della giustizia, della polizia e dei mezzi
di informazione vicini al partito: ad esempio, tutti gli avvocati
dovranno rifiutarsi di difendere persone in qualche modo inquisite
per banda armata, a meno che queste non siano disposte a denunciare
i loro compagni. È il "diritto di difesa" da
Sant'Uffizio. I membri del partito chiamati a fare i giudici popolari
nelle assisi per i processi alla lotta armata, dovranno assumere
un atteggiamento colpevolista, e decidere "in dubio pro republica".
I giornalisti dovranno sostenere le tesi colpevoliste e dare credibilità
alle veline delle forze dell'ordine, spesso camuffate da "fughe
di notizie". Polizia e servizi di sicurezza potranno accedere
alle informazioni raccolte dalle sezioni del Pci e dalle cellule
del sindacato. Della commissione fa parte anche Violante, che
si fa portavoce delle "innovazioni" processuali nel
frattempo sperimentate dal dott.Caselli, innovazioni su cui si
baserà il Teorema Calogero. Vediamone soprattutto due:
a) la "contiguità"
Il 14/10/1974 i carabinieri di Dalla Chiesa (che non ha ancora
nessun "super-mandato" ma è già capo di
un nucleo speciale anti-terrorismo) scoprono a Robbiano di Mediglia
(MI) un appartamento usato dalle Br. Caselli ordina una perquisizione,
e i carabinieri trovano materiale d'archivio della rivista milanese
"CONTROinformazione". Nelle 24 ore successive i carabinieri
si appostano e arrestano due brigatisti (Piero Bassi e Pietro
Bertolazzi). Il terzo arrivato, Roberto Ognibene, si accorge dell'appostamento
e tenta la fuga; i carabinieri gli sparano, Ognibene risponde
e colpisce a morte il maresciallo Felice Maritano. Ognibene viene
catturato e bloccato a terra. Un carabiniere, in seguito indicato
come il brig. Calapai, gli punta la pistola alla fronte e tira
il grilletto. L'esecuzione non riesce perché l'arma si
inceppa. Calapai chiede un'altra pistola, gli altri si rifiutano
di dargliela. Ognibene resta vivo, lo processano per direttissima,
non gli viene riconosciuta la legittima difesa e viene condannato
a trent'anni per omicidio premeditato.
Caselli emette mandati di cattura contro il direttore e i redattori
della rivista "CONTROinformazione", e comunicazioni
giudiziarie contro i collaboratori. L'accusa è di essere
portavoce delle Br "attraverso la pubblica esaltazione, con
vari mezzi di diffusione, delle singole imprese criminose e dei
fini ultimi di sovversione ai quali erano dirette" e di aver
pubblicato "articoli, riproduzioni di pubblicazioni e slogans
che esortavano alla lotta armata contro lo Stato". Ma i redattori
non vengono imputati di apologia di reato o di qualche tipo d'istigazione,
bensì di... costituzione o partecipazione a banda armata!
È il primo esempio di forzatura del diritto per introdurre
il concetto di "contiguità-partecipazione": "eliminazione
dei c.d. reati intermedi, per esempio il favoreggiamento, con
passaggio immediato al reato favorito e con immediato aggancio
alla responsabilità dell'autore del reato più grave
la quale trasmigra subito anche a carico del favoreggiatore"
(Giuliano Spazzali).
Le accuse sono fragili e comunque indimostrabili, ma intanto gli
inquisiti vengono trasferiti in carceri di punizione a regime
duro, lontano dai familiari (Asinara, Volterra, Lecce, Bari, Palermo,
Udine). L'inchiesta, tra stralci e accorpamenti, si trasforma
presto in un vero e proprio collage giudiziario. Si cerca
di definire i confronti di un unico "progetto eversivo",
e il nome "Brigate Rosse" viene usato come mastice per
incollare spezzoni d'indagine diversi nelle motivazioni, nei modi,
nei tempi e nei luoghi. L'istruttoria si concluderà l'1/8/1977,
senza produrre alcun rinvio a giudizio.
Uno degli ambiti "aggiunti" al primo filone d'indagine
ha come scopo evidente quello di dar corpo all'ipotesi (destinata
a grande fortuna) dei "collegamenti internazionali eversivi"
tra Br, Kgb e palestinesi. Nel marzo 1975, a Novara, Caselli fa
perquisire le case dei membri del Comitato Palestina. Vengono
sequestrati elenchi di medicinali, pubblicazioni, elenchi di pittori
e artisti che hanno donato le loro opere per finanziare l'invio
di materiale sanitario alla Mezzaluna Rossa (la Croce Rossa dei
paesi arabi). Viene sequestrato anche materiale fotografico scattato
in Giordania nel settembre 1969, durante una visita al campo profughi
di Irbid della delegazione dei Comitati Palestina. Grazie a una
particolarmente creativa fuga di notizie, i giornali parlano di
terroristi italiani fotografati mentre si addestrano nei campi
palestinesi. È la nascita di una leggenda metropolitana
che tornerà in auge nei giorni del sequestro Moro, e che
ancora oggi ha molti propagandisti. "Panorama" pubblica
un articolo in cui compare un solo nome, quello di Oreste Strano,
imputato nell'inchiesta su "CONTROinformazione".
b) l'allungamento della carcerazione preventiva
Il 25/4/1975, al carcere di S. Vittore, Oreste Strano viene pestato
da una squadra di agenti di custodia. Il mattino dopo viene trasferito
a Volterra e messo in isolamento per dieci giorni. Il 9 maggio
scadono i termini della carcerazione preventiva, ma nella stessa
giornata Caselli emette un nuovo mandato di cattura per partecipazione
a banda armata, con poche modifiche rispetto al precedente che
però bastano a raddoppiare i termini della carcerazione.
Il mandato viene impugnato in Cassazione perché i fatti
contestati erano già noti a Caselli fin dal dicembre 1974,
e visto che da allora non è emerso niente di nuovo non
si capisce la ragione del ritardo nell'emissione, se non per un
particolare accanimento e/o per una strumentalizzazione confessoria
del carcere preventivo.
Il 23 maggio viene arrestata a Milano Brunhilde Pertramer, moglie
di Strano, anche lei inquisita nell'inchiesta torinese. L'accusa
è di partecipazione al sequestro e omicidio dell'ingegner
Carlo Saronio, avvenuto a Milano un mese prima. Dopo tre giorni,
il magistrato milanese che indaga sul sequestro interroga Brunhilde
a San Vittore, riconosce l'inconsistenza dell'accusa e dispone
l'immediata scarcerazione. All'interrogatorio assiste il brigadiere
autore dell'arresto, membro del nucleo speciale di Dalla Chiesa,
che si reca a casa della Pertramer (già perquisita tre
volte), prende una vecchia sciabola (mai sequestrata prima) e
fa spiccare un mandato di cattura per detenzione di arma da guerra
ai sensi della legge Reale. Questo blocca la scarcerazione. Tre
giorni dopo viene celebrato il processo per direttissima, la Pertramer
viene assolta perché il fatto non sussiste, e può
finalmente lasciare S. Vittore.
Il 10 settembre, dopo la contestazione della validità del
nuovo mandato, Strano viene scarcerato (dopo essersi fatto un
mese di galera in più). Con la moglie e la figlia di 6
mesi viene inviato al domicilio forzato a Montalcino (Si). Come
già detto, l'inchiesta non approderà a nulla, ma
intanto si è proposta, anzi, imposta, una nuova prassi
inquisitoria.
***
Il caso Giuliano Naria, scoppiato a Genova nel 1976, è
interessante per almeno quattro motivi:
a) è una delle più importanti inchieste-pròdromi
al 7 Aprile, in cui l'intervento della Procura di Torino determina
un vero e proprio salto di qualità;
b) ha per protagonista un operaio comunista dell'Ansaldo Meccanico
Nucleare, una vera e propria avanguardia di classe, in prima fila
nelle lotte dentro e fuori la fabbrica;
c) è emblematico di come media e inquirenti riescano a
costruire un "mostro" a tavolino;
d) l'odissea carceraria di Giuliano è la stessa che tocca
in sorte a parecchie centinaia di persone: la spaventosa metodicità
con cui si è incastrato e annientato un uomo è la
stessa che ha decimato un'intera generazione di dissidenti.
Genova, 8/6/1976. Alle ore 13.30 circa, un commando delle Br
uccide Francesco Coco, procuratore generale della repubblica,
e un brigadiere della sua scorta, Antioco Deiana. Gli attentatori
agiscono a volto scoperto, a poca distanza dalla casa del magistrato.
Se si escludono due morti (ehm...) "accidentali" nella
sede del Msi di Padova, si tratta del primo omicidio compiuto
dalle Br.
Vista l'importanza del bersaglio colpito, l'Antiterrorismo e la
magistratura devono mostrare subito la loro efficienza, e trovare
un colpevole. Se non lo si trova, bisogna crearlo, con la complicità
della stampa. Puntualmente, il 10 giugno il "Corriere Mercantile"
di Genova titola a nove colonne: "Ecco il volto della belva
che ha compiuto il massacro". Sotto il titolo, una foto di
Giuliano Naria. Tutti i giornali nazionali riprendono e amplificano
la notizia. È l'inizio del linciaggio morale e della caccia
all'uomo. Chi è Giuliano Naria, e come si è arrivati
a lui?
Giuliano ha 29 anni, ed è un personaggio notissimo in città:
operaio licenziato dall'Ansaldo (ufficialmente per assenteismo,
in realtà per la sua "insubordinazione" tutta
politica), ex-membro della segreteria genovese di Lotta Continua.
Il suo nome è affiorato nell'inchiesta sul sequestro di
Casabona, capo del personale dell'Ansaldo, da parte delle Br (22/10/1975).
Giuliano è entrato nella rosa dei sospetti solo perché
Casabona è il responsabile del suo licenziamento. Non c'era
assolutamente nessun indizio, quindi il fascicolo è stato
formalizzato "contro ignoti". Per dare il nome di Giuliano
in pasto alla stampa, gli inquirenti hanno dovuto attendere nuovi
sviluppi.
Il mandato di cattura per il sequestro Casabona viene spiccato
il 9 giugno, il giorno dopo l'omicidio Coco. Sapientemente, la
velina della polizia accenna anche a quest'ultima vicenda, i giornali
fanno (volentieri) confusione, ed ecco il "mostro",
la "belva" assetata di sangue. Per il sequestro Casabona
ci sarà un proscioglimento in istruttoria, ma intanto l'opinione
pubblica crede che Giuliano sia ricercato per l'omicidio Coco,
cosa che le forze dell'ordine si guardano bene dallo smentire.
Entrano in scena i torinesi: Caselli, Violante e il resto del
loro pool, ormai ritenuti esperti di "terrorismo", anche
perché stanno istruendo il grande processo al "nucleo
storico" delle Br (sul quale queste ultime hanno voluto "dire
la loro" uccidendo Coco). L'inchiesta passa nelle mani della
procura di Torino.
Giuliano viene arrestato il 27 luglio a Gaby (Val d'Aosta), dove
si trova con la sua compagna. Partecipano alla cattura carabinieri
di Torino, Genova e Milano. Addosso a Giuliano vengono trovati
una pistola e documenti falsi, lui dichiara che sono per difesa
personale, il minimo di tutela per un uomo braccato dalla polizia
e additato dai media come un assassino. Giuliano afferma di essere
vittima di una montatura, si dichiara (non a torto) "prigioniero
politico" e aggiunge che non rilascerà altre dichiarazioni.
Cosa c'è contro di lui oltre al fatto di essere un operaio
colpevole di non aver mai leccato il culo al padrone? Assolutamente
niente: due presunti testimoni rilasciano dichiarazioni che contrastano
con l'effettiva modalità dell'attentato, cadendo più
volte in grossolane contraddizioni, addirittura riadattando i
primi identikit per farli somigliare alla foto di Giuliano mostrata
loro dalla polizia. La stampa (non tutta) registra tali discrepanze
ma ha la memoria davvero troppo corta, così col passare
dei giorni i due inattendibili personaggi vengono trasformati
in "super-testi".
Chi sono questi testi, e perché arrivano a Palazzo di Giustizia...
ammanettati (particolare rivelato en passant dalla stampa,
e subito sepolto sotto una spessa coltre di veline)?
Il primo è "Tony lo slavo", vero nome Grbelja
Zoran: esercita la professione di pappone all'Angiporto, si dice
sia da tempo un confidente della polizia, ricattabile perché
privo di documenti e permesso di soggiorno. All'ora dell'agguato,
Tony si trovava in un bar nelle vicinanze, dal quale però
non può aver visto nulla (come successivamente dichiarato
dal proprietario e da altri avventori). Ciononostante, riconosce
in Giuliano l'uomo che ha freddato Deiana. La versione ufficiale
è che Tony ha "inseguito" gli attentatori. Come
notano gli autori di una puntuale controinchiesta: "fisionomista
dalle notevoli doti, [lo slavo] ha colto i tratti del volto dei
due individui che correvano dandogli la nuca e le spalle".
L'altro teste è tale Leonardi: contrabbandiere, noto delatore,
già ricercato per furto quindi non insensibile a eventuali...
proposte di collaborazione. Passava in autobus vicino al luogo
dell'agguato; nessun altro passeggero ha visto né capito
niente, eppure Leonardi riconosce Giuliano... non come l'assassino
di Deiana, ma come il complice che gli copriva le spalle. Il confronto
all'americana è una farsa: Leonardi conosce di persona
buona parte dei carabinieri fatti schierare accanto a Giuliano,
e lo ammette pure!
Una terza testimone oculare, l'adolescente Teresa Maggio (probabilmente
l'unica che si trovava davvero sul posto) non riconosce Giuliano.
Viene portata a Torino e sottoposta a sfibranti interrogatori.
Da un giorno all'altro cambia versione e si dichiara testimone
inattendibile perché svenuta durante l'attentato.
Il mandato di cattura per l'omicidio Coco viene emesso solo il
6 ottobre. Oltre a parlare - con notevole eufemizzazione - di
"parziali discordanze riscontrabili tra le dichiarazioni
dei due testi" (che però "non [ne] inficiano
il valore gravemente indiziante"), Caselli azzarda un collegamento
tra i proiettili calibro 7.65 usati nell'attentato (dei quali
si ipotizza siano stati sparati da una Browning) e un libro
sulle Browning sequestrato in casa di Giuliano; si dà però
il caso che la compagna di Giuliano faccia la traduttrice, e che
tra i libri su cui sta lavorando ci siano manuali come Pistols
and Revolvers, Thirty Carabines, Small Arms Ammunition
Identification etc.
Il giorno dopo, 7/10/1976, "l'Unità" scrive (corsivo
nostro): "Gli accertamenti sono stati lunghi e complessi,
gli indizi in possesso andavano accuratamente vagliati. Sulla
base del mandato di cattura è ormai sicuro che Naria fece
parte del commando. C'è una precisa ricostruzione dei
fatti". Da quando in qua un mandato di cattura ha valore
di prova? Domanda ingenua...
Fin dal suo arresto, Giuliano viene sottoposto a un vero e proprio
regime di annientamento.
Più di ottanta giorni di isolamento totale (prima a Milano,
poi a Genova), accompagnato da provocazioni, minacce, maltrattamenti.
Il trattamento che riceve è quello già descritto
al cap.3, compresi il brusco passaggio dall'isolamento al sovraffollamento
e i trasferimenti continui (Torino, Saluzzo, Genova, Porto Azzurro).
Al carcere Marassi di Genova, tutti i detenuti gli esprimono solidarietà,
sfidando le punizioni dei secondini pur di mandargli bigliettini,
giornali, cibo... Scoppia anche una delle tante rivolte perché
venga applicata la riforma carceraria, e una delle richieste è
la cessazione dell'isolamento per Giuliano. Gli insorti cercano
anche di sfondare la porta della sua cella. A settembre, Giuliano
scrive al Soccorso Rosso:
...da più di un mese vengo sequestrato nel più assoluto isolamento e sottoposto a "grande sorveglianza". Non entro nei particolari di ciò che questo significa perché penso lo sappiate bene anche voi. Non solo: sono stato ripetutamente minacciato di morte specialmente durante un trasferimento per il famoso confronto con i testimoni. La pattuglia dei carabinieri che mi ha gentilmente accompagnato era comandata da un maresciallo che dopo aver dichiarato di essere intimo amico della guardia del corpo di Coco, tra un plauso e l'altro a Mussolini e al fascismo, ha cominciato a pronunciare frasi di questo genere: "Sarebbe meglio ucciderli tutti", "se questo tenta la fuga, il problema sarebbe risolto" e altre amenità del genere. Questi sono i nostri democratici tutori dell'ordine!
Vi ho parlato di questo perché in perfetto stato di salute dichiaro di non aver nessuna intenzione di suicidarmi. Anzi, anche dietro le mura del carcere, proseguirò la lotta insieme a tutti gli altri compagni. Saluti comunisti, Giuliano Naria.
Il 5/10/1976 Giuliano viene tolto dall'isolamento. Poco tempo
dopo viene fatto oggetto di una provocazione da parte della guardia
del corpo del giudice Mario Sossi, che l'anno prima è stato
sequestrato dalle Br. La legge prevede che nessuna persona estranea
al carcere possa accedere alla zona detenuti e che le porte siano
sempre chiuse. Ciononostante il gorilla di Sossi viene lasciato
passare, arriva fino al transito dove si trova anche Giuliano
e comincia a insultarlo e dirgli cose come: "Quelli come
voi bisogna ammazzarli subito sul posto, altro che la galera!"
etc. Ovviamente non rischia niente: a separarlo dai detenuti c'è
un robusto cancello, ed è circondato da (divertiti) agenti
di custodia. Addirittura, sempre stando a distanza di sicurezza,
costui tira un calcio alla mano di un detenuto. Chiaramente Giuliano
e gli altri non stanno zitti, e lo mandano a fare in culo. Anche
Sossi, sopraggiunto nel frattempo, partecipa allo scambio di contumelie.
I risultati: i nove detenuti coinvolti nell'episodio vengono trasferiti
in carceri di massima sicurezza, e la procura di Genova emette
un mandato di cattura contro Giuliano per minacce e insulti a
magistrato, ulteriore pretesto per tenerlo in prigione. Titoloni
sulla stampa: Giuliano Naria, in carcere per aver ucciso Coco,
aggredisce un altro giudice.
Il 20 dicembre Giuliano viene trasferito a Torino, al carcere
delle Nuove (che in realtà è fatiscente e invaso
dai topi), dove viene messo in un'ala abbandonata, completamente
solo. L'indomani gli altri detenuti lo vengono a sapere, e pretendono
che sia sistemato in una cella normale.
Le provocazioni proseguono anche a Torino: la sua cella viene
regolarmente perquisita e messa a soqquadro. Le guardie spaccano
le sue bottiglie d'acqua e rovesciano i posacenere sul suo letto.
Il suo compagno di cella viene picchiato. Chiunque parli con lui
viene minacciato. Nonostante il clima pesantissimo, Giuliano forma
un gruppo di studio sul marxismo. Probabilmente è questo
il motivo per cui, nel marzo 1977, viene tradotto a Saluzzo (CN).
Il trasferimento avviene senza preavviso, alle cinque del mattino:
Giuliano è trascinato via dal letto seminudo, nonostante
il freddo. Alla sua scorta non vengono consegnati né gli
effetti personali, né i soldi, né la cartella medica.
Ai genitori arrivati a Torino per il colloquio, verrà detto
semplicemente che Giuliano è stato trasferito. Lo stesso
avviene al notaio giunto per sbrigare le pratiche di matrimonio.
A Saluzzo Giuliano viene subito rinchiuso in cella di segregazione,
una specie di loculo senza finestre né piani di appoggio,
nonché senza possibilità di spegnere l'abbagliante
luce al neon. Per tenerlo ermeticamente isolato dagli altri detenuti
gli impediscono persino di andare alle docce.
Il 6/3/1977 scoppia una rivolta dei detenuti contro le bestiali
condizioni di vita. Una delle prime richieste è quella
di togliere dalle celle di segregazione i detenuti che vi sono
rinchiusi. Alle celle c'è un solo detenuto: Giuliano. Nonostante
tutti i tentativi di tenerlo nascosto, gli altri prigionieri hanno
scoperto che Giuliano Naria è a Saluzzo, e stanno cercando
di salvargli la vita.
La protesta è relativamente pacifica. Non fidandosi del
direttore del carcere Ortoleva, i detenuti chiedono di parlare
con il presidente della Regione. All'alba del giorno dopo, al
posto del direttore arrivano i carabinieri di Dalla Chiesa, che
irrompono nel carcere e danno inizio a un massacro: un detenuto
perde un occhio, sangue dappertutto, non si contano le ossa fratturate.
La stampa nemmeno ne parla. Nessun dottore visita i feriti, che
vengono chiusi tutti insieme in un'unica sezione, senza ricambio
d'aria, per tre interminabili giorni.
Giuliano riceve i propri effetti personali da Torino. Qualche
guardia gli ha rubato la radio e la scacchiera. I genitori riescono
a ottenere il permesso di visita. Sono scortati dentro il carcere
da molte guardie, devono percorrere un corridoio di secondini
schierati, e il colloquio avviene alla presenza di altre guardie.
Una vergognosa esibizione di strapotere, e per impressionare chi?
Una coppia di anziani coniugi stravolti dal dolore e stanchi per
il viaggio.
Il 15 marzo un altro notaio si reca in carcere per le pratiche
del matrimonio ma, ancora una volta, Giuliano è stato trasferito
il giorno prima e "parcheggiato" a Genova, in attesa
di essere tradotto a Porto Azzurro, sull'Isola d'Elba. Il giorno
di pasqua arrivano i genitori e il solito notaio: Per l'ennesima
volta, Giuliano è appena stato tradotto. È difficile
giustificare con la casualità il fatto che Giuliano venga
trasferito sempre alla vigilia della visita del notaio: è
chiaro si vuole colpirlo ancora più duramente negli affetti,
impedendogli persino di sposarsi.
Giuliano arriva all'Elba il 10/4/1977. Dieci giorni dopo, un notaio
riesce finalmente a visitarlo e viene "celebrato" il
matrimonio, seppure a distanza.
Durante l'estate viene approntato il circuito delle carceri speciali.
Giuliano viene trasferito a Fossombrone. Per giungere alla sala
colloqui di questo supercarcere, i parenti dei detenuti devono,
nell'ordine:
- farsi identificare, schedare e perquisire le borse dai carabinieri
del posto di blocco;
- attendere all'aperto di essere chiamati via radio (l'attesa
può durare diverse ore);
- avvicinarsi al portone del carcere due alla volta, farsi osservare
al monitor e consegnare i documenti alle guardie;
- sottoporsi a un'altra perquisizione e al controllo col metal
detector;
- consegnare il pacco, che può contenere solo piccole quantità
di cibo e un cambio di biancheria per un solo giorno. Chissà
perché, è proibito portare ai detenuti polveri e
liquidi, agrumi e frutti esotici, molluschi, crostacei, pesci
e pasticceria fresca.
Il 9/10/1977 Giuliano viene trasferito all'Asinara (direttore:
dott. Luigi Cardullo). Sull'elicottero, Giuliano ha mani e piedi
incatenati al pavimento.
Per i parenti raggiungere l'Asinara è quasi impossibile,
sia per i costi sia perché le condizioni del mare sono
un ottimo pretesto per impedire le visite: per ben due volte Rosella
impiega soldi e tre giorni di viaggio per attraccare all'Asinara
senza che il dott. Cardullo la lasci scendere per vedere suo marito.
Il 2/10/1979 scoppia la rivolta contro i citofoni e i colloqui
col vetro antiproiettile, contro le crescenti restrizioni della
socialità interna e soprattutto contro l'annientamento.
Ribellarsi è l'unico modo di sentirsi ancora vivi. Giuliano
è tra gli insorti, e questo gli costerà l'ennesimo
mandato di cattura, con capi d'accusa pesantissimi (danneggiamento
aggravato, detenzione illecita di esplosivo e punteruoli, tentato
omicidio di cinque guardie).
Giuliano è ancora in attesa di giudizio. Per prolungare
la sua carcerazione preventiva si è ricorso e si continuerà
a ricorrere a ogni possibile stratagemma e cavillo, e a tutto
l'armamentario da Inquisizione che poi verrà usato nel
caso 7 Aprile.
Nel febbraio 1978 vengono depositati per la prima volta gli atti
istruttori. La difesa, che li può finalmente conoscere
nella loro interezza (o meglio, nella loro pochezza), chiede e
ottiene da Caselli un supplemento di istruttoria, nel corso del
quale si fanno accertamenti che indeboliscono ulteriormente l'impianto
dell'accusa. Tuttavia, Giuliano viene rinviato a giudizio dieci
giorni prima della decorrenza dei termini di carcerazione preventiva
(ordinanza del 19/7/1978).
Il processo si apre a Torino il 18/3/1980, quasi quattro anni
dopo l'arresto. Il palazzo di giustizia viene trasformato in un
fortilizio, circondato da autoblindo e poliziotti con giubbotto
antiproiettile. I due super-testi non si presentano: pare che
Tony lo slavo sia in carcere a Marsiglia, mentre Leonardi è
irreperibile. Si presentano alcuni testimoni minori, le cui deposizioni
mettono in crisi le tesi del Pm. Giuliano potrebbe anche essere
assolto, ma Caselli viene salvato dal deus ex machina Patrizio
Peci, il primo e il più importante "pentito"
delle Br, le cui rivelazioni hanno già fatto ammazzare
quattro brigatisti della colonna genovese, nel "covo"
di via Fracchia [4].
Insomma, [Caselli] mi fece una grandissima impressione, anche più di Dalla Chiesa: è stato di fronte a lui, più che a qualsiasi altro, che mi sono detto: "Ma erano questi gli uomini che volevamo sterminare? Ma questi sono uomini eccezionali!" (Patrizio Peci, Io l'infame, Mondadori, Milano 1983, p. 198).
1/4/1980, caserma dei carabinieri di Cambiano (TO): dopo un
mese di isolamento, interrogatori e minacce, Peci riferisce presunte
dichiarazioni del suo ex-compagno Raffaele Fiore; la formazione
esatta del commando che ha ucciso Coco sarebbe: Mario Moretti,
Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Rocco Micaletto e forse
altri, tra cui Giuliano Naria. Fiore scrive una lettera di smentita
e chiede un confronto con Peci, ma siamo già nella pentitocrazia,
Peci non può essere esibito né tantomeno smentito
in aula. Meglio interrompere il processo, tanto, grazie alle nuove
norme sul carcere preventivo contenute nella legge Cossiga, non
c'è pericolo che Giuliano venga scarcerato.
L'odissea riprende, e la raccontiamo a grandi linee: Giuliano
inizia uno sciopero della fame che ne devasta il fisico e la psiche
sconfinando in una grave forma di anoressia. A questo punto il
suo percorso incrocia quello di un'altra vittima del pentitismo,
il giornalista e presentatore televisivo Enzo Tortora, che ha
appena ottenuto gli arresti domiciliari ed è intenzionato
a rendere noti con ogni mezzo gli abusi subiti dalla popolazione
carceraria, in particolare dai detenuti in attesa di giudizio
(cfr. cap.7). La moglie di Giuliano, Rosella Simone, va a trovare
Tortora nella sua casa di Milano, e lo mette a parte delle violenze
fisiche e psicologiche subite dal marito. Tortora è un
liberale vecchio stampo, un gentleman forse un po' lezioso, ma
di grande correttezza. D'ora in poi coglierà molte occasioni
per parlare di Giuliano:
...ricordo che, sconfortato dalle dolenti considerazioni di quella donna, mi alzai, andai al telefono, cercai due autorevoli giornalisti e gli chiesi di intervenire scrivendo subito qualcosa. La risposta fu: "Ne abbiamo già parlato". Allora capii che il mondo non è diviso soltanto tra le due Grandi Potenze, in sani e ammalati, in galantuomini e disonesti ma anche tra coloro che hanno visto la galera e coloro che non ne sanno niente e niente preferiscono saperne. (Enzo Tortora, Cara Italia ti scrivo, Mondadori, Milano 1984, p.80)
Il 17/6/1984 Tortora viene eletto deputato al parlamento europeo nella lista del Partito Radicale. Qualche settimana dopo scadono i termini della sua carcerazione preventiva. Può quindi recarsi a Strasburgo e occupare il proprio seggio, ma non prima di aver visitato Giuliano in carcere:
...Destinazione, questa volta, Torino. Volevo visitare Naria... in galera da otto anni e trasferito dal carcere romano di Rebibbia in un "repartino blindato" dell'ospedale Le Molinette perché affetto da anoressia, un male che stava distruggendolo [...] Trovai il detenuto afflosciato su un lettino, magrissimo, eppure lucido. Teneva la testa su tre cuscini, indossava una maglietta, un paio di pantaloncini corti e, quando mi guardò con due occhi enormi, mi sembrò quasi uno scheletro.
Durante il colloquio mi sentii quasi mancare. Un'infermiera mi portò un calmante [...] Uscii sconvolto e trovai alcuni cronisti col taccuino in mano. Prima dissi: "Se negano gli arresti domiciliari a quel ragazzo lo condannano a morire". Poi aggiunsi: "Quel che ho visto mi ricorda i documentari dei campi di concentramento nazisti filmati dagli americani tanti anni fa." (Ibidem, p.121)
A Strasburgo Tortora incontra il sindaco di Torino Diego Novelli
(Pci), e lo prega di recarsi alle Molinette e rendersi conto di
persona delle condizioni di Giuliano. Non ci è dato sapere
se Novelli lo abbia fatto. Il 24 luglio Tortora inserisce un accenno
al caso Naria nel suo primo, breve intervento da eurodeputato.
Gli arresti domiciliari vengono concessi a Giuliano solo nell'estate
del 1985. L'anno dopo viene assolto dall'accusa di avere ucciso
Coco e la sua scorta. Negli anni successivi viene assolto anche
dalle altre accuse, ma il suo fisico è ormai gravemente
debilitato. Nel 1995 gli viene diagnosticato un tumore, proprio
come a Tortora. Giuliano muore all'Istituto dei Tumori di Milano
sabato 29/6/1997. Un'altra vittima del pentitismo, Ovidio Bompressi,
commenta la sua morte su "Il Manifesto" dell'1 luglio:
"Naria ha pagato come pochi altri il prezzo delle leggi speciali
anti-terrorismo, e per giunta da perfetto innocente: la sua morte,
se non è bastata la sua lunga agonia, dovrebbe fare tremare
molte buone coscienze". Ci piace accostare la sua frase a
un'anonima testimonianza di vent'anni prima, dal citato opuscolo
Il caso Coco - Processo a Giuliano Naria (pp.89-91):
È sempre difficile parlare o scrivere di un compagno incarcerato senza cadere nella retorica, perchè in effetti l'unica cosa che c'è da dire è che ti manca la sua presenza nella lotta, nella vita. Dire di ciò che era prima è sempre un problema, perché non era niente o meglio era un compagno di strada, di lotta, era uno che viveva la sua vita, uno che viveva le sue crisi, i suoi problemi, come li vivono milioni di uomini e di donne.
Ma a volte è utile dire anche queste cose, come nel caso di Giuliano, perché invece oggi è presentato come un marziano, uno diverso da noi, come uno che ha cominciato a vivere dal momento in cui è stato catturato, e della sua vita scrivono i poliziotti e i giudici.
Giuliano è quello che è ognuno di noi.
NOTE
1. Ritroveremo Caselli procuratore capo a Palermo nell'era
post-Falcone, durante l'alta marea dell'emergenza-mafia e del
"pentitismo", e analizzeremo certe sue proteste e proposte.
Quanto a Luciano Violante, possiamo senz'altro definirlo una figura-chiave,
costante interfaccia tra magistratura e politica, teorico e protagonista
dei più delicati passaggi da un'emergenza all'altra. Il
3/6/1979, all'età di trentotto anni, viene eletto alla
camera dei deputati (lista Pci, circoscrizione Torino-Novara-Vercelli).
D'ora in avanti i suoi numerosi incarichi comprenderanno quello
di vice-capogruppo del Pds, di vicepresidente della commissione
giustizia, di presidente della commissione antimafia, di membro
della commissione per gli affari costituzionali e di quella speciale
per la riforma dell'immunità parlamentare, fino a diventare
presidente della camera. Dalla vittoria dell'Ulivo in avanti,
sarà proprio lui in prima linea nella normalizzazione
dei rapporti tra magistratura e politica, dopo i feroci scontri
del periodo 1992-95. Seguiremo da vicino le sue prese di posizione
durante l'emergenza-microcriminalità del 1999.
2. Cfr. R. Canosa - A. Santosuosso, "Il processo politico in Italia", in: "Critica del Diritto" n.23-24, pp.13-14.
3. Diretto da Giuliano Ferrara (non ancora craxiano, berlusconiano e soprattutto..."garantista"). Sulla rivista, Caselli cura la rubrica "Problemi dello Stato", in cui definisce e rifinisce quella che diverrà la "cultura del sospetto".
4. Scrive Giorgio Bocca: "La testa della colonna viene tagliata in via Fracchia, il 28 marzo 1980. Su delazione di Peci i carabinieri di Dalla Chiesa arrivano al covo affittato dalla brigatista Ludman Cecilia. Si procede secondo la legge del taglione: quattro carabinieri uccisi a Genova, quattro brigatisti giustiziati: Dura, Betassa, Panciarelli e la Ludman, la insospettabile impiegata. Per alcune ore l'accesso al covo viene impedito a tutti, anche ai magistrati, le tracce della vendetta devono scomparire. Del resto, à la guerre comme à la guerre, il terribile monito di Dalla Chiesa non resta senza effetto, la paura incomincia a serpeggiare nelle colonne, i pentiti si moltiplicano. La stessa stampa lascia cadere un'indagine che sarebbe facilissima, non chiede perché mai si sia arrivati a uno scontro a fuoco quando la casa era circondata e i brigatisti senza via di scampo" (op. cit., p.171). A descrivere via Fracchia come una strage di stato non siamo noi, ma un "decano" del giornalismo italiano.