I.
Cercheremo di essere lievi.
Chiamiamo "emergenza" una continua ri-definizione
strumentale del "nemico pubblico" da parte dei poteri
costituiti. Grazie all'emergenza, agli occhi della fantomatica
"opinione pubblica" viene resa accettabile non solo
la violazione ma la vera e propria sospensione delle libertà
formalmente sancite dalle costituzioni e dalle carte dei
diritti umani. Accettabile? Di più: necessaria e
auspicabile al fine di "difendere la democrazia".
In Italia, dagli anni Settanta in avanti, il metodo di governo
è consistito interamente in un avvicendarsi di emergenze.
In questo paese esiste da sempre una complicata dialettica dell'incostituzionalità,
al cui interno l'emergenza ha stabilito una propria retorica,
un compiuto ma fluido sistema di metafore, un peculiare modo di
cristallizzarsi nel diritto scritto e nel costume nazionale.
Le emergenze servono a introdurre nuove forme coercitive nella
divisione sociale del lavoro, o tutt'al più a preservare
quelle già esistenti. Certo, servono anche al regolamento
di conti gangsteristico tra diverse sezioni di capitale (d'ora
in poi le chiameremo "cosche"), vedi l'esempio di Mani
Pulite... Ma questo viene dopo: l'esigenza primaria è la
coercizione di cui sopra, il controllo sociale, la prevenzione
di probabili "devianze" e antagonismi; le cosche si
scontrano tra loro per assicurarsi il governo di tale prevenzione.
In Italia l'emergenza per antonomasia, quella rappresentata dalla
lotta al "terrorismo", nasce come contro-movimento rispetto
alle lotte iniziate con l'Autunno Caldo: lo Stato si muove per
distruggere le avanguardie dei lavoratori in lotta, usando le
"forze eversive" come capro espiatorio e spettacolo
di copertura, confinando il conflitto sociale alla sfera del penale
e del giudiziario.
Terminato quello scontro, l'emergenza, lungi dall'esaurirsi,
diviene permanente e soprattutto molecolare.
Studiando a fondo le politiche e le retoriche emergenziali, abbiamo
infatti individuato un trend: la molecolarizzazione dell'emergenza,
un suo spingersi dalla res publica ai microlegami sociali,
dall'ordine pubblico alla privacy, fino ai recessi delle
differenze singolari. In altre parole: dal Politico (territorio
già completamente colonizzato e ristrutturato) al Culturale
(in senso lato, antropologico) allo... Spirituale.
La svolta è stata imposta combinando tre diverse strategie:
- la revisione dell'ordinamento giuridico, con la soggettivazione
del diritto penale, l'introduzione di meccanismi premiali e più
in generale l'accentuazione di quello che è stato definito
il "modello cattolico", inquisitorio;
- l'uso terroristico dell'intero sistema dei media, con periodiche
campagne d'allarme, tanto violente quanto strumentali, a cui seguono
risposte in termini di "legge e ordine" da parte della
"gente", groviglio indistinto di campioni statistici
stimolati a colpi di slogan e sondaggi-farsa.
- a livello transnazionale, il "dirottamento" dell'innovazione
tecnologica, con l'installazione di sempre nuovi dispositivi di
controllo e sorveglianza: intercettazioni telefoniche e ambientali,
videocamere in ogni strada, controlli satellitari, bracciali elettronici
per chi sta agli arresti domiciliari etc.
In questo senso l'Italia è servita da laboratorio, come
già negli anni venti (col fascismo) e nel dopoguerra (come
turbolento teatrino e campo da gioco della guerra fredda). Gli
esperimenti giuridici, mediatici e in generale biopolitici
condotti negli ultimi venticinque anni si sono rivelati utilissimi
durante il processo di integrazione pan-europea delle dinamiche
di repressione e controllo sociale [1].
La molecolarizzazione delle emergenze è tipica
dello stato postmoderno e delle sue pratiche di governo. Tali
pratiche corrispondono sempre a nuove figure disciplinari
dell'organizzazione del lavoro: col post-fordismo è emerso
un nuovo lavoro vivo che il capitale deve tenere sotto controllo.
Si spiega solo così il furibondo assalto a Internet da
parte delle polizie, delle magistrature e delle classi politiche
di tutto il nord del mondo: Internet è il più importante
capro espiatorio dei nostri tempi, la madre di tutte le nuove
emergenze, la jihad che presuppone e giustifica ogni guerra
locale.
La forma-stato postmoderna si pensa come autosufficiente, non
sente più la necessità di una legittimazione che
passi per il rapporto conflittuale con la "società
civile". Da sempre il capitale coltiva un'utopia, quella
di
mostrare se stesso come separato dal lavoro, rappresentare una società capitalistica che non guarda al lavoro come al suo fondamento dinamico e, perciò, rompe la dialettica sociale caratterizzata dal continuo conflitto tra capitale e lavoro.
(A. Negri - M. Hardt, Il lavoro di Dioniso. Per la critica dello stato postmoderno, Manifestolibri, Roma 1995, p.40)
Studiando le principali teorie giuridiche contemporanee, Negri
e Hardt le hanno trovate perfettamente in sintonia con l'utopia
del capitale. In esse è avvenuta una de-costituzionalizzazione
del lavoro, conseguenza di un'elusione-espulsione del conflitto
sociale e della sua forza creativa-costituente.
Lo stato postmoderno è un nosferatu bionico armato di manganello
e pungolo elettrico, un freddo Terminator che si pone come unico
scopo quello di mantenere l'ordine. Viene a mancare del tutto
quella forza "dionisiaca" che s'era infilata nelle costituzioni
fordiste-keynesiane come soggettività "altra"
che, per il solo fatto di esserci, innescava o avrebbe dovuto
innescare il cambiamento dello status quo.
Soffermiamoci su quest'ultimo punto. L'Art.. 3 della Costituzione
italiana, comma II, recita:
E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che [...] impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
L'Assemblea costituente accolse una proposta del socialista Lelio Basso. In pratica nella Costituzione vennero inseriti, seppure attenuati, elementi della critica marxiana al riconoscimento meramente formale - e in ogni caso individualistico - dell'eguaglianza, tipico dello stato liberale. In uno dei suoi testi più belli e potenti (La Questione ebraica, 1843), Karl Marx spiega che il soggetto dei "diritti dell'uomo" altri non è che il "cittadino astratto", vale a dire "l'uomo egoista, l'uomo separato dall'uomo e dalla comunità [...] l'individuo limitato, limitato a sé stesso":
Nessuno dei cosiddetti diritti dell'uomo oltrepassa dunque l'uomo egoista, l'uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato, e isolato dalla comunità [Gemeinwesen]. Ben lungi dall'essere l'uomo inteso in essi come ente generico [Gattungswesen], la stessa vita della specie, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria. L'unico legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il bisogno e l'interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica (K. Marx, La questione ebraica, Editori Riuniti, Roma 1996)[1].
In un secolo di lotte, il movimento operaio aveva espresso
una devastante critica pratica a tale concezione dell'eguaglianza,
sfidando un'ideologia dominante che predicava l'eguaglianza giuridica,
astratta, formale, ma difendeva il persistere e l'estendersi delle
disuguaglianze socio-economiche, concrete, materiali. Lelio
Basso e altri costituenti provenienti dal movimento operaio riuscirono
a registrare tale critica nei "princìpi fondamentali"
della Costituzione [2].
Iniziativa meritoria, che però va immediatamente "spersonalizzata":
in realtà fu lo sviluppo del welfare state, a partire
dalle teorie economiche di John Maynard Keynes e passando per
le politiche del New Deal rooseveltiano, a comportare necessariamente
una regolazione della produzione e dei conflitti scatenati dal,
sul e intorno al lavoro vivo. Ne derivò, in molti paesi
e in forme diversissime tra loro, un nuovo regime giuridico basato
sul lavoro, del quale la nostra Costituzione è un esempio
paradigmatico [3].
Sul compromesso tra quali forze, su quali rapporti materiali
si basava la costituzionalizzazione del lavoro, e perché
negli anni ottanta quel compromesso è saltato definitivamente?
Ma soprattutto: che c'entra questo con le emergenze, lo stato
di polizia e la società di controllo? C'entra eccome, anzi,
parte tutto da qui.
La questione è stata varie volte riepilogata; la vecchia
Costituzione fordista-laborista dello stato sociale è entrata
in crisi perché non esistono più i soggetti che
la scrissero:
Da un lato la borghesia nazionale e dall'altro la classe operaia industriale, organizzata nei sindacati e nei partiti socialisti e comunisti. Il sistema liberal-democratico è stato allora piegato alle esigenze dello sviluppo industriale e della ripartizione del reddito globale fra queste classi. Le costituzioni formali potevano essere più o meno differenti, ma la "costituzione materiale" - la convenzione fondamentale di ripartizione dei poteri e dei contropoteri, del lavoro e del reddito, dei diritti e delle libertà - fu sostanzialmente omogenea. Le borghesie nazionali rinunciarono al fascismo ed ebbero garantito il loro potere di sfruttamento all'interno di un sistema di ripartizione del reddito nazionale che prevedeva - in un quadro di sviluppo continuo - la costruzione di Welfare per la classe operaia nazionale: quest'ultima rinunciava alla rivoluzione.
Ora, con la crisi degli anni Sessanta conclusa nell'evento emblematico del '68, lo Stato a costituzione fordista entra in crisi. I soggetti dell'accordo... sono mutati. Da un lato le differenti borghesie si internazionalizzano, fondano il loro potere sulla trasformazione finanziaria del capitale, si fanno rappresentazioni astratte del potere; dall'altro lato la classe operaia industriale (in seguito alle radicali trasformazioni del modo di produrre: trionfo dell'automazione nel lavoro industriale e informatizzazione del lavoro sociale) trasforma la propria identità culturale, sociale e politica. A una borghesia finanziaria e multinazionale (che non vede le ragioni per le quali deve sopportare il peso del Welfare nazionale) corrisponde un proletariato socializzato, intellettuale - tanto ricco di nuovi bisogni quanto incapace di continuità con le articolazioni del compromesso fordista. (Toni Negri, L'inverno è finito. Scritti sulla trasformazione negata 1989-1995, Castelvecchi, Roma 1996, p.215)
È già stato scritto moltissimo sulla schiacciante
offensiva neo-liberista che ha prodotto il cosiddetto Pensiero
Unico, sulla Reaganomics e sul thatcherismo negli anni
ottanta, sulla deregulation e sullo smantellamento dello
stato sociale, sulle catastrofiche politiche del Fmi etc. Non
c'è bisogno di riassumere qui tali vicende, basti dire
che è finita la dialettica sociale: dalla mediazione istituzionale
dei conflitti e dalla contrattazione collettiva siamo passati
all'isolamento e all'esclusione brutale dei soggetti conflittuali,
insieme a interi strati della società.
In cosa si è dunque trasformato lo Stato? Allo specchio
vorrebbe vedersi "snello", ma è uno Stato (di
taglia) forte, più che mai "interventista"
nel suo ruolo di sorvegliante, gendarme, tutore della legalità.
Qui il colore politico dei governi non conta, rosa pallido o grigio
chiaro non cambia niente: lo stato postmoderno di polizia
è un prodotto e un elemento della nuova costituzione
materiale sovranazionale. In parole povere, è il cane
da difesa di un capitale finanziario sempre più vampiresco
e votato alla più forsennata distruzione. Talvolta, il
pitbull si trasforma in un sanbernardo col barilotto di liquore
al collo, pronto a salvare questa o quella multinazionale caduta
nel crepaccio. In che altra maniera descrivere lo sconcio Accordo
Multilaterale sugli Investimenti? [4]
La forma-stato postmoderna incorpora in sé l'emergenza
non più come eccezione e "strappo" costituzionale,
ma come regola: venendo a mancare un riconoscimento degli antagonismi
società-stato e lavoro-capitale, la funzione dello stato
si riduce a mera "scienza di polizia". Ogni conflitto
viene interpretato come emergenza; si tratterà quindi di
prevenire estendendo e perfezionando (grazie a tecnologie
impensabili fino a poche ore fa) il controllo sociale, e reprimere
dando sempre più potere alle forze dell'ordine.
Per poter governare questo passaggio nella peculiare situazione
italiana, la classe capitalistica ha dovuto affidarsi soprattutto
ai magistrati, e costruire uno "stato autoritario di diritto"
basato sul "modello cattolico", la cui fonte di "normativa
rinnegante" è lo stridente contrasto tra Costituzione
repubblicana e ordinamento giuridico fascista. Come vedremo, il
giudiziario ha garantito la tenuta del sistema per tutti gli anni
Settanta e Ottanta, poi si è attribuito un "mandato
speciale" e ha accelerato il necessario ricambio di classe
dirigente finché non è divenuto esso stesso una
minaccia per la stabilità, e gli altri poteri dello stato
si sono mossi per limitarne l'autonomia inquisitoria, in nome
(ed è storia di questi giorni) di una polizeiwissenchaft
più integrata, capillare ed efficace.
Questo per quanto riguarda il capitale. E il suo perplesso antagonista,
il lavoro vivo? Nel corso della crisi lo si è decostituzionalizzato,
eluso, escluso, disperso, trasformato in soggetto d'emergenza...
Ma per ogni mito che appare nel monologo auto-elogiativo del
potere, ce n'è sempre uno non narrato e innominato che
gli accenna dall'ombra, affiorando per allusioni, schegge, coincidenze,
senza che mai un autore osi raccontarlo di seguito come una singola
storia. È il mito di Dioniso, di quella forza-invenzione
che è ovunque ed è in chiunque. Tutto viene
creato dalla pressione che esercita l'irriducibile lavoro vivo,
la cui conflittualità di ammazzavampiri si ridisloca e
trasforma senza sosta, ma non si spegne mai. Le nuove emergenze
molecolari sono fatte anche per monitorare, controllare e censurare
la comunicazione telematica, e più precisamente i comportamenti
dei nuovi lavoratori dell'immateriale, soggetti che si riappropriano
del know-how e della capacità d'innovazione, acquisendo
sempre più autonomia dall'organizzazione del comando,e
il cui uso delle reti e del computer può in ogni momento
divenire disfunzionale, rovesciarsi in sabotaggio, connessione
delle lotte, "disobbedienza civile elettronica". E'
l'operaio sociale la vera emergenza.
Il liberatore Internet è già molto avanti nel liberare crimine. Il mostro di Dusseldorf, il valoroso Landru, le vittime andavano a cercarsele fuori casa, facevano talvolta una notevole fatica a trovarle: l'assassino telematico resta là, [...] seduto davanti al video, in attesa del nome e dell'immagine della vittima. Chissà se per uccidere si alzerà in piedi o se continuerà a navigare , tra onde invisibili che si tingono di sangue? Una delle supreme voci tragiche moderne, Georg Buchner, nella Morte di Danton , atto quarto: "Il Nulla è il Dio Mondiale nascituro". E' questo il Messia che viene dal video di Internet: il Nulla, ma sanguinario, un Weltgott che non si appaga del vuoto. La rete mondiale dei pedofili è una delle sue creazioni mortali." (Guido Ceronetti, "La Stampa", 8/9/1998)
In giudizi come questo noi vediamo la paura della grande "disintermediazione"
operata da Internet, processo che ovviamente spaventa i sopravvissuti
dell'Ancien Régime pre-digitale, quei ceti e categorie
la cui funzione era per l'appunto intermediatoria: tra
lavoro e comando, tra ricevente e fonte dell'informazione (giornalisti,
"esperti" opinionisti), tra cittadino e poteri forti
(burocrati) o addirittura tra essere e nulla (i vari ceronetti),
tra mondo delle idee e mondo delle cose etc.
Non che tutti i Pm distaccati sui "crimini telematici"
abbiano chiaro in testa questo processo, ma ormai opera un dispositivo
che crea ignoranza e demonizzazione, e porta a colpire sempre
in precise direzioni, verso soggettività indecifrabili
e irriducibili in altro modo: l'intellettuale-massa, il netizen,
il "lavoratore autonomo di seconda generazione" (di
cui spesso "non si capisce cosa faccia per vivere"!)
e quella galassia "alternativa" il cui consumo culturale
è estremo e spesso coincide con l'autoproduzione
di cultura altra.
Queste operazioni repressive hanno una dimensione planetaria,
per la prima volta vengono demonizzati gli stessi strumenti di
lavoro e di comunicazione (mezzi di produzione che ormai l'operaio
sociale controlla direttamente). Si parla di censura, "autoregolamentazione",
rating dei contenuti, programmi-filtro che rendano la Rete
più family-friendly.
Le vecchie lotte del lavoro vivo hanno portato alla "democratizzazione"
del computing; il capitale ha recuperato, ma lo stato postmoderno
di polizia non può permettere che col computer si faccia
ciò che si vuole, quindi corre ai ripari.
Visti in quest'ottica, i frequenti sequestri di computer sono
forme di prevenzione e controllo, tramite l'esempio intimidatorio
di una espulsione dalla fabbrica diffusa. Chi scrive gli
intangibili manuali del controllo sociale post-fordista sta "citando"
episodi dal testo del vecchio modo di produzione. Ad essere riproposto
in chiave inedita è nientemeno che il licenziamento degli
operai più turbolenti perché non diffondano sedizione
e insubordinazione.
Lo stato postmoderno di polizia deve invalidare le conquiste
giuridiche dei precedenti cicli di lotte (se necessario - e lo
è! - risalendo fino al 1789, assieme agli stregoni d'Oltretevere)
e impedire che il nuovo lavoro vivo impugni (senza nemmeno il
bisogno di scriverla) la propria "costituzione".
Spostare le emergenze dal molare (l'impatto di masse, la
battaglia campale, lo scontro sul proscenio della vita pubblica)
al molecolare (la micro-conflittualità del quotidiano,
le differenze, la controllabilità del singolo attraverso
flussi di dati) serve a disciplinare la comunicazione, cioè
il lavoro immateriale.
E qui veniamo alla seconda parte del libro: le emergenze molecolari
richiedono una grande guerra della semiotizzazione, combattuta
con armi retoriche terra-aria, a lunghissima gittata. Ci sembra
che nell'Italia del centro-sinistra e dell'imminente Giubileo
sia soprattutto la Chiesa - temprata da anni di restaurazione
woytiliana, di nuovo ecumenismo, di strombazzatissime (ancorché
millantate) vittorie geopolitiche - a combattere questa guerra.
E' evidente che al filone autonomo/post-operaista (o "composizionista")
del marxismo italiano manca un'analisi del Vaticano come superpotenza-senza-territorio,
Stato-senza-polizia, colossale parassita del lavoro immateriale
e - conseguentemente - macchina produttrice di emergenze.
Forse si ha paura di scadere nell'anticlericalismo di stampo anarchico,
garibaldino o genericamente laico, percepito come vecchio e muffoso.
Ma diteci quale forza storica, quale gruppo di potere ha più
esperienza della Chiesa nel costruire e gestire molecolarmente
sistemi di controllo che stiano in piedi senza e oltre
la forma stato-nazione liberaldemocratica?
Individuare nella Chiesa uno dei nemici più subdoli e pericolosi
non è per niente anacronistico, se non altro perché
in una società dove ormai tutto convive (Internet e blut
und boden, stimmate di Padre Pio e soia transgenica), non
ci sono più anacronismi.
Inoltre se, come ha osservato Toni Negri, la borghesia internazionale
non ha più alcuna funzione produttiva ma solo finanziaria
e parassitaria, "una specie di Chiesa romana del capitale,
col "denaro" come Bibbia, santità e miracoli",
che c'è di strano se la Chiesa propone ai borghesi di ri-sottomettersi
ad essa fuor di metafora? E se in Europa - come ha dimostrato
Italo Mereu (cfr. cap.4) - il "modello cattolico" ha
garantito alle classi dominanti la quasi perfetta repressione
del dissenso, è normale che la Chiesa ne rivendichi il
"copyright" e cerchi di riconquistare il primato.
Ma ora dobbiamo tornare indietro, ripartire dal "compromesso
storico" (1973-79), cioè dalla conditio sine qua
non dell'emergenza in Italia.
II.
Nel 1969, un anno dopo l'inizio del movimento studentesco,
si muove la classe operaia di fabbrica, che da inizio a un movimento
egualitario per la parità salariale e i diritti dei lavoratori,
il cosiddetto Autunno Caldo. Le lotte tengono in scacco il padronato,
si estendono per contagio a tutto il mondo del lavoro e obbligano
la classe politica a una fase riformatrice che dura quasi un lustro:
è opportuno ricordare l'approvazione dello Statuto dei
lavoratori (legge n.300 del 20/5/1970), l'istituzione del divorzio
(legge n.898 del 1/12/1970), il riconoscimento dell'obiezione
di coscienza (legge n.772 del 15/12/1972) e la proposta di riforma
del codice di procedura penale (legge-delega n.108 del 3/4/1974).
Ma questa non è l'unica risposta dello Stato; ve ne sono
almeno altre due.
La prima è la violenza poliziesca. Alcuni esempi:
2/12/1968, Avola (SR), sciopero generale dei braccianti per il
rinnovo del contratto. La polizia spara ad altezza d'uomo, uccidendo
due scioperanti. Decine di feriti.
9/4/1969, Battipaglia (SA), manifestazione contro la chiusura
del tabacchificio locale. La polizia carica i dimostranti e spara
uccidendo, oltre a un dimostrante, una signora che stava alla
finestra. Più di cento feriti da arma da fuoco.
2/8/1970, Porto Marghera (VE), sciopero dei petrolchimici, con
l'adesione dei metalmeccanici. Vengono innalzate barricate. Durante
le trattative col responsabile delle forze dell'ordine, un agente
spara e ferisce un operaio con due pallottole al fegato.
La seconda risposta è la "strategia della tensione",
cioè la provocazione criminale ai danni del movimento,
da parte di settori dello stato quali i servizi segreti. La strage
di Piazza Fontana (12/12/ 1969) inaugura la stagione delle bombe,
delle stragi di stato e delle montature giudiziarie. Sul processo
Valpreda e sulla strategia della tensione in generale esistono
numerosi testi, quindi non ci soffermeremo, salvo far notare che
è lo stato il primo a ricorrere a metodi terroristici.
Brigate Rosse e compagnia arriveranno molto più tardi,
e andrebbero visti anche come un effetto dello stragismo
e della repressione, una sciagurata risposta alle provocazioni.
Nonostante le molte difficoltà, incomprensioni ed asprezze
reciproche, il dialogo tra i nuovi movimenti e la sinistra parlamentare
(manifestamente presa in contropiede), prosegue fino al 1973.
Nel 1969, dopo l'eccidio di Avola, il Pci è alla testa
delle battaglie per il disarmo della polizia. Nel 1972, dopo l'uccisione
a Pisa, da parte della polizia, dell'anarchico Franco Serantini,
l'anziano dirigente comunista Umberto Terracini scrive parole
di fuoco sul settimanale del partito Rinascita:
...penso che l'agghiacciante avvenimento della vigilia elettorale pisana debba spingere il paese a imporre... la riforma radicale dei corpi separati del potere politico, specie quelli della giustizia, della polizia e delle carceri. La sesta legislatura deve dunque affrontarlo senza ambiguità e remore, immergendo il ferro rovente nel fianco canceroso di queste strutture le quali, nutrite dalla dittatura con le sue linfe più tossiche, stanno sempre maggiormente rodendo dall'interno le istituzioni democratiche con un processo di metastasi del quale l'orribile misfatto di Pisa è un sintomo ammonitore. (cit. in: Corrado Stajano, Il sovversivo, "l'Unità"/Einaudi, Roma 1994, p. 123)
Ancora nel 1973 (mentre Terracini, per via del suo articolo, viene incriminato per "vilipendio dell'ordine giudiziario e delle forze armate dello Stato"), il Pci si oppone con forza al tentativo di introduzione del fermo di polizia da parte del governo Andreotti. Ma sta per iniziare una nuova fase.
Zoom out: proprio nel 1973, su iniziativa di David
Rockefeller, nasce la Trilateral Commission, gruppo di
pressione di cui fanno parte i più importanti magnati e
capitani d'industria americani, europei e giapponesi, oltre a
politici, economisti e giornalisti. La posizione della Trilateral
è che in nome della "stabilità" del sistema
si debbano porre limiti alla "estensione potenzialmente indefinita
della democrazia politica". La partecipazione di sempre più
gruppi (tra cui "i negri") sta provocando un "indebolimento
dei mezzi tradizionali di controllo sociale" e "una
delegittimazione dell'autorità politica". Per far
funzionare il sistema e non "sovraccaricarlo" di "richieste
che estendono le sue funzioni ed erodono la sua autorità",
è necessaria "una certa misura di apatia" e la
"marginalizzazione di alcuni gruppi". Secondo la Trilateral
i governi devono affrontare una "minaccia interna" rappresentata
dagli intellettuali radicali che seminano "disgusto"
e "malcontento", pericolo "potenzialmente almeno,
serio allo stesso modo in cui lo furono in passato... i movimenti
fascisti e comunisti"[5]. È in questo periodo che
la "stabilità" e la "governabilità"
del sistema iniziano a essere considerati valori puri e indiscutibili.
La crisi dello stato sociale fordista si "risolverà"
in un lungo processo di involuzione autoritaria.
Zoom in: con la proposta di "compromesso storico"
il Pci inizia a cambiare strategia, fino a identificarsi completamente
con la repressione e le leggi speciali, invitando i propri iscritti
alla delazione sistematica e spedendo i propri magistrati alla
crociata contro i sovversivi. Una mutazione irreversibile, che
farà del Pci/Pds/Ds una forza politica giustizialista,
alla quale s'iscriverebbero volentieri Judge Dredd e Marion Cobretti.
Ma procediamo per gradi.
Il "compromesso storico" viene annunciato alla fine
del 1973: è il progetto di un'alleanza tra i due più
grandi partiti italiani, Pci e Democrazia Cristiana. Dai tragici
eventi cileni dello stesso anno, Enrico Berlinguer trae la conclusione
che la sinistra non potrebbe governare da sola nemmeno col 51%
dei voti. Occorre dunque superare la conventio ad excludendum
decisa dagli Stati Uniti, far entrare il Pci nella maggioranza
parlamentare e unire le masse cattoliche a quelle comuniste, in
modo da creare una maggioranza sociale oltre che politica, e scongiurare
il pericolo di un colpo di stato (la Dc cilena ha appoggiato il
golpe di Pinochet). Nonostante la Dc si mostri ostile a quest'ipotesi,
Berlinguer persevera e ribadisce le sue tesi al XIV° congresso
del partito (marzo 1975). Per dimostrare nei fatti di essere ormai
un partito democratico e filo-atlantico, il Pci collabora a imporre
ai lavoratori la cosiddetta "austerità", cioè
la deflazione monetaria e la politica di tagli e sacrifici rese
"necessarie" dalla crisi energetica e dalla crisi strutturale
del modello industriale fordista.
Il Pci ottiene un super-risultato alle elezioni amministrative
del 1975, col 33,4% (+5,5% rispetto alle politiche del '72) e
alle politiche del 1976 col 34,4%, massimo risultato di sempre.
Ma non si tratta di una ratifica da parte delle masse della strategia
berlingueriana: al contrario, è l'onda lunga della vittoria
al referendum sul divorzio (1974), e in generale della stagione
di riforme iniziata con lo Statuto dei lavoratori. Il Pci non
lo capisce, e investe i suoi voti astenendosi sulla formazione
di un monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti. È
la paradossale formula della "non sfiducia", passo decisivo
verso l'attuazione del compromesso storico.
In questi anni trova forma compiuta il "consociativismo"
a livello nazionale e locale. La lottizzazione degli enti pubblici
e la spartizione partitocratica dei posti di potere non hanno
alcun fine di "vigilanza democratica", anzi: per essere
accettato nell'area di governo, il Pci abdica a qualunque funzione
di controllo e denuncia degli abusi polizieschi e di altri fenomeni,
uno su tutti la corruzione. Dovrebbe far riflettere il fatto che
la grande fase riformatrice seguita all'Autunno Caldo si esaurisca
più o meno contemporaneamente alla proclamazione del "compromesso
storico".
I conflitti sociali s'inaspriscono, aumentano di intensità,
e poiché non c'è più una vera e propria opposizione,
ai movimenti non resta che mettere in crisi le forme di rappresentanza
politica e sindacale. È il periodo delle "assemblee
autonome" nelle fabbriche occupate, lo stesso in cui si forma
l'area dell'autonomia operaia organizzata. Mantenere l'ordine
pubblico si fa sempre più difficile, servono leggi speciali.
Qui inizia il primo capitolo di questo libro, e la lunghissima
notte dei lunghi coltelli durante la quale il Pci annienterà
o consegnerà al boia più o meno chiunque si muova
alla sua sinistra.
A tutti i livelli e con ogni mezzo, il Pci si dedica alla metodica
demolizione dei movimenti nelle fabbriche, nelle scuole, nelle
università, nei quartieri: fino alla trasformazione delle
sezioni in commissariati ausiliari, all'intimidazione verso gli
intellettuali, all'utilizzo di ogni strumento dell'arsenale stalinista
nella battaglia contro il terrorismo e l'eversione.
Il disorientamento della base operaia del partito viene incanalato
nell'odio isterico per gli "estremisti", i "gruppettari",
gli "autonomi", i "terroristi". Il Pci diffonde
la psicosi anche tra le proprie fila: la dirigenza non può
digerire il fatto che alcuni brigatisti arrestati siano ex-militanti
del partito, e fa partire sempre più pressanti inviti alla
delazione. Racconta il giudice Ferdinando Imposimato:
Nelle mie indagini ho sempre visto nel Pci il più feroce antagonista di questi transfughi. Ci offrivano collaborazione, ci segnalavano persone... Più di una volta venne da me un avvocato, a nome di Berlinguer, per comunicarmi spunti d'indagine e notizie su alcuni inquisiti. In certi casi il Pci ha finito per esagerare, come quando espulse dal partito un sindacalista accusato ingiustamente dalla falsa confessione di un "pentito". (cit. in: Centro di iniziativa Luca Rossi, Gladio, stragi, riforme istituzionali, autoprod., Milano 1991, p.33)
Il movimento del '77 sancisce definitivamente la reciproca ostilità tra movimento e partito-sindacato. "Untorelli", "fascisti" e "diciannovisti" sono alcuni degli epiteti usati da Berlinguer per descrivere gli studenti che occupano le università. A Roma, gli occupanti cacciano dalla Sapienza Lama e il suo servizio d'ordine. Ma è a Bologna, perenne show-case del buongoverno pciista, che avviene lo scontro al tempo stesso più duro e più simbolico:
...riappare la doppia organizzazione del Pci. A Bologna l'apparato paramilitare e violento è fornito da alcune aziende municipalizzate, dai loro servizi d'ordine con cui la pubblica amministrazione fornisce aiuti e forza al partito: cosa per niente inedita in un paese dove il partito di governo, la Dc, considera lo stato come una sua proprietà, ma sempre scandalosa. Sta di fatto che ci sono uffici del comune che provvedono con i mezzi comunali a schedare i nuovi sovversivi, gli avversari del partito e che nella circostanza si mettono a disposizione della polizia. (Giorgio Bocca, Noi terroristi. Dodici anni di lotta armata ricostruiti e discussi con i protagonisti, Garzanti, Milano 1985, p.178)
Fra il febbraio e il marzo 1978 il presidente della Dc Aldo
Moro tira le redini di un governo di "solidarietà
nazionale", che il Pci voterà in parlamento pur non
occupandovi poltrone ministeriali. Moro viene rapito il 16 marzo,
il giorno stesso in cui il governo si presenta alle camere. Nei
54 giorni del sequestro, il Pci è l'anima di quel "fronte
della fermezza" che rifiuta ostinatamente di trattare con
le Br, lasciando che queste ultime eseguano la loro sentenza di
morte.
La base del Pci non si raccapezza più, e le elezioni amministrative
del maggio 1978 segnano un grave arretramento del partito (-7,1%
rispetto alle politiche del '76). È la fine della tendenza
iniziata con l'Autunno Caldo. Finisce anche la "solidarietà
nazionale", poiché l'emorragia di voti apre una grande
crisi all'interno del Pci, che esce dal governo nel gennaio '79
e come se niente fosse torna a predicare l'"alternativa".
Invero, nessuna alternativa è più praticabile:
l'eroina è ovunque; le avanguardie rivoluzionarie e giovanili
sono state distrutte; centinaia di militanti affollano le patrie
galere, altri se la sono svignata prima di finirci; soprattutto,
nelle fabbriche si è imposta una pax romana, il
padronato non ha più paura di pigiare sul pedale del downsizing
e dei licenziamenti di massa, della fuoriuscita violenta dal taylorismo.
Nel 1980 la sconfitta degli operai della Fiat di Torino e la strage
di stato alla stazione di Bologna sono l'epilogo più appropriato
di una tragedia decennale [6].
Il Pci non ammetterà mai le proprie gravissime responsabilità,
anzi, si appunterà sul bavero la coccarda insanguinata
della "vittoria sul terrorismo".
III.
Se pensiamo agli anni Ottanta non ci viene in mente niente,
come scrisse Karl Kraus a proposito di Hitler. Niente, o quasi...
Nessun revival pilotato potrà mai indorare la pillola che
ci intossicò l'adolescenza. Ci vorrebbero più film
come Boogie Nights di Paul Thomas Anderson, per segare
le gambe ad assurde rivalutazioni. Abbiamo dovuto prendere un
potente anti-emetico prima di scrivere i capitoli dedicati a quel
decennio. Ma abbiamo dovuto farlo, perché è stato
un periodo fondamentale per quanto riguarda le emergenze.
Dicevamo: il Pci torna a "fare l'opposizione". Su questo
punto ci piace esprimerci con le parole di Cesare Bermani:
Mentre il Pci è tutto assorbito da una lotta frontale contro l'"estremismo di sinistra", la P2 amplia i propri poteri. La repressione del movimento del '77 - cui il Pci si dedicherà anima e corpo - sarà infatti un'ulteriore ragione dell'ingigantirsi della lotta armata [che a sua volta] distoglierà ulteriormente il Pci dalla necessaria vigilanza in direzione dei centri occulti del fare politica. (Cesare Bermani, in: Centro d'iniziativa Luca Rossi, a cura di, 625. Libro bianco sulla legge Reale, autoprod., Milano 1990, p.92) [7]
A ben vedere, il porre l'accento sulla "questione morale"
serve a ri-indirizzare l'impegno, le energie e la legittimazione
dei "magistrati democratici" (il più delle volte
filo-Pci), quegli stessi giudici istruttori e pubblici ministeri
che si erano mossi per distruggere il movimento. Nei primi anni
del nuovo decennio, a condurre le inchieste sul caso Teardo, sullo
scandalo dei petroli, sul crack del Banco Ambrosiano, sulla P2
etc. sono le stesse procure che, su mandato esplicito delle forze
della "solidarietà nazionale", hanno appena represso
la lotta armata.
È l'inizio di un conflitto tra potere giudiziario e spezzoni
di ceto politico, conflitto che rimarrà strisciante per
tutto il decennio ed esploderà dopo la caduta del muro
di Berlino. In questi anni il corpo dei magistrati inizia ad esercitare,
in modo sporadico, un "giustizialismo di supplenza"
(S. Bologna). È un modo di disinnescare quel poco di conflitto
che è rimasto: il cittadino vittima del sistema dei partiti
e della corruzione amministrativa trae una limitata e temporanea
soddisfazione nel vedere in manette il politicante di turno.
Da parte di certi giudici e Pm, c'è indubbiamente un elemento
di rivalsa nei confronti della Dc (che ha scaricato il Pci quando
ha ritenuto di non averne più bisogno), ma soprattutto
del Psi "autonomista" di Craxi. Quest'ultimo è
l'unica forza politica ad aver rotto il "fronte della fermezza"
tentando una mediazione coi sequestratori di Moro, e tra breve,
presentandosi come ago della bilancia politica, escluderà
definitivamente il Pci dall'area di governo. Due buoni
motivi per fargliela pagare non appena si presenterà l'occasione.
Avendo fiutato tale pericolo, il Psi appoggerà il referendum
sulla responsabilità civile dei magistrati (1987), cercando
di ridimensionare i giudici. Com'è andato a finire lo scontro
lo sappiamo tutti: il partito distrutto, il suo segretario fuggiasco
fuor d'Europa.
Ma ci vorranno anni prima che il ceto politico democraxiano (il
"pentapartito", più tardi semplicemente il Caf,
Craxi-Andreotti-Forlani) venga messo in crisi dalle inchieste,
anche perché il valore principale è per tutti la
"governabilità" (vecchia indicazione trilaterale),
e i procuratori d'assalto non possono andare a fondo alla "questione
morale". In ogni caso, ci pensa il Consiglio Superiore della
Magistratura a tenerli buoni.
La "questione morale" è comunque una preziosa
fonte d'ispirazione per la nuova emergenza.
Nel 1982, con le avanguardie di fabbrica espulse dai luoghi di
lavoro e le formazioni lottarmatiste allo sbando, il "terrorismo"
non è più uno spauracchio convincente. Ma c'è
bisogno di nuovi giri di vite liberticidi, la governabilità
(sistemica, non solo politica in senso stretto) li richiede. In
questo quadro comincia la sintesi e rifinitura degli
strumenti giuridici e delle strategie repressive adottate dallo
stato e dai media nel lustro precedente.
Le armi usate dallo stato nella lotta contro l'"eversione"
terrorista vengono riutilizzate e perfezionate in un conflitto
iper-spettacolarizzato ma un po' meno molare, contro un nemico
altrettanto "eversivo" ma rappresentato come proteiforme,
mutageno, che può infiltrare e corrompere dall'interno
le forze del Bene: l'Idra le cui teste sono Cosa Nostra, Camorra,
P2, Servizi Deviati etc., mostro la cui esistenza darà
per anni lavoro ai dietrologi della sinistra ufficiale. La continuità
tra vecchia e nuova emergenza è garantita a livello simbolico
dalla figura del generale Dalla Chiesa: l'eroe n.1 della lotta
al "terrorismo" conclude la sua carriera a Palermo,
come martire eccellente della lotta alla mafia (1982).
S'inizia a rimproverare lo stato - e gli "intellettuali"
- di non profondere nella lotta al crimine organizzato lo stesso
impegno profuso nello stroncare Br e compagnia. Tale polemica
ha un'esplicita connotazione anti-governativa ed è nutrita
da spezzoni di "società civile" che fiancheggiano
i "magistrati democratici". La mobilitazione morale
è condotta in nome degli "eroi" della lotta alla
mafia, di un genericissimo umanitarismo (esplicitamente contrapposto
a quel poco che rimane di un'analisi e di un conflitto di classe),
di un nuovo frontismo delle persone "oneste"
(che però... parta dal riconoscimento del ruolo del Pci)
e di una statolatria che mette in subordine le garanzie
individuali. La logica e la strategia della nuova emergenza sono
esposte a chiare lettere in passaggi come questo, davvero impressionante
(sottolineature nostre):
... non si potrà andare molto avanti se non si rivaluterà, e di molto, il ruolo dell'uomo nella storia; non del "capo", del re, del grande uomo, ma dell'uomo in assoluto; se non si riscoprirà il valore dell'individualità rispetto ai grandi aggregati economici, sociali e politici. Il fatto che mio padre sia stato ucciso e prima e dopo di lui La Torre, Mattarella, Terranova, Costa, Basile, Giuliano, Ciaccio Montalto, D'Aleo, Chinnici e gli altri eroi dell'Italia contemporanea, questo fatto mi ha indicato una cosa ovvia e al tempo stesso densa di implicazioni radicali: che... la mafia, il potere criminale, ha avuto paura del singolo, dell'uomo, e di uomini di idee politiche anche assai distanti [...] Che l'azione di questi uomini abbia poi sempre trovato nel Pci il sostegno politico più convinto, questo è un dato importante e da non dimenticare. Ma esso non può sostituirsi all'altro dato, forse ancor più importante, che... le forze [da organizzare contro la mafia] non possono essere raccolte e selezionate a partire dalle leggi della competizione politica. [...] In questo Stato law e order, da concetti-cugini diventano in più situazioni concetti-antagonistici. Al punto che l'avvocato Ambrosoli o il prefetto Dalla Chiesa o il giudice che fa il suo dovere diventano destabilizzanti, nei confronti del sistema [leggasi: del regime democristiano, N.d.R.], come e più dell'opposizione politica e delle avanguardie sindacali. [...] cosa offre il sistema delle garanzie liberali quando law e order si distaccano reciprocamente? Si può continuare ad affrontare a spizzichi e bocconi il rapporto fra sistema giuridico e sistema sociale o quello fra garanzie individuali e garanzie collettive? (Nando Dalla Chiesa, Delitto imperfetto. Il generale, la mafia, la società italiana, Mondadori, Milano 1984, pp. 215-216 e 238-239). [8]
Nei discorsi di un altro protagonista della nuova emergenza, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il messaggio statolatrico è lo stesso, ma espresso in una forma più impudicamente reazionaria:
La nostra storia non conosceva, fino ad allora, il regicidio [...] Il primo re ucciso fu Piersanti Mattarella [...] Tutti siamo una linea di resistenza contro la mafia e la cattiva politica che uccidono i Re buoni [...] È una strana resistenza quella che parte da Palermo, una resistenza fatta non da cittadini contro il Re cattivo, ma dagli orfani di Re buoni uccisi, contro i criminali e i loro complici Re. (Leoluca Orlando, Palermo, Mondadori, Milano 1990, pp. 32-33).
Non va sottovalutato, in questo contesto, l'uso ideologico
della fiction televisiva: nel 1984 parte il lunghissimo
sceneggiato La piovra, e un'audience sterminata
si esalta e si commuove per le avventure del coraggioso commissario
Cattani, interpretato da Michele Placido.
Fin da ora i "procuratori d'assalto" appaiono come
il motore più dinamico della transizione verso la Seconda
Repubblica: chi li appoggia rappresenta al meglio l'interesse
generale - omeostatico - del sistema Italia, ed è il miglior
candidato a governarlo non appena gli assetti internazionali,
un po' di maquillage e alcune riforme istituzionali mirate
lo permetteranno.
Certo, questo è lo schema generale astratto, il punto
di vista del capitalista collettivo; giù negli inferi dello
scontro tra cosche le cose sono molto più complesse, fatte
di contraddizioni, resistenze, contraccolpi... Dopotutto, se il
passaggio fosse indolore, non ci sarebbe alcun bisogno di Mani
Pulite. E infatti il pool di Palermo ha parecchi nemici dentro
il Csm, e nonostante la riuscita dell'operazione mediatica nota
come "Maxiprocesso", viene ridimensionato ("smantellato",
dice la propaganda). Ci vorrà lo slancio letale
del 1992 perché la linea-Falcone divenga finalmente, indubitabilmente,
a tutti gli effetti egemone.
Gli anni Ottanta sono anche gli anni di Muccioli, del boom delle
comunità di recupero, della capillarizzazione del controllo
sociale tramite la diffusione di nuove istituzioni totali presuntamente
nate "dal basso" e dal "volontariato", utili
anche come cavalli di Troia di una nuova offensiva cattolica e
clericale.
IV.
Saltiamo direttamente a Mani Pulite. Crollato il "socialismo
reale", terminata l'epoca del dominio bipolare Usa-Urss,
ci si può finalmente liberare dei cascami del vecchio assetto
costituzionale. C'è necessità, da parte del capitale
in via di completa europeizzazione, di avere uno stato
[dalla mano] meno "pesante" dal punto di vista fiscale,
burocratico e tangentizio. Il costo della corruzione (il "keynesismo
criminale" dello stato democristiano) è troppo elevato,
con una simile spesa pubblica non si può entrare in Europa.
La crescita elettorale di forze politiche come le "leghe"
è una chiara domanda di "sovversione dall'alto"
da parte delle nuove imprese del nord, quelle basate sul lavoro
flessibile e l'export internazionale, ormai stanche di lacci e
lacciuoli.
La cosca capitalistica più interessata a sguinzagliare
i procuratori d'assalto lascia che magistratura e potere politico
arrivino allo scontro, per imporre il ricambio di classe dirigente
a colpi di imputazioni e custodia cautelare. La sovversione dall'alto
avviene facendo leva sui contrasti interni allo "stato autoritario
di diritto" costruito con l'emergenza. Nel frattempo, si
introduce il sistema elettorale maggioritario ricorrendo a meccanismi
plebiscitari spacciati per "democrazia diretta" (il
"referendum Segni" etc.), e viene fatta straripare la
fogna del sempiterno fascismo strisciante italico: il nuovo nemico
pubblico è "l'inquisito", il politico corrotto.
La "giudiziarizzazione" della politica è funzionale
alle esigenze di tecnicità/invisibilità/irresponsabilità
del potere, da un lato perché giudiziarizzare la politica
significa dare potere a chi non può essere sostituito,
e quindi può meglio garantire la stabilità del sistema
di fronte alle imperiose domande dell'economia globalizzata, dall'altro
perché l'integrazione europea delle economie nazionali
necessità di qualcuno che scarichi la zavorra di tangentari
troppo esosi. Necessità comune ad altri paesi: non a caso
assistiamo alla grottesca internazionalizzazione del "manipulitismo",
per mezzo di convegni tenuti in giro per l'Europa da Borrelli,
Di Pietro e tutta la compagnia di giro, con conseguente produzione
di inchieste-gemelle in Francia e Spagna. Ancora una volta, come
dicevamo, l'Italia fa da laboratorio.
Ma Borrelli e gli altri si spingono troppo in là, fino
a divenire a loro volta disfunzionali alla stabilità. le
procure dichiarano di voler "rivoltare il paese come un calzino"
e teorizzano/praticano il rifiuto della politica. Hanno finito
per credere alla loro parte e sono destabilizzanti a livello sistemico
- una volta avvenuto il ricambio, toccherà ridimensionarle
Certo, quando si legge, in un'esposizione introduttiva da parte di un Pm in un dibattimento, che i processi in corso sono "Norimberghe italiane" e si paragonano i politici inquisiti ai "generali Keitel e Jodl, a Goering e a Ribbentrop", viene forte la voglia di alzare la voce. Ma in realtà, dietro a queste affermazioni spettacolari e infondate, c'è quella stessa antipolitica che alligna nella società, e contro la quale è giunto il momento di fare una chiara battaglia a viso aperto. (Pietro Folena, Il tempo della giustizia. Magistrati e politica nell'Italia che cambia, Editori Riuniti, Roma 1997, pp.104-105)
E così inizia un nuovo scontro, che mentre chiudiamo questo libro deve ancora giungere al suo culmine.
VI.
Fin qui il contesto generale e la prolessi delle tesi. Ora
alcune note sul metodo. Non si tratta di un resoconto storico
esaustivo, non potevamo certo trattare di tutte le inchieste-chiave,
né tantomeno di tutte le leggi liberticide approvate dal
parlamento negli ultimi 25 anni. Il nostro intento era gettare
luce su certi dispositivi giuridici e mediatici che connettono
l'emergenza degli anni Settanta alle odierne emergenze molecolari,
sullo sfondo della globalizzazione economica, della piena restaurazione
del "modello cattolico" e dell'emergere di un nuovo
potere costituente che presto oserà dire a chiare lettere
il proprio nome. Per farlo, è stato necessario raccontare
alcune storie, non perché fossero le più crude o
le più divertenti, ma perché in esse era più
evidente il meccanismo.
Abbiamo sempre fatto nostra la critica marxiana del diritto,
della sua natura di classe, delle sue soggettività astratte.
Questa critica non può non riguardare il "garantismo".
Siamo fin troppo consapevoli dell'incoerenza (oggettiva) dei sinceri
liberali e degli "umanitari". L'azione di molti di costoro
è nobile, e sicuramente prenderemo parte alle loro battaglie,
ma la rivendicazione di "diritti" - per quanto giusnaturalistici,
"umani", "universali" - conserva tutti i limiti
e le contraddizioni già esposte da Marx. Lo stato capitalistico
riconosce i "diritti" solo in quanto suo fondamento,
sua "base naturale", e non li disgiunge mai da obbrobriosi
"doveri" (ad esempio, contribuire con parte del proprio
reddito al mantenimento della polizia e della macchina militare).
Quanto ai "diritti umani", essi sono sanciti da una
continua legislazione sovra-statale, la stessa in nome della quale
si sono dichiarati gli embarghi ai paesi "nemici" (extra-umani?),
si sono rase al suolo le loro città, si sono sepolti vivi
i loro soldati nelle trincee di sabbia.
La stretta identificazione degli spazi di libertà con il
"totalitarismo dei diritti dell'uomo" ci disarma concettualmente
di fronte alle prevaricazioni dei gendarmi mondiali. Non a caso,
da quando l'analisi delle guerre basata sulla categoria di "imperialismo"
è scomparsa dal discorso pubblico lasciando il posto a
meri belati umanitari, non c'è stata una guerra che abbia
incontrato una seria opposizione e ai cui criminali sia stata
creata qualche difficoltà.
Nondimeno, bisogna saper scendere sul terreno dell'avversario,
usare i suoi strumenti concettuali, dimostrarne il funzionamento,
rivoltarglieli contro con stile (è lo stile la vera
arte marziale, la base di ogni lotta; le tecniche di combattimento
vengono dopo). Da questo punto di vista, ci interessa dimostrare
cos'è e cosa produce il diritto nell'odierno stato autoritario
e nell'impero di cui viene a fare parte, e vogliamo dimostrarlo
usando la lente del garantismo non solo come difesa processuale
ma anche come teoria giuridica, traendone le conclusioni meno
ovvie e sottolineando gli aspetti più in ombra, quelli
che, mettendolo in crisi dall'interno, lo rimettono in gioco (lo
ius resistentiae, la necessità di forzare la legalità
etc.). Vogliamo insomma esplorare il seguente paradosso:
L'individualismo possessivo, il senso capitalistico dell'appropriazione hanno formato, nel periodo eroico del capitale, le tavole dei diritti dell'uomo. È stato un enorme progresso, pagato da secoli di soggezione al più mostruoso sistema di sfruttamento che mai si sia dato. Questi diritti, in quanto competono alla vita proletaria, sono divenuti carne e sangue di lotte rivoluzionarie. Ma in quanto competono al capitale, nell'età della sua crisi, non hanno più alcuna corposa significanza. È per questo che, oggi, battersi in termini garantistici è valido e rivoluzionario. (Antonio Negri, Per un garantismo operaio, in: "Critica del diritto" n.15, Mazzotta, Milano, settembre-dicembre 1979, p.20)
NOTE
1. Insomma, la nostra esposizione concerne il passaggio - indicato
da Gilles Deleuze - dalla "società disciplinare"
alla "società di controllo", ma si concentra
sui meccanismi storici, diacronici di tale passaggio (nonché
sulle responsabilità di chi lo ha governato), anziché,
come spesso accade, sulla descrizione abbacinata di un insieme
di automatismi cibernetici la cui sincronica onnipervasività
finisce per deresponsabilizzare tutti. In questo siamo molto poco
"post-moderni". Detto altrimenti: ormai il paradigma
è entrato nelle teste di tutti, smettiamola di enunciarlo
e soprattutto di contemplare noi stessi mentre lo enunciamo
(principale difetto dei fans del pensiero alla francese, siano
essi "foucaultiani", "deleuziani" o addirittura
"baudrillardiani"). Vediamo di metterlo al lavoro,
questo paradigma (e di ricondurlo al lavoro come presupposto,
cioè al dato umano)!
2. Che fosse proprio questo l'intento di Basso è
testimoniato anche da un suo intervento al Senato nel 1975, nei
giorni in cui si discuteva la famigerata Legge Reale, di cui al
cap.1 del presente libro. In quell'occasione, Basso difese il
"suo" art. 3 dandone l'interpretazione estensiva (e
sovversiva fino al paradosso) che aveva in mente quando l'aveva
proposto:
"L'articolo 3, capoverso, della nostra costituzione dice
che la Repubblica ha l'obbligo di eliminare le diseguaglianze
sociali. Non so se il significato di quell'articolo sia stato
bene afferrato dalla polizia italiana. Ma quell'articolo che stabilisce
che lo Stato ha il dovere di eliminare le disuguaglianze sociali
dice che l'ordine giuridico del nostro paese, così come
la Costituzione lo ha voluto, vuole il cambiamento dell'ordine
sociale. La polizia non deve considerarsi il difensore dell'ordine
sociale ma dell'ordine giuridico e l'ordine giuridico vuole che
l'ordine sociale sia profondamente e radicalmente modificato,
che le disuguaglianze sociali scompaiano. La polizia non ha il
dovere, e neppure il diritto, di difendere unilateralmente la
proprietà e il potere, ma [ha il dovere di difendere] soprattutto
il popolo sovrano che lotta contro la disuguaglianza per realizzare
l'articolo 3, capoverso. Questo è il senso della costituzione."
(625. Libro bianco sulla Legge Reale, a cura del Centro
d'Iniziativa Luca Rossi, Milano 1990, p.341)
Tuttavia, per quanto riguarda il funzionamento dei corpi separati
dello Stato (polizia ed esercito), la Costituzione è molto
lacunosa. I costituenti non regolamentarono i poteri e i limiti
delle forze dell'ordine al di là delle formulazioni dei
princìpi generali. La cosa non rimase senza conseguenze,
cfr. il quinto capitolo ("Appunti di storia costituzionale:
gli apparati coercitivi di stato nella Costituzione italiana")
in: Romano Canosa, Le libertà in Italia. I diritti civili
e sociali nell'ultimo decennio, Einaudi, Torino 1981
3. Furono le rivendicazioni della classe operaia a far
saltare il tappo ideologico del Laissez faire e a mettere
in crisi le rappresentazioni dell'economia liberale classica (la
"mano invisibile" del mercato che da sola avrebbe risolto
tutti i problemi etc.). Per salvare il capitalismo - dalla rivoluzione
o, peggio, dalla sua stessa anarchia, vedi la crisi del '29 -
divenne necessario formulare e mettere in pratica nuove teorie
economiche (come appunto il keynesismo). Il New Deal e
il fascismo furono due soluzioni sperimentate dal capitale a due
diverse longitudini; la seconda si rivelò disfunzionale:
imbrigliava la dimensione antagonistica del lavoro vivo (a vantaggio
di quella meramente produttiva) molto più di quanto fosse
tollerabile; nel far questo, inaugurava una contro-rivoluzione
anti-liberale, fondando un totalitarismo della terra e del sangue
contrapposto al "totalitarismo dei diritti dell'uomo"
(K. Marx). Esplose un sanguinoso conflitto interimperialistico
(1939-45) e l'ipotesi venne, per così dire, "scartata",
non senza che i vincitori facessero proprie alcune delle acquisizioni
più "accettabili" dei vinti.
Qual era stato il prius logico di tutto questo, se non
l'iniziativa della "rude razza pagana", la classe, per
di più determinata a "fare come in Russia"?
4. Chi abbia seguito le prese di posizione di Beppe Grillo (tra cui il celebre "discorso di Capodanno" trasmesso su Tele+ e Tele+2 la sera del 31/12/98), saprà in cosa consista questa abominevole proposta che introdurrebbe nel diritto internazionale l'onnipotenza e l'impunibilità delle grandi multinazionali: se qualche multicorporation (es. la Philip Morris, la Nestlé...) investe in un paese, e se l'investimento non ha buon fine per via di una protesta di cittadini (es. contro una produzione nociva alla salute), l'azienda può denunciare il governo presso una corte internazionale e ottenere risarcimenti tali da mandare in bancarotta il paese. Le informazioni più complete (in inglese) stanno qui: MAI-Not! Discussion Group, <http://mai.flora.org/mai-info/>.
5. Citazioni tratte dal "manifesto" della Trilateral: M. Crozier - S. Huntington - Y. Watanuki, The Crisis of Democracy. Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York University Press, 1975; ed. it. La crisi della democrazia, Franco Angeli, Milano 1977. Prefazione di Gianni Agnelli!
6. Anche per questa strage, come per tutte quelle dopo
Piazza Fontana, la magistratura depisterà incolpando un'organizzazione
estremista e celebrando l'ennesimo processo politico. Siamo assolutamente
convinti che Francesca Mambro e Giusva Fioravanti non siano
responsabili della strage; a che pro esigere che "venga fatta
giustizia" servendo su un piatto d'argento la testa di un
colpevole qualunque (ma preferibilmente un fascista)?
Come scrissero all'epoca i compagni di Insurrezione: "L'aver
attribuito la paternità dell'attentato ai Nar, gruppi di
estrema destra, segue la stessa logica dell'aver attribuito la
paternità di Piazza Fontana agli anarchici. Strage di stato
quella, strage di stato quella. [Ecco] uno degli scopi della politica
statale: non c'è che un terrorismo ed è quello delle
organizzazioni estremiste, comunque colorate [...] uno stato di
tensione e di allarmismo, dove il capitale garante dell'ordine
può colpire chiunque: nel caso specifico italiano, il 2
agosto diventa il 21 dicembre dei neofascisti." (Insurrezione,
Proletari, se voi sapeste..., Varani, Milano 1981, pp.32-33).
7. Ovviamente, il Pci e i suoi eredi danno un'altra interpretazione;
alcuni dietrologi hanno avuto in gestione dal partito il filone
delle varie controinchieste e teorie del complotto sui rapporti
tra eversione di sinistra e servizi segreti (domestici e stranieri).
Persino la montagna di un'apposita commissione parlamentare è
stata ingravidata perché partorisse un topolino di sigle
(Cia, Kgb, Olp e tutto il resto dell'alfabeto), nomi suggestivi
(Hyperion), illazioni e ragionamenti sconnessi. Il più
importante dietrologo dell'ex-Pci è l'ex-deputato Sergio
Flamigni. L'organo ufficiale e cassa di risonanza è la
rivista Avvenimenti. A queste dietrologie da "partito
dell'ordine" ha prestato il fianco anche qualche occasionale
esponente dell'estrema sinistra. Un esempio di connection
virtuale, una fra le tante azzardate da questi personaggi: la
(presunta) bomba mafiosa contro Maurizio Costanzo esplode a qualche
centinaio di metri da una società cinematografica che probabilmente
fa da copertura al Sisde; un'altra società dal nome molto
simile ha sede in via Nicotera, proprio dove 15 anni prima aveva
sede il centro Hyperion, sospettato di essere una delle
centrali del terrorismo europeo; ora, pare che Andreotti
fosse indirettamente coinvolto nella costituzione di Hyperion
tramite un domenicano legato alla Cia... Cos'abbiamo in mano dopo
questa gimcana di supposizioni a ruota libera? Una manciata di
merda.
Queste teorie del complotto sono intrinsecamente conservatrici,
hanno il solo risultato di farci sentire impotenti o di farci
appoggiare questo o quel "politico onesto" o "magistrato
d'assalto". Lo spezzone di ceto politico sopravvissuto alle
emergenze bofonchia queste scemenze per giustificarsi, come per
dire: appoggiando entusiasticamente l'inchiesta 7 Aprile, noi
stavamo in realtà colpendo centri di potere occulti. Grottesco,
oltreché vergognoso.
8. Dalla Chiesa figlio dedica tutta la seconda metà del suo libro alla denuncia di chi, poco dopo l'eccidio di via Carini, avviò la polemica sul "figlio indegno" (e per di più "comunista") di Dalla Chiesa. Noi, sperando di fargli un piacere, lo definiamo senza esitare degno figlio di tanto padre. È oggettivo e innegabile che il gen. Dalla Chiesa, responsabile della sicurezza delle carceri speciali e coordinatore nazionale dell'antiterrorismo, sia stato il garante istituzionale, quando non l'artefice diretto, delle più efferate violazioni dei diritti umani e civili avvenute negli anni Settanta (cfr. capp.2,3,5). Una pillola del Dalla Chiesa-pensiero la troviamo nella sua più celebre intervista, quella concessa a Giorgio Bocca e apparsa su ""La Repubblica"" del 10/8/1982: "Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale: è diventato troppo pericoloso ma si può ucciderlo perché è isolato [...] Così è stato per Coco: magistratura, opinione pubblica e anche voi garantisti eravate favorevoli al cambio fra [il giudice] Sossi e [i detenuti della] XXII ottobre. Coco disse no. E fu ammazzato". Risposta di Bocca: "Generale, mi sbaglio o lei ha una idea piuttosto estesa dei mandanti morali e dei complici indiretti?". La stessa opinione sui garantisti si trova in tutti gli scritti del figlio "comunista".