3. La controriforma carceraria
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Costituzione della Repubblica Italiana, art.27, comma III
A metà degli anni Settanta il carcere è ancora
disciplinato da un regolamento del periodo fascista, è
ancora quello del tavolaccio e del bugliolo. Disposizioni arcaiche,
nessuna misura alternativa alla detenzione se non la liberazione
condizionale (che non è vista come un normale provvedimento
alternativo bensì come un intervento straordinario dall'alto,
qualcosa di simile alla grazia).
Nel periodo 1968-73 esplodono diverse rivolte dei detenuti, che
chiedono: colloqui senza limitazioni, abolizione della censura,
diritto ai rapporti sessuali; diritto di assemblea, di voto e
di commissioni di controllo liberamente elette; abolizione delle
misure punitive e dei trasferimenti; lavoro retribuito e tutelato
al pari di quello esterno; diminuzione delle pene per i reati
contro la proprietà; commissione esterna di controllo sul
carcere contro l'autoritarismo di guardie, direttori e magistrati
di sorveglianza.
Lo stato risponde con la repressione sanguinosa, coi trasferimenti
e gli internamenti in manicomio criminale, addirittura col ricorso
all'esercito. Nel 1974 si verificano due sparatorie con conseguenti
stragi di detenuti, una a febbraio nel carcere fiorentino delle
Murate (un detenuto morto e parecchi feriti) e una a maggio nel
carcere di Alessandria (7 morti, fra cui 5 ostaggi, e 14 feriti).
Ma la riforma carceraria, ferma in parlamento da diversi anni,
non è più procrastinabile.
La riforma (legge n.354 del 26/7/1975) entra in vigore nell'aprile
1976. Essa introduce diverse misure alternative alla detenzione:
l'affidamento in prova al servizio sociale fuori dal carcere,
previsto per pene non superiori a una certa durata; la semilibertà
che consente di trascorrere fuori dal carcere alcune ore della
giornata da dedicare al lavoro, allo studio o comunque ad attività
utili al reinserimento in società; le "licenze"
ai condannati ammessi al regime di semilibertà; i permessi
per motivi di salute o comunque per "gravi e accertati motivi".
Per quanto riguarda l'affidamento in prova e la semilibertà,
non c'è ancora un'adeguata rete di servizi e strutture,
quindi l'unica misura davvero applicata fin da subito sono i permessi.
A rendere lettera morta le misure alternative alla detenzione
c'è anche il fatto che nel 1976 oltre il 60% della popolazione
carceraria è costituito da detenuti in attesa di giudizio,
i quali non possono usufruire di sconti o interruzioni di pena,
né di istituti alternativi, perché nessuno li ha
ancora condannati.
La riforma carceraria è l'ultima del ciclo post-'68 e avviene
già in periodo di repressione. Questo spiega il suo approccio
blando, l'elusione dei principali problemi sollevato dalle rivolte
(pestaggi, rapporti tra carcere e società esterna, tutela
del lavoro dei detenuti...) e anche la lentezza del suo iter parlamentare:
il primo ddl risale addirittura al 1968, ed è stato ripresentato
nel 1972 e nel 1973, ogni volta con significativi peggioramenti.
Per alcuni osservatori la riforma è
coeva e in perfetta sintonia con tutta la complessa serie di leggi speciali approvate in questo periodo. Nè del resto si riuscirebbe a spiegare, se non ricorrendo a una poco credibile "schizofrenia del potere", per quale arcano mistero quelle stesse forze politiche che, facciamo un esempio, approvano una legge Reale, contemporaneamente avrebbero dovuto approvare una riforma carceraria con valenza e significato politico opposto. Nè può trovare maggior credito la tesi volta ad avvalorare l'ipotesi di un ordinamento penitenziario frutto di un compromesso tra diverse forze politiche presenti in Parlamento, con un chiaro riferimento alle forze della sinistra storica. Bisognerebbe chiedersi, in questo caso, quale è stata la linea alternativa di ordine pubblico portata avanti da queste forze politiche. E più in specifico, quale è stata (se mai c'è stata) e con quali mezzi è stata sostenuta da queste stesse forze una linea alternativa di politica penitenziaria. (Efisio Loi, "Il carcere riformato: miseria di una riforma e miseria del riformismo", in Critica del diritto, n.12, Mazzotta Editore, Milano, autunno 1977, p.40)
Le formulazioni sono talmente imprecise e difettose (Loi proseguiva:
"princìpi vagamente umanitari e risocializzanti, svuotati
di ogni significato concreto") che si rende necessaria una
"novella", una correzione: la legge n.1 del 12/1/1977
estende l'applicabilità delle misure alternative ai recidivi
per reati della stessa indole. Nello stesso periodo inizia - e
non finirà più - la polemica forcaiola sulle "scarcerazioni
facili" e i giudici di sorveglianza: com'è possibile
aizzare la gente contro chi turba l'ordine pubblico, se quei bastardi
escono come se niente fosse? Occorre far intervenire organi giudiziari
superiori, che possano revocare i provvedimenti e perseguire i
giudici di sorveglianza.
Il 5 gennaio il ministro di grazia e giustizia Bonifacio rilascia
al "Corriere della sera" un'intervista significativamente
intitolata "Perché nelle carceri italiane si entra
e si esce come in albergo". Tre giorni dopo il presidente
del Consiglio Andreotti annuncia alla stampa che la riforma potrebbe
essere sospesa. Nel frattempo viene iniziata azione disciplinare
contro tre giudici di sorveglianza, rei di aver concesso troppi
permessi. Uno di questi viene addirittura sospeso dalle funzioni
e dallo stipendio. Il 5 maggio la commissione giustizia della
Camera approva un disegno di legge governativo sui permessi, che
dopo l'approvazione della Camera diventa la legge n.450 del 20/7/1977.
D'ora in poi i permessi verranno dati solo in "casi eccezionali"
o per "eventi familiari di particolare gravità".
Praticamente quasi mai. Addio "reinserimento".
Ma il vero cuore della controriforma carceraria è la
creazione, per decreto interministeriale (4/5/1977), di una rete
di supercarceri, o "carceri speciali", gestito da un
"servizio di sicurezza esterno degli istituti penitenziari",
la cui direzione viene assegnata al generale Dalla Chiesa, che
l'anno dopo riceverà anche il mandato speciale occulto
per combattere il terrorismo.
I primi cinque supercarceri vengono istituiti nel luglio 1977:
Favignana, Asinara, Cuneo, Fossombrone e Trani.
Chi verrà "ospitato" da queste strutture? L'assegnazione
e il trasferimento avvengono a totale discrezione dell'amministrazione
carceraria, e dipendono dalla condotta del detenuto (partecipazione
a rivolte o evasioni, violenza, ma anche segnalazioni di spie
e rapporti delle guardie), nonché dalla natura del reato
(banda armata, rapina a mano armata, etc.). Su tali decisioni
non c'è alcun controllo da parte del giudice di sorveglianza.
Sia per la nebulosità dei criteri appena esposti, sia per
le condizioni di "vita" al loro interno, le carceri
speciali si collocano al di fuori della costituzionalità
e addirittura della legalità ordinaria. In fin dei conti,
non c'è vera e propria legge che le abbia istituite (poena
sine lege!), e i criteri di assegnazione rappresentano addirittura
un arretramento rispetto al Ventennio: L'articolo 280 del regolamento
Rocco del 1931 stabiliva che i detenuti fossero mandati alla "casa
di rigore" per decisione del giudice di sorveglianza, non
per decisione arbitraria dell'amministrazione.
Ecco la testimonianza di Tonino Paroli (del nucleo "storico"
delle Br), resa nel 1984 durante il processo alla colonna "Walter
Alasia":
... dopo 10 anni a me tolgono ancora i colloqui, infieriscono sugli affetti, mi censurano la posta, senza pensare a tutti gli anni passati, quando arrivava la posta e magari, su tre fogli, ne mancava uno, proprio scientificamente per infierire, dall'Asinara in poi, là dove c'era il Condor (Cardullo, lo chiamavamo il Condor), che ci mise subito in celle non più grosse delle camere di sicurezza, in 4, con il bugliolo e il gabinetto lì, per mesi e mesi. [...] Ho fatto due anni di carcere normali, dal '75 al '77, poi, nel luglio '77 Dalla Chiesa aprì il circuito dei "camosci"; venni prelevato a Modena, a 20 Km. da casa, in piena notte e con l'elicottero vengo portato all'Asinara e da lì non se ne esce più.
Da lì inizia una tortura totale; di colloqui ce ne spettano 60 all'anno e, a 2000 Km. di distanza, se ne fanno 5/6 all'anno; isolamento; da 10 anni mi spogliano 2/3 volte al giorno; tuttora, sono denudato due volte al giorno! (AA.VV., Frammenti... di lotta armata e utopia rivoluzionaria, Quaderno n.4 di "CONTROinformazione", Milano 1984, p.5)
Salta agli occhi il contrasto con la riforma carceraria, ma
si capisce anche quanto quest'ultima fosse falsa:
- l'articolo 42 prevedeva che i detenuti fossero destinati ad
"istituti prossimi alla residenza delle famiglie", mentre
le carceri speciali si trovano il più delle volte in culo
a Cristo.
- l'articolo 15 basava il trattamento carcerario sui "contatti
con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia"; gli articoli
18, 28 e 29 entravano nello specifico di tali rapporti, stabilendo
tra l'altro il diritto dei detenuti a "informare immediatamente
i congiunti e le altre persone da essi indicate" sui trasferimenti
o sulle proprie condizioni di salute. Ma nelle carceri speciali
i direttori limitano i colloqui a propria discrezione. Quelli
che vengono concessi avvengono attraverso un vetro antiproiettile,
e ci si parla al citofono. Tutte le conversazioni vengono registrate,
i suoni e le immagini dei congiunti deformati dal vetro. Quanto
ai trasferimenti, avvengono in continuazione: nei primi tempi
pochi detenuti rimangono nello stesso supercarcere per più
di due mesi.
Le carceri speciali non sono tutte uguali, in ciascuno di essi
si sperimenta un diverso tipo di tortura psicologica: a Fossombrone
(Ps) si sta in isolamento 24 ore su 24, all'Asinara si sta in
celle piccole di tre persone 24 ore su 24 senza mai vedere nessun
altro, costretti a una snervante intimità forzata. La costante
è che si è isolati tre volte: isolamento dal
mondo esterno (parenti, amici, difensori), per via dei trasferimenti
continui, del costo del viaggio, dei permessi di visita frequentemente
revocati; isolamento dal resto della popolazione detenuta;
isolamento tra i singoli detenuti all'interno dello stesso
supercarcere. All'Asinara i detenuti non possono avere francobolli,
per fare la doccia sono concessi solo 4 minuti, nelle celle l'acqua
è a malapena potabile e spesso viene a mancare, idem per
la luce. Per non parlare dei pestaggi da parte dei secondini.
Lo scopo delle carceri speciali è la distruzione preventiva
della resistenza e della personalità dei detenuti.
L'1/10/1977 "Il giornale" di Indro Montanelli pubblica
un reportage del vice-direttore Mario Cervi in visita al supercarcere
di Fossombrone. Cervi descrive compiaciuto l'inumanità
della struttura, e osserva soddisfatto:
Le celle di isolamento totale (insonorizzate) che può essere disciplinare o giudiziale... sono ancora in allestimento. Ognuna di esse ha un cortiletto separato per l'aria. Chi ci sarà destinato non avrà contatti con altri [...] Dal punto di vista psicologico il passaggio dai regimi lassisti [!] a questo regime di particolare attenzione è stato avvertito duramente. Si hanno manifestazioni di nevrosi. Le supercarceri rappresentano, a nostro avviso, un valido mezzo per conciliare sicurezza e riforma. Non repressione, ma prevenzione, cautela, correzione, che sono, a volte, non solo un diritto, ma un dovere dello stato. (Mario Cervi, cit. in Il caso Coco - Processo a Giuliano Naria, Collettivo Editoriale Librirossi, Milano 1978, p.87)
Quanto fossero "lassisti" i precedenti regimi carcerari
lo dimostra il trattamento subito dagli "estremisti"
anche prima della formalizzazione del circuito speciale. Per essi
esiste già un trattamento "speciale" anche all'interno
del carcere ordinario, che mira a piegare la loro integrità
psico-fisica: la trafila inizia con l'isolamento, poi provocazioni,
minacce, divieto di fare la doccia o di lavarsi, impossibilità
di cambiarsi d'abito, continui controlli, aprire e chiudere di
cancelli, niente visite mediche, celle sporche e umide; destabilizzazione
psicologica: il detenuto viene svegliato più volte a notte
con l'apparente motivazione di controllare le sbarre, in realtà
lo scopo è tenerlo in continua tensione. Il tutto accompagnato
da insulti e botte. La caratteristica principale resta comunque
l'isolamento: nessun contatto con altri esseri umani che non siano
le guardie, nessuna notizia dei parenti, corrispondenza bloccata
o comunque filtrata.
Dopo questo primo periodo, parte un nuovo ciclo, che alterna l'isolamento
al sovraffollamento in celle piccolissime, con trasferimenti improvvisi
da un carcere all'altro, programmati scientificamente con lo scopo
di impedire qualunque forma di socializzazione o - peggio che
mai - organizzazione tra i detenuti politici, e ovviamente per
rendere difficile il contatto con parenti, amici e col proprio
avvocato difensore. I trasferimenti avvengono sempre all'alba,
o comunque quando tutti i detenuti sono nelle celle; una squadra
di secondini preleva il detenuto così come si trova, in
pigiama o in mutande, senza consentirgli di avvisare o salutare
nessuno, né prelevare oggetti personali (vestiti, libri,
cibo). Spesso non è sufficiente trasferire un solo compagno,
così tutti i compagni di un blocco vengono improvvisamente
sparpagliati per i meandri del sistema carcerario.
Nelle prigioni la situazione peggiora ulteriormente nel 1981,
quando il ministro di grazia e giustizia, avvalendosi dell'art.90
della "riforma" carceraria, dispone, in determinate
carceri o addirittura in singole sezioni (subito ribattezzate
i "braccetti della morte"), la sospensione - apparentemente
senza motivo - di alcune regole e istituti previsti dalla legge
354. I detenuti vengono sottoposti a infinite costrizioni e umiliazioni,
fino alle pene d'inferno della cosiddetta "privazione sensoriale",
cosa che avviene già da tempo, con tragici risultati, nei
supercarceri della Germania federale.
In alcune carceri i detenuti vengono privati di ogni effetto personale
(compresi i fornelli per cucinare in proprio, e spesso l'alimentazione
fornita dal carcere è insufficiente); sono chiusi in celle
minuscole, in isolamento totale, con una sola ora d'aria giornaliera;
per via dei citofoni e della completa automazione di porte e cancelli,
non hanno quasi nessun contatto col personale di custodia; sono
continuamente sorvegliati da telecamere, ripetutamente perquisiti
e privati il più possibile di stimoli sensoriali (rumori,
colori, spazio visivo). Un gruppo di avvocati milanesi sporge
denuncia contro il ministro per omissione e abuso in atti d'ufficio,
e concorso in abuso d'autorità contro detenuti. I familiari
dei detenuti inscenano dure proteste contro l'art.90.
I "braccetti della morte" sono per chi non "collabora"
e non si "pente". Tra questi - non va mai dimenticato
- vi è anche chi si professa innocente. Essere investiti
dalla macchina giudiziaria equivale ormai a discendere nell'ade
tecnologico, sbattuti da una bolgia di dannati all'altra, esposti
a ogni tipo di abuso e sopruso.